domenica 10 novembre 2019

Ex Ilva, a Jersey il tesoro di Mittal, l’uomo che deciderà il futuro di Taranto. - Angelo Mincuzzi

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Le immense ricchezze di Lakshmi Mittal, l’uomo che vuole abbandonare l’Ilva di Taranto al suo destino, rimandano a un piccolo paradiso nel Canale della Manica, l’isola di Jersey.

Platino, argento, titano, cromo, osmio, americio. Metalli o elementi del metallo. Chi vuole capire dove sono custodite le immense ricchezze di Lakshmi Mittal, l’uomo che vuole restituire l’Ilva di Taranto, deve partire da questi sei nomi e da un piccolo paradiso nel Canale della Manica, l’isola di Jersey. Qui ci sono i sei trust della famiglia indiana che controlla il più grande gruppo siderurgico del mondo: ArcelorMittal.

Le casseforti dei Mittal e dei Riva.
E qui a Jersey si mescolano anche gli ingredienti di una storia che non ha ancora una fine ma che fa emergere coincidenze dal passato. Perché - per capriccio o ironia della sorte - le casseforti dei Mittal distano solo una manciata di metri dagli otto trust di Jersey attraverso i quali le famiglie di Emilio e Adriano Riva controllavano, guarda caso, la stessa Ilva. O almeno così è stato fino a quando, a causa di un’inchiesta giudiziaria, i Riva sono stati espropriati dallo Stato e lo Stato ha poi ceduto l’Ilva - ancora un caso - alla ArcelorMittal della famiglia indiana.

Mittal e Riva. Riva e Mittal. Su binari diversi ma paralleli, le storie delle due famiglie si intrecciano in precisi punti geografici della vecchia Europa e si sovrappongono negli schemi utilizzati per mettere al sicuro il patrimonio di famiglia. Sullo sfondo, ma neppure tanto, c'è il dramma dell'Ilva e dei suoi 15mila lavoratori, la tragedia di Taranto e di quell'aria colorata di ruggine che penetra nei polmoni. L'incertezza del futuro.

L'uomo da 12,5 miliardi.
Mittal è un uomo seduto su una montagna di soldi. Tanti soldi. Almeno 12,5 miliardi di dollari secondo Bloomberg, 11,9 miliardi secondo Forbes, che lo colloca al 129° posto tra i più ricchi della terra. È lui l'imprenditore che il 6 novembre ha incontrato per tre ore il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e che si appresta a sostenere una battaglia legale contro il governo italiano in caso di mancato accordo sul futuro dell'Ilva.

Sessantanove anni, una moglie, due figli, dal 2008 nel board di Goldman Sachs, Lakshmi Mittal abita in una villa di 5.109 metri quadrati a Kensington Palace, nel centro di Londra, acquistata per 57 milioni di sterline da Bernie Ecclestone. L'abitazione è chiamata “Taj Mittal” per la sfarzosità dei suoi marmi e del suo arredamento.

La lettera di ArcelorMittal ai commissari Ilva: ecco perché ce ne andiamo - Zingaretti apre a un nuovo scudo
Il Sole 24 Ore ha ricostruito i passaggi attraverso i quali la famiglia del miliardario indiano controlla il 37,39% di ArcelorMittal, di cui Lakshmi Mittal è presidente e chief executive officer e il figlio Aditya è responsabile finanziario. La chiave per accedere alle stanze segrete del patrimonio di Lakshmi Mittal si trova a 2.200 chilometri a Nord di Taranto. Ma per comprenderlo meglio, bisogna riavvolgere il nastro della storia e tornare a un'estate di nove anni fa. A Jersey.

I sei trust di St. Helier.
Lakshmi Mittal e sua moglie Usha danno un ultimo sguardo ai fogli di carta prima di firmare. Quello che hanno davanti è un documento di 25 pagine zeppo di clausole e di cavilli, scritto con il linguaggio burocratico che hanno tutti i contratti. Si intitola “The platinum settlement” ed è l'atto di nascita di un trust: il più importante dei sei che quel giorno blindano a doppia mandata il controllo di ArcelorMittal, il gruppo siderurgico che sette anni dopo si aggiudicherà l'Ilva di Taranto.

È venerdì 18 giugno 2010 e come tutti i venerdì, a St. Helier, ordinata e noiosa cittadina dell'isola di Jersey, nel Canale della Manica, i pub sono pieni di avventori per un boccale di birra prima del week end. Il pomeriggio è fresco e il vento ha concesso una tregua nell'isola di proprietà della Corona britannica. I colori sono l'azzurro del mare e il verde acceso dei prati su cui pascolano vitelli dalla carne pregiata. Di impianti siderurgici neppure l'ombra.

Si brinda nei pub del centro. E si festeggia anche negli uffici della Hsbc Trustee. La società è stata nominata amministratrice fiduciaria dei trust dell'uomo più ricco della Gran Bretagna, quell'indiano arrivato dal Rajasthan che con l'acciaio ha ribaltato la storia dell'Impero britannico colonizzando Londra e l'Europa.

Lakshmi Mittal e sua moglie, insieme ai due figli Aditya e Vanisha, sono i beneficiari di quei trust i cui nomi testimoniano un attaccamento all'elemento che ha fatto la loro fortuna: si chiamano Platinum, Silver, Titanium, Americium, Osmium e Chromium Trust. Nessun dubbio che appartengano alla più importante dinastia dell'acciaio.

I poteri di Mr. Mittal.
Jersey è il regno dei trust, un istituto giuridico nato nel mondo anglosassone all'epoca delle Crociate, quando tra il 1300 e il 1400 i Cavalieri che partivano dalla Gran Bretagna per la Terra Santa affidavano i loro beni a persone di fiducia che li amministravano durante la loro assenza: i trustee. Gli averi venivano poi restituiti al legittimo proprietario al suo ritorno, oppure alla sua famiglia in caso di morte.

I sei trust erigono un muro di riservatezza intorno agli averi della famiglia Mittal. In teoria il trust crea una separazione tra i beni e i suoi proprietari, che non ne possono più disporre avendoli affidati a un trustee: in questo caso Hsbc. Ma la legge di Jersey è una legge particolare. E tra le clausole dell'atto di nascita dei sei trust ce n'è una che dice che ogni decisione importante deve essere assunta con il consenso scritto di Lakshmi Mittal, che è contemporaneamente settlor (cioé il disponente), il protector e il beneficiario dei trust.

IN SEI FIDUCIARIE LE CHIAVI DELL'IMPERO ARCELORMITTAL
Le società che permettono alla famiglia di Lakshmi Mittal di controllare la società siderurgica



Sulla rocca di Gibilterra.
Il possesso e i dividendi delle azioni ArcelorMittal finiscono ai beneficiari dei sei trust. Ma non direttamente. Prima i soldi devono percorrere migliaia di chilometri in mezza Europa, in gran parte all'interno di paradisi fiscali.

I trust controllano il 100% di una società che è a 1.939 chilometri di distanza da Jersey. È la Grandel Limited, domiciliata nel paradiso fiscale di Gibilterra. Il Platinum e il Silver Trust posseggono rispettivamente il 70% e il 30% delle azioni di tipo A della Grandel. Si tratta di titoli che posseggono il diritto di voto ma non il diritto a percepire un dividendo. Gli altri quattro trust si dividono il 100% delle azioni di tipo B, che percepiscono una remunerazione ma non hanno la possibilità di votare.

Con 35mila abitanti e 60mila società registrate, a Gibilterra le imprese pagano solo il 10% di imposte sugli utili e se non svolgono alcuna attività nel territorio britannico d'oltremare possono esserne addirittura esentate. Qui si concentrano i dividendi che la famiglia Mittal riceve dalla sua partecipazione azionaria nel gruppo ArcelorMittal e nelle altre società che controlla. Dividendi che vengono poi incassati dai trust di Jersey.

L'approdo nel Granducato.
Per arrivare ad ArcelorMittal la strada è però ancora lunga. Bisogna percorrere altri 2.314 chilometri per varcare i confini del Lussemburgo, dove i Mittal posseggono il 100% della Value Holdings, società che nel 2018 ha registrato un utile netto di 346 milioni di dollari, dopo aver ripianato perdite precedenti per 915 milioni di dollari.

Value Holdings è l'entità che controlla le due società che hanno direttamente in pancia le azioni di ArcelorMittal: la Nuavam Investments (che possiede il 6,24% di ArcelorMittal) e la Lumen Investments (che controlla invece il 31,15% del gruppo siderurgico). I dividendi che queste due società hanno pagato a Value Holdings sono ammontati nel 2018 a 37 milioni di dollari. È questo il guadagno che la famiglia Mittal ha ricavato dal possesso delle azioni di ArcelorMittal. E qui il passato torna a sovrapporsi al presente. Nel Granducato c’erano (e ci sono ancora) anche i Riva, che controllavano Ilva attraverso le holding Utia e Stahlbeteiligungen. Lo schema, insomma, si ripete.

Dai trust di Jersey alla ArcelorMittal, ci sono dunque tre livelli intermedi che si interpongono tra la proprietà e la holding quotata del gruppo siderurgico. E scendendo ancora più in basso c'è un altro livello prima di arrivare all'ex Ilva: la Am Investco Italy.

Gli interessi in Italia.
Ma la più grande acciaieria europea non è l'unico interesse della famiglia Mittal in Italia, dove opera tra l'altro anche la ArcelorMittal Italy Holding. A Massalengo, in provincia di Lodi, e a Podenzano (Piacenza) ci sono gli stabilimenti della Aperam Stainless Services & Solution, 180 dipendenti, 262 milioni di fatturato nel 2018 e un utile di 1,7 milioni. La società fa capo alla lussemburghese Aperam SA, controllata dalla Value Holdings II, a sua volta posseduta dalla Grandel II Limited,di Gibilterra. Dove abbiamo sentito questi nomi? Lo schema è esattamente lo specchio di quello di ArcelorMittal, ma in questo caso raggruppa le società siderurgiche della famiglia indiana che non fanno parte di ArcelorMittal. Lakshmi Mittal, dunque, lascerà pure la ex Ilva ma non abbandonerà l'Italia. E i dividendi, mercato permettendo, continueranno ad affluire verso i verdi prati dell'isola di Jersey.


sabato 9 novembre 2019

La Lega e il presunto bond da 300.000 euro di ArcelorMittal.

Con la decisione di recedere dal contratto sottoscritto soltanto un anno fa, ArcelorMittal vuole uscire fuori dalla gestione dell’Ilva fornendo come motivazione la revoca dello scudo penale e la decisione del Tribunale di Taranto di chiudere l’altoforno 2, che di fatto renderebbe impossibile rispettare il contratto di produzione.
La verità però potrebbe essere un’altra: complice anche la crisi mondiale nel settore dell’acciaio, ArcelorMittal in un anno avrebbe già perso con l’Ilva 1 miliardo e per andare avanti vorrebbe diminuire la produzione con relativi 5.000 esuberi tra i lavoratori, altrimenti arrivederci a grazie.
Una questione che ha provocato immancabilmente una dura polemica anche politica, con la Lega in prima fila nell’attaccare il governo reo di aver creato i presupposti con la revoca dello scudo penale (in verità misura votata anche dalla Lega quando era al governo con i 5 Stelle) per una fuga del colosso franco-indiano.
Adesso però si sta tornando a parlare anche di un’altra vicenda, passata sotto traccia al momento della sua denuncia un po’ come il caso Metropol ma che ora potrebbe portare a più di un grattacapo per Matteo Salvini.
Fonte Twitter
Stando ai documenti rivelati da Giovanni Tizian e Stefano Vergine nel loro libro, in barba alla legge che lo vieta la Lega avrebbe investito come si può vedere dal promemoria datato maggio 2014 oltre 5,7 milioni in obbligazioni.
Per quanto riguarda ArcelorMittal il Carroccio avrebbe investito in totale 300.000 euro, con Matteo Salvini che si è difeso sulla falsa riga della vicenda Russia dicendo di chiedere conto all’amministratore in quanto “ho 10.000 euro in azioni e non ne ho di ArcelorMittal”.
Sarebbe necessario a riguardo per fugare ogni dubbio un chiarimento di Giuliano Centemero, il tesoriere della Lega al centro di alcune indagini sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti dalla onlus PiùVoci, legata al Carroccio, da parte del costruttore Luca Parnasi e di Bernardo Caprotti creatore di Esselunga venuto a mancare nel 2016.
https://www.money.it/Lega-investito-bond-Arcelor-Mittal-contro-legge
Leggi anche: 
Il documento che gira in rete sui bond della Lega in Mittal è autentico. Ma non proviene dalla contabilità della Lega. Proviene da un prospetto riepilogativo di Unicredit che ha veicolato la transazione. Per arrivare a quest'informazione è stata fatta una ricerca a ritroso. E già qui una domanda me la porrei. Perché la Lega ce l'ha tenuto nascosto? Seconda osservazione: la data, 2014. Un anno prima che Mittal sbarcasse in Italia, Ilva era ancora dello Stato e non c'era nessun compratore, nemmeno Mittal. Che senso ha "investire", trecentomila euro in una multinazionale indiana che in quel momento era lontana anni luce dai nostri radar? Strana "coincidenza" che proprio quell'impresa così lontana da noi in quel momento, sia poi stata la "prescelta" in una rocambolesca "gara" che di gara ha ben poco. L'ex ministro Calenda scelse la peggiore offerta bocciata anche dai commissari straordinari del Governo... Terza osservazione: Salvini a domanda di una giornalista (MIRACOLO! Hanno trovato il coraggio di fargli finalmente la domanda!) risponde che non ne sapeva nulla. Eh no! Salvini nel 2014 era segretario della Lega da alcuni mesi. Il cassiere Centemero (tra l'altro rinviato a giudizio insieme al cassiere del PD Bonifazi e Parnasi per finanziamenti illeciti ai partit) rispondeva agli ordini del segretario federale Matteo Salvini. Il cassiere non prende di sua sponte 300 mila euro dalle casse del partito per investirli in una multinazionale indiana, senza dirlo al "capitano". Riepilogando: Nel 2014, quando neppure c'era una gara per vendere Ilva e Arcelor-Mittal era un oggetto sconosciuto alla politica e ai risparmiatori italiani... così... d'emblée, il cassiere della Lega che ha in comune con il cassiere del PD anche un processo per finanziamento illecito.. prende di buzzo 300 mila euro dalle casse disastrate della Lega e le butta in una multinazionale indiana. "Coincidenza" vuole che l'anno successivo si indica una gara e due anni dopo, contravvenendo a ogni logica di analisi industriale, il ministro piddino Calenda, bocci un piano industriale e ambientale del competitore Jindal, in gara contro Mittal... di cui fa parte anche lo Stato con Cassa depositi e Prestiti... e promuova il piano Mittal bocciato dai suoi stessi commissari di Governo, quello che guarda il "caso" aveva dato un bond da 300 mila euro a Salvini...Visto che la lega ci ha tenuto nascosto questo bond finora, la domanda è legittima: con quali soldi ha pagato il bond a Mittal?? Sono veramente i soldi della Lega?? Oppure è un'altra forma di finanziamento illecito ai partiti di una multinazionale estera per influenzare a suo favore, le decisioni dei partiti su Ilva in seguito?
stefano.ragusa.
https://www.facebook.com/stefano.ragusa.902?fref=search&__tn__=%2Cd%2CP-R&eid=ARA_o6Vsq5oWcTTNDF9n-U-W_r8KioDmZWcLJsoDIHRHtx7MJpTU-xm7tDPG8tYosRXnsu0Uod0wjn1p

Mps, condannati gli ex vertici Mussari, Vigni e Baldassarri con Deutsche Bank e Nomura per le operazioni legate ad acquisto Antonveneta.

Mps, condannati gli ex vertici Mussari, Vigni e Baldassarri con Deutsche Bank e Nomura per le operazioni legate ad acquisto Antonveneta

I capi di imputazione vanno dalle false comunicazioni sociali all’aggiotaggio all’ostacolo alla vigilanza. Sul banco degli imputati - tutti condannati - 13 persone: oltre agli ex vertici dell'istituto anche sei ex dirigenti di Deutsche Bank e due ex manager di Nomura. Sei anni fa lo scoop del "Fatto".

Tutti condannati nel processo per i derivati del Monte dei Paschi di Siena. Il tribunale di Milano ha dato 7 anni e 6 mesi di carcere all’ex presidente Mps – nonché ex numero uno dell’Abi – Giuseppe Mussari, 7 anni e 3 mesi all’ex direttore generale Antonio Vigni e 4 anni e 8 mesi all’ex responsabile area finanza Gian Luca Baldassarriimputati per le presunte irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese tra il 2008 e il 2012 per coprire le perdite dovute all’acquisizione di Antonveneta, costata circa 10 miliardi di euro nel 2008. La sentenza arriva sei anni dopo lo scoop del Fatto Quotidiano che per primo parlò dell’accordo segreto tra Mps e Nomura per truccare i conti.
I giudici hanno anche condannato Daniele Pirondini, ex direttore finanziario di Rocca Salimbeni, a 5 anni e 3 mesi. Sono state ritenute colpevoli anche Deutsche Bank e la sua filiale londinese e Nomura, imputate a Milano in qualità di enti. Dovranno versare sanzioni pecuniarie per oltre 3 milioni di euro e sono state disposte confische per un importo complessivo di oltre 150 milioni di euro.
E’ di 300mila euro inoltre il risarcimento dei danni che gli ex vertici di Mps in solido con i due manager di Nomura e le due stesse banche in qualità di responsabili civili dovranno versare a Consob, parte civile. Al centro del processo c’erano le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, sul prestito ibrido Fresh e sulla cartolarizzazione Chianti Classico. Operazioni che secondo l’accusa, rappresentata dal pm Giordano Baggio, sarebbero state utilizzate per nascondere perdite per oltre 2 miliardi di euro. I capi di imputazione vanno dalle false comunicazioni sociali all’aggiotaggio all’ostacolo all’autorità di vigilanza. Sul banco degli imputati – tutti condannati – ci sono 13 persone, oltre agli ex vertici Mps anche sei ex dirigenti di Deutsche Bank e due ex manager di Nomura e tre società: Nomura e la sede di Londra e la sede centrale di Deutsche. La banca senese è uscita dal processo con un patteggiamento nel 2016.
A tutti i condannati sono state concesse le “attenuanti generiche”, con l’eccezione di Mussari e dell’ex managing director di Deutsche Bank Ivor Scott Dunbar. Escluse le aggravanti della transnazionalità e del “grave nocumento ai risparmiatori”. “Anche a Siena eravamo partiti con una condanna, e l’esito è a tutti noto. Svanirà anche questa incredibile condanna, perché Giuseppe Mussari è innocente”, hanno commentato gli avvocati Tullio Padovani, Fabio Pisillo e Francesco Marenghi, difensori dell’ex presidente di Mps. “Siamo convinti dell’innocenza del dott. Vigni e faremo di tutto per dimostrarlo nei prossimi gradi di giudizio”, dicono dal canto loro i difensori di Vigni Carla Iavarone e Francesco Centonze. “Siamo delusi dalla sentenza. Valuteremo le motivazioni una volta che saranno pubblicate”, recita invece la nota ufficiale con cui Deutsche Bank commenta la condanna.

AUTO CON MOTORE AD ACQUA che fa 5000km con 5 litri.




Un sogno che si avvera?

Fatti e misfatti.


Rispondendo alla domanda di fb: sto pensando che anche quest'anno ho donato la mia strenna al comune di Monreale pagando la Tari...quasi 400 €.
Premetto che in 14 anni non ho mai visto un netturbino, non abbiamo luci nella strada, non hanno mai fatto una disinfestazione e/o derattizzazione e non esiste alcun controllo del territorio.
Dimenticavo, siamo appena in due.
A tale proposito voglio raccontarvi un aneddoto capitatomi personalmente.
Precedentemente, essendomi arrivata un'aggiunta di 27 € a quanto già addebitatomi e pagato, ho telefonato al responsabile dell'ufficio specificando che, contrariamente a quanto sostenevano, in casa eravamo in due e non in tre, in quanto il mio ex aveva domicilio in altro comune regolarmente registrato e che, quindi, non avrei dovuto pagare quell'aggiunta...sapete che mi ha risposto? Che la terza persona era stata aggiunta perchè io avrei anche potuto ospitare il mio ex per qualche giorno senza segnalarlo al comune.
Interdetta dalla risposta gli ho chiesto, ironicamente s'intende, se avrei dovuto avvisare il comune ogni volta che ospitavo qualche figlio o nipote o ospite.....poi, senza attendere risposta ho chiuso e non ho mai pagato i 27 €.

Vi assicuro che la mia non è una barzelletta, ma pura e semplice realtà.
by Cetta

venerdì 8 novembre 2019

Foggia, hotel di lusso e biancheria intima coi soldi della Asl: condannato ex manager Sanitaservice. - Massimiliano Scagliarini

Foggia, l’Asl rassicura  Sanitaservice va avanti

Per la Corte dei Conti Di Biase dovrà risarcire 480mila euro.

Per molti anni ha percepito stipendi d’oro dalla Sanitaservice di Foggia, sperperando anche 120mila euro in cene, buffet per centinaia di persone e persino biancheria intima femminile e i servizi di un investigatore privato. Per questo l’ex amministratore unico, Antonio Di Biase, dovrà risarcire la Asl con 480mila euro. Lo ha stabilito la Corte dei conti, dopo che lo scorso anno il manager 70enne di Trinitapoli fu destinatario di due sequestri di beni: uno da parte del gip di Foggia, nell’ambito di un fascicolo per peculato coordinato dal procuratore aggiunto Francesca Pirrelli, l’altro da 527mila euro su richiesta dell’allora vice-procuratore contabile Pierpaolo Grasso.

L’inchiesta erariale è nata da una denuncia del successore di Di Biase, Massimo Russo, che ha collaborato con la giustizia anche nell’indagine penale a carico di Angelo e Napoleone Cera. Nel fascicolo sono poi confluite le risultanze degli accertamenti fiscali svolti su Sanitaservice Foggia dalla Finanza di Lucera, che hanno fatto emergere altre irregolarità.
In breve, secondo la sentenza della Corte dei conti (presidente Raeli, relatore Fratini), Di Biase avrebbe disposto liberamente dei soldi della società che si occupa di ausiliariato, liquidandosi a vario titolo compensi non dovuti a titolo di stipendio e indennità di fine mandato, con «reiterati prelievi del valore di migliaia di euro mensili compiuti dal Di Biase a mezzo di carta di credito aziendale» e «polizze assicurative contratte dalla società a beneficio dello stesso amministratore - del valore di centinaia di migliaia di euro - prive di qualsivoglia riscontro contrattuale o convenzionale», oltre che gravi illegittimità nelle assunzioni del personale.

A Di Biase era stato accordato prima uno stipendio annuo di 98mila euro, poi (dopo il rinnovo dell’incarico) un compenso di 8.300 euro lordi mensili più il 5% «del reddito netto conseguito», Nel primo mandato - ha accertato la Corte dei Conti - Di Biase si è liquidato 63mila in più, nel secondo 67mila euro in più sulla parte variabile. A questi vanno aggiunti 156mila euro di «prelievi in acconto» illegittimi sul trattamento di fine mandato, 112mila euro di spese di rappresentanza «che per nulla risultano riconducibili alle finalità socio assistenziali» (dalle sponsorizzazioni a squadre di calcio ai pernottamenti in hotel di lusso), per arrivare al telefonino e ai «fringe benefits» (l’uso a fini personali delle auto di servizio) non giustificati.
La Procura contabile aveva quantificato il danno in 527mila euro, chiamando in causa anche l’ex direttore generale della Asl, Attilio Manfrini. Ma i giudici hanno escluso alcuna responsabilità a carico di Manfrini, e hanno ridotto a 480mila euro il risarcimento dovuto da Di Biase perché la Sanitaservice non era tenuta ad applicare la decurtazione del 10% dei compensi ai manager introdotta dal governo Monti. Le giustificazioni presentate dal manager sono state respinte: i giudici parlano di «condotta dolosa» e rilevano l’utilizzo spregiudicato del denaro pubblico. Di Biase inventò - ai tempi della giunta Vendola - il modello delle Sanitaservice, con cui furono internalizzati i lavoratori degli appalti delle Asl. I beni che gli sono stati sequestrati verranno ora pignorati e venduti.

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1185537/foggia-hotel-di-lusso-e-biancheria-intima-coi-soldi-della-asl-condannato-ex-manager-sanitaservice.html


Se non si procede con condanne  pesanti, non smetteranno mai di rubare. E' diventato uso normale approfittare dei soldi pubblici destinati al sociale. Cetta

Per Alessandro. - Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 4 persone, persone che sorridono

Alessandro Morricella era nato a Martina Franca, aveva 35 anni, una moglie e due bambini di 2 e 6 anni. Era un bravo operaio dell’Ilva di Taranto, sequestrata nel 2012 dai giudici di Taranto e subito riaperta per decreto da Monti e dai suoi successori.

L’8 giugno 2015 si è avvicinato, come sempre, al foro di colata dell’altoforno 2 per controllare la temperatura. E, probabilmente per un accumulo anomalo di gas, certamente per la scarsa sicurezza del vetusto impianto, è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente, che l’ha trasformato in una torcia umana.

Ricoverato in ospedale, è morto dopo quattro giorni di atroce agonia il 12 giugno, proprio nel giorno dedicato alle vittime del lavoro. Una data tutt’altro che casuale: il 12 giugno 2003, sempre all’Ilva, Paolo Franco e Pasquale D’Ettorre erano stati uccisi dal crollo di una gru e subito dimenticati da tutti.

Fuorché dal rapper pugliese Caparezza, che dedicò loro il brano Vieni a ballare in Puglia: (“Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù”). E dai coraggiosi magistrati di Taranto, che da 7 anni tentano di imporre il minimo rispetto per la sicurezza dei lavoratori e per la salute dei cittadini, facendo lo slalom fra decreti salva-Ilva e scudi penali sfornati dai governi dei più svariati colori per garantire l’impunità a chi gestisce il più grande impianto siderurgico d’Europa.

Dopo la morte di Alessandro, quinta vittima dell’Ilva in tre anni, l’allora procuratore Franco Sebastio indaga vari dirigenti per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro e additano il mancato ammodernamento degli altiforni dell’“area a caldo” dell’Ilva come “concausa non trascurabile” della sua e delle altre quattro morti.

E ottengono il sequestro dell’altoforno 2, poi dissequestrato il 31 ottobre. Ma a condizione che vengano attuate 7 prescrizioni, fra cui l’automazione del campo di colata che ha ucciso Alessandro e gli altri.

Obblighi che in quattro anni non saranno mai rispettati, malgrado il miliardo di evasione fiscale sequestrato dai pm di Milano ai Riva e destinato alla gestione commissariale per gli interventi sulla sicurezza, più il miliardo che i nuovi titolari di Arcelor Mittal prometteranno di investire allo scopo.

Ma intanto il governo Renzi, nel 2015, ha varato l’ennesimo decreto salva-Ilva che autorizza l’uso dell’altoforno 2 appena sequestrato. E ha addirittura regalato l’impunità penale ai commissari di governo, anche per i morti in fabbrica. Nel 2018 la Consulta boccia il decreto Renzi sull’altoforno 2 come incostituzionale.

Motivo: il dl “privilegia in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa”, diritti “cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso”.

Invece sullo scudo, studiato per i commissari e poi finito a coprire Arcelor-Mittal, la Consulta non può pronunciarsi perché viene revocato e poi parzialmente ripristinato da 5Stelle e Lega, e infine cancellato da M5S, Pd, LeU e Iv.

Il 31 luglio 2019, visto che nessuno degli obblighi è stato rispettato, i giudici di Taranto tornano a sequestrare l’altoforno 2. E poi a dissequestrarlo, ma a patto che entro 100 giorni vengano finalmente eseguiti i lavori per mettere in sicurezza l’impianto entro il prossimo 13 dicembre.

Ma l’altro ieri il gruppo franco-indiano comunica al governo la disdetta del contratto che lo impegnava a gestire in affitto e dal 2021 a rilevare gli stabilimenti ex Ilva accampando due scuse.

1) “Con effetto dal 3 novembre 2019 il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.

2) “In aggiunta, i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2”, quello che ha ucciso Alessandro.

Cioè: Mittal ha scoperto con sgomento che in Italia esistono una Costituzione e un Codice penale. E sfodera due alibi che non reggono: lo scudo penale non esiste in nessun Paese d’Europa, dove Mittal gestisce quasi tutte le acciaierie, con standard di sicurezza e ambiente molto più stringenti di quelli che pretende di perpetuare in Italia; quanto alle prescrizioni sull’altoforno 2, non sono una novità, visto che i giudici le invocano dal 2012 (quando sequestrarono per la prima volta l’Ilva) e ancor più stringentemente dal 2015 (quando morì Alessandro) e nel 2018 la Consulta ha già sentenziato che l’altoforno 2 non può restare aperto se non è messo in sicurezza.

In 7 anni si sono succeduti 6 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) e 3 gestioni manageriali (Riva, commissari di governo, Arcelor Mittal). I manager hanno sempre disobbedito alla legge, ai giudici e alla Costituzione.

I governi, fino al 2018, han permesso loro di farlo impunemente, sulla pelle dei morti e dei malati. Ora che finalmente la musica è cambiata, si scatena la canea: non contro chi se ne fotteva allegramente del diritto alla vita e alla salute, ma contro chi ha smesso di fottersene.

Ps. Un mese fa, il 1° ottobre, si è aperto al Tribunale di Taranto il processo a sette dirigenti Ilva imputati di omicidio colposo per la morte di Alessandro. Fuori dall’aula, i suoi amici hanno riassunto in uno striscione di sei parole gli ultimi sette anni di storia dell’Ilva:

“Giustizia per Morricella, morto per decreto”.

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