venerdì 20 novembre 2020

Mondo di Mezzo: confisca beni a Carminati e Buzzi per 27 milioni.

 

Confisca definitiva dei beni riconducibili, tra gli altri, a Massimo Carminati e Salvatore Buzzi imputati principali nel maxiprocesso al Mondo di Mezzo. Il provvedimento è stato eseguito dai militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza.

Il valore complessivo della confisca è di circa 27 milioni di euro. Tra i beni 13 unità immobiliari e un terreno a Roma e in provincia; 13 automezzi e 69 opere d'arte di importanti esponenti della scena artistica della seconda metà del XX secolo (Pop Art, Nouveau Réalisme, Futurismo e Surrealismo).

Il provvedimento ha riguardato anche i beni nella disponibilità di Riccardo Brugia, secondo gli inquirenti braccio destro di Carminati, Roberto Lacopo, Agostino Gaglianone, Fabio Gaudenzi, Cristiano Guarnera e Giovanni De Carlo, tutti arrestati nel dicembre del 2014 nell'ambito della prima operazione dell'inchiesta della Procura di Roma."La confisca - è detto in una nota della Gdf - rappresenta l'epilogo delle indagini patrimoniali svolte nei confronti degli indagati e dei loro "prestanome", delegate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma al Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria ai sensi del "Codice antimafia" (D.Lgs. 159/2011), in una cornice di coordinamento investigativo con l'Arma dei Carabinieri. Gli specialisti del Gico "hanno ricostruito il "curriculum criminale" dei proposti, accertando la sussistenza dei requisiti di "pericolosità sociale" e della rilevante sproporzione tra i redditi dichiarati e i patrimoni accumulati nel tempo, necessari affinché il Tribunale capitolino emettesse vari decreti di sequestro, su richiesta della Procura della Repubblica, eseguiti a partire dalla fine del 2014". A Carminati sono state confiscate, tra l'altro, la villa di Sacrofano e opere d'arte per un valore stimato di oltre 10 milioni di euro. Un'altra villa, nella stessa località, è stata affidata in comodato d'uso gratuito, per vent'anni, all'A.S.L. Roma 4 per la realizzazione di una importante struttura sociosanitaria per aiutare le famiglie di pazienti con autismo. Nei confronti di Buzzi la misura patrimoniale ha ad oggetto due immobili a Roma nonché le quote e il patrimonio di due società, per un valore stimato di oltre 2,6 milioni di euro. (ANSA).

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Renato Schifani non è una muffa, e torna come osso di seppia. - Pino Corrias

 

Il ritratto. Dalla Sicilia con Silvio nel cuore.

Renato Schifani non è una muffa, ma il nuovo consigliere politico di Silvio B. La prima circostanza l’ha stabilita a suo tempo un tribunale della Repubblica italiana, interpellato dallo stesso Schifani. E ci sta, visto che stiamo parlando di un ex presidente del Senato. La seconda è invece l’ennesima trovata del Dottore che (appena fuori dal giro degli inseparabili: Gianni Letta, Confalonieri, Dell’Utri) si diverte a nominare i suoi provvisori consiglieri come si fa con il personale di servizio, scegliendoli tra i molti dotati dell’X Factor della fedeltà, per poi spremerli sino a quando l’abnegazione dei prescelti si deteriora per sfinimento. È successo dai tempi di Enzo Cartotto, agli albori del partito azienda, passando per Giuliano Urbani, Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Gianfranco Fini, Sandro Bondi, Sabina Began, Angelino Alfano, Francesca Pascale, giù giù fino a Giovanni Toti, il penultimo.

Ripescato dall’oblio, Renato Schifani, palermitano, detto in gioventù “freno a mano” per l’innato carattere oggettivato nella cautela con cui guidava la sua Fiat 500 L, servirà a facilitare l’ultimo giro di giostra del Dottore che secondo i migliori politologi di Palazzo, finiti i processi, le prescrizioni, le pupe, le bugie e forse anche i voti, si appresta a diventare Statista. Cioè pronto per le larghe intese, che poi sarebbero il salvataggio di Mediaset e la spartizione del malloppo vero, i 209 miliardi di euro in arrivo dalla perfida Europa.

Sebbene l’iracondo Filippo Mancuso, buonanima, a suo tempo ministro di Grazia e giustizia lo avesse definito “esperto in recupero crediti”, Renato Schifani è avvocato raffinatissimo, ramo civilista, cresciuto nella bella Palermo del sacco edilizio, quando la festa la organizzava Vito Ciancimino sindaco e i cronisti, come ha scritto Enrico Deaglio nel suo Raccolto rosso, scendevano in Sicilia per andare al mare o per un nuovo morto ammazzato importante.

Nato nell’anno 1950, Renato viene da una famiglia di piccola borghesia, padre e madre impiegati comunali. Studente senza soprassalti, blandì il suo cauto ’68 partecipando all’occupazione del liceo, “ma senza mai scendere in piazza”. A vent’anni è già democristiano. Poi dottore in Giurisprudenza con lode. Primo impiego al Banco di Sicilia. Il tempo di vestire la toga e due anni dopo entrare nello studio legale di Giuseppe La Loggia, avvocatone d’alta dinastia democristiana, diventando il timido amico del figlio esuberante, Enrico, detto ‘u babbiuni dai compagni del liceo Gonzaga. Insieme entreranno nella Sicula Broker, società di assicurazioni, con soci finiti anni dopo nei dossier dell’antimafia. A Palermo capita. E insieme saliranno i gradini di Forza Italia. A partire dalle leggendarie elezioni del 1996, quelle del 61 a zero, apoteosi del berlusconismo in Sicilia.

Trasferitosi con la famiglia a Roma, Schifani inaugura la sua seconda vita, facendo dimenticare certi dettagli della prima. Compreso il peculiare incarico professionale ricevuto nel 1983 da Giovanni Bontate, fratello del capomafia Stefano, principe di Villagrazia, per difendere la titolarità del suo ingente patrimonio – imprese edili, decine di appartamenti, ville, casali, agrumeti – dagli assalti giustizialisti della Cassazione che pretendeva di sequestrarglieli. Studia le carte, prepara la difesa, onora il mandato. Peccato che a rendere superflua la sua fatica professionale ci abbiano pensato i corleonesi di Totò Riina, che dopo avere fucilato a colpi di kalashnikov Stefano, morto nel centro di Palermo, liquidarono con due colpi alla nuca anche il fratello, appena scarcerato dall’Ucciardone per motivi di salute, anno 1988. A Palermo capita.

Ben venga Roma, dunque. Con le interminabili riunioni in Palazzo Grazioli, le serate al Bagaglino che fu il vero teatrino di quegli anni, e la mirabile carriera di Schifani, diventato prima capogruppo di Forza Italia, anno 2001, poi addirittura presidente del Senato, 2008-2013, seconda carica della Repubblica. Anche se la pertinenza non memorabile dei suoi interventi politici aveva ricadute blande sui giornali. Salvo che per due circostanze. La prima tricologica, per via del suo clamoroso riporto che occupava i due terzi della sua testa pensante, con scia di commenti, risate e disappunti estetici dell’intera nomenklatura arcoriana. E la seconda per il celebre Lodo intitolato a suo nome che mirava a difendere il suo maggiore cliente, Silvio B., dagli assalti giustizialisti delle Procure che pretendevano di metterlo sotto processo. Non bastando le batterie di deputati, giornalisti, lobbisti, la depenalizzazione del falso in bilancio, il blocco delle rogatorie, le norme sul legittimo sospetto, gli allungamenti dei processi e gli accorciamenti delle prescrizioni, i condoni fiscali, la detassazione degli utili, le macchine del fango contro i nemici, serviva aggiungere ancora l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo. E fu il “Lodo Schifani” a incaricarsi di quel tocco coreano al nostro catalogo di leggi, anno 2003: vietato processare le cinque più alte cariche dello Stato, diceva la nuova norma, cancellata a stretto giro dalla Corte costituzionale per manifesta scempiaggine.

Di tutto il suo tribolare politico avvocatesco resta il vanto di avere contribuito all’ingaggio del celebre senatore Sergio De Gregorio passato da sinistra a destra per un intimo convincimento risarcito con 3 milioni di euro da Silvio B. E restano due frasi di prudentissimo conio: “Il presidente Berlusconi ha ragione”, ripetuta in premessa e a consuntivo di ogni intervento. E la più atroce per un palermitano: “Ho sempre tenuto al Milan”.

Sparì dai radar un giorno del 2014 con il consigliere politico di allora, l’Angelino Alfano, anche lui in fuga per crollo psicologico. Provarono insieme a costruire il castello di sabbia del Nuovo centrodestra, di cui non resta neanche la traccia del secchiello. Li inghiottì la stessa risacca che oggi ce lo restituisce calvo, come fa il mare con gli ossi di seppia. Vediamo quanto dura stavolta la sua prudenza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/20/renato-schifani-non-e-una-muffa-e-torna-come-osso-di-seppia/6010029/

giovedì 19 novembre 2020

'NDRANGHETA Calabria, “L’investimento è per voi”: così Tallini parlava alla ‘ndrangheta. “Favorì gli affari della cosca coi farmaci in cambio di voti”. - Lucio Musolino

 

Il presidente del Consiglio regionale è ai domiciliari con l'accusa di concorso esterno con la ‘ndrangheta e scambio politico-mafioso. Nell'ordinanza si legge che aiutò "il rilascio di necessarie autorizzazioni" e "il procacciamento di farmacie" per gli affari "della famiglia mafiosa Grande Aracri”. Il politico di Forza Italia impose inoltre "l'assunzione e l'ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe Tallini" nella società della cosca.

“Insomma… l’investimento è per voi… mica lo facciamo per noi… no? Fino a mo’ ci abbiamo solo rimesso…però nonostante tutto… anche gratis… Mi devi spiegare meglio com’è impostato tutto il ragionamento”. Per la Dda di Catanzaro, la frase del presidente del Consiglio regionale Mimmo Tallini è chiara: con la parola ‘voi’ indica la ‘ndrangheta mentre con il ‘noi’ non ci sono dubbi che si riferisca a sé stesso e ai benefici familiari ed elettorali che può trarre dal rapporto con le cosche attraverso quello che i pm chiamano “l’uomo della pioggia”. All’anagrafe Domenico Scozzafava, “un formidabile portatore di voti” per il politico di Forza Italia finito ai domiciliari, ma anche uno “’ndranghetista fino al midollo”. Entrambi sono stati arrestati nell’operazione “Farmabusiness” assieme ad altre 17 persone contigue alla cosca di Cutro.

Il terremoto giudiziario stronca Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale, e dimostra ancora una volta l’interessamento della ‘ndrangheta negli affari della sanità calabrese. Per la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri, infatti, Tallini “in qualità di assessore regionale fino al 2014, candidato alle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale del 2014, e successivamente quale consigliere regionale, forniva un contributo concreto, specifico e volontario per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative della famiglia mafiosa Grande Aracri”.

Concorso esterno con la ‘ndrangheta e scambio politico-mafioso. Stando alle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla e dai pm Paolo Sirleo e Domenico Guarascio, il presidente del Consiglio regionale ha accelerato “l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del ‘Consorzio Farma italia’”. Pur “consapevole” che quelli erano soldi della ‘ndrangheta, Tallini concorreva – è scritto nel capo di imputazione – “nei progetti commerciali inerenti la distribuzione dei farmaci e imponeva nella struttura societaria della Farmaeko srl, l’assunzione e l’ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe Tallini, così da contribuire all’evoluzione dell’attività imprenditoriale del Consorzio Farmaceutico, fornendo il suo contributo, nonché le sue competenze e le sue conoscenze anche nel procacciamento di farmacie da consorziare”.

Il tutto per avere il sostegno elettorale del boss Nicolino Grande Aracri e di suo fratello Domenico alle regionali del 2014. Per i magistrati, infatti, Tallini era “ben consapevole di prestare un rilevante contributo all’associazione criminale e che il lusinghiero ‘ritorno’ elettorale era riconducibile al patrimonio di intimidazione che la cosca stessa indubbiamente detiene”. I pm hanno riscostruito i rapporti tra Tallini e Domenico Scozzafava che “ha profondi legami con tale frangia della criminalità calabrese”. Considerato, infatti, vicino al clan dei Gaglianesi, Scozzafava andava “in giro a piazzare bottigliette incendiarie”. Tallini per gli investigatori lo sapeva e, nonostante questo, ha accettato di avere come socio “l’uomo della pioggia”. È lui, secondo gli inquirenti, che gli procura “gli appuntamenti con soggetti del crotonese e lo fa nell’ambito di uno scambio di favori e di promesse di favori che hanno al centro il Consorzio Farmaci”.

Dal canto suo, il politico avrebbe garantito “l’autorizzazione regionale per il Consorzio, la sua attività per procacciare farmacie da consorziare, ma anche l’apporto di denaro e l’impiego pressoché gratuito del figlio Giuseppe Tallini”. Nel corso delle indagini sono emerse le cautele dell’ex assessore regionale che ha sempre cercato di evitare “ogni contatto diretto con i cutresi”. Addirittura, il politico evitava persino di salire sull’auto dello Scozzafava, ma il 5 ottobre 2014 i carabinieri hanno registrato “la visita in assessorato di personaggi del crotonese che andavano a promettergli voti”.

Un mese dopo, poco prima delle elezioni regionali, un’intercettazione tra Scozzafava e un suo cugino di Sellia Marina dimostra la “gratitudine elettorale” del clan verso Tallini. “A chi state portando? A Sergio (Costanzo altro candidato, ndr)”. “No, a Mimmo”. “Te li raccolgo, non ti preoccupare, e vedi tu che è sempre grazie a lui se partiamo… dobbiamo ringraziare… al momento è forte e probabilmente sarà sempre il numero uno a Catanzaro Mimmo… e non c’è niente… pure che non sale… ma sempre la minoranza”. “Li porta, li porta, perché ora li prende pure a Crotone, Vibo. E domani vado a Cutro che devo fare un lavoro e per i voti pure… Un poco di voti glieli ho trovati pure là pure”.

Le frasi sono chiare, ma Scozzafava non ha sostenuto Tallini solo nel 2014. Per lui, il politico di Forza Italia è stato sempre il cavallo su cui puntare, secondo quanto emerso dalle indagini: “Elementi certi che denotano la vicinanza del Tallini allo Scozzafava – scrive il gip nell’ordinanza – sono apprezzabili ancora nel corso del 2018. Anche nel corso di tale anno, così come nel 2017, era accertata l’attività di sostegno, proselitismo e pubblicità elettorale al Tallini da parte di Scozzafava e altre persone allo stato sconosciute facenti parte del suo ambito relazionale”.

Erano le politiche del 2018 e Tallini era capolista per Forza Italia nel collegio uninominale di Catanzaro. Non viene eletto e, due anni più tardi, si ripresenta alle regionali del 2020 sostenendo la candidatura a governatore di Jole Santelli. Nonostante la Commissione parlamentare antimafia lo indica come uno dei due “impresentabili”, vince le elezioni: il centrodestra non solo non prende le distanze, ma lo mette a capo di Palazzo Campanella. Dopo 9 mesi, la Regione rimane senza guida per la morte della presidente Santelli. Da oggi lo è anche il Consiglio regionale. Eppure tracce dei rapporti di Tallini con gli ambienti criminali di Cutro erano già emersi nell’inchiesta “Kyterion”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/19/calabria-linvestimento-e-per-voi-cosi-tallini-parlava-alla-ndrangheta-favori-gli-affari-della-cosca-con-i-farmaci-in-cambio-di-voti/6008833/

Open, l’amico di Bisignani e la donazione saltata di Pirelli. - Antonio Massari e Valeria Pacelli

 

Firenze - L’inchiesta dei pm.

Oggi è il capo delle relazioni istituzionali della società pubblica Leonardo, quotata in borsa e controllata dal ministero dell’economia nell’era del Governo giallorosa. Nel 2014 invece Filippo Maria Grasso cercava di portare contatti e contributi alla Fondazione Open legata al neo-premier Matteo Renzi. Quattro anni prima metteva in contatto l’allora ministro del Governo Berlusconi Stefania Prestigiacomo con Luigi Bisignani che aveva già patteggiato 2 anni e sei mesi per la tangente Enimont del 1992. Insomma Grasso è davvero un uomo per tutte le stagioni perfetto per andare d’accordo con i renziani, al governo allora come ora.

Nel 2014, quando dialoga con Alberto Bianchi, allora presidente della Fondazione Open, Grasso era direttore degli affari istituzionali del gruppo Pirelli. Lo scambio di mail tra i due è finito agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla Fondazione nella quale sono iscritti per concorso in finanziamento illecito, oltre che Bianchi, l’ex premier Matteo Renzi e gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Mentre in un altro filone l’imprenditore Patrizio Donnini è indagato per autoriciclaggio e appropriazione indebita e lo stesso Bianchi per traffico di influenze. Grasso è completamente estraneo all’indagine fiorentina ma è interessante leggere quelle mail perché raccontano bene come i lobbisti si adattino al mutare della scena politica.

Grasso si impegna per fare ottenere alla Open un contributo (non effettuato) dalla Pirelli. Inoltre si muove per far inserire nell’albo dei fornitori della Pirelli la società Dot Media, di cui è socio al 20 per cento Alessandro Conticini, fratello di Andrea Conticini, cognato di Matteo Renzi.

La prima mail segnalata dalla Guardia di Finanza è del 27 febbraio 2014, 5 giorni dopo il giuramento del Governo Renzi. Bianchi invia a Grasso “una veloce presentazione della Dotmedia, in caso Pirelli fosse interessata ad inserirla tra i suoi fornitori.” Lo stesso giorno Grasso “in merito alla ‘presentazione Dotmedia’, comunica a Bianchi che può ‘anticipare a questo signore’ che sarebbe stato chiamato a breve dai suoi collaboratori per approfondire l’opportunità di essere inserito nel loro albo fornitori”.

Il 3 marzo 2014 Bianchi scrive a Grasso: “Caro Filippo, facendo seguito ai colloqui intercorsi, ti confermo l’interesse della Fondazione Open a ricevere un contributo da Pirelli s.p.a., per le proprie finalità statutarie, in modalità riconducibili alla sponsorizzazione di eventi, o mediante versamento sul c/c della Fondazione, secondo quanto potremo concordare”. Alla fine però non si concretizza nulla. Al Fatto, che ha chiesto se abbia mai finanziato Open o pagato Dot Media o altre società legate a Donnini, Pirelli risponde che dalle verifiche effettuate emerge solo “un rapporto intercorso con la società Dot Media nel 2016 per la realizzazione di un progetto di digital marketing, affidato a esito di processo di gara, per un importo complessivo al netto di Iva pari a 29.500 euro”.

Il nome di Filippo Maria Grasso (mai indagato) emerse nel 2010 nell’indagine della procura di Napoli su Luigi Bisinani e la cosiddetta P4. Intercettando Bisignani i pm scoprirono i rapporti confidenziali di Grasso con l’amico Luigi. I due organizzavano pranzi e cene anche con Stefania Prestigiacomo e la sua ex assistente (entrambe estranee all’inchiesta). Proprio Grasso mette in contatto Bisignani (mentre è intercettata la telefonata) nel maggio del 2010 con l’allora ministra dell’ambiente che voleva consigli. In un altro processo celebre, quello sulle presunte intercettazioni abusive in Telecom, Grasso (mai indagato) è stato convocato come persona informata sui fatti. Nell’indagine su Giuliano Tavaroli disse “di avere avuto presentato Marco Mancini (007 ora al Dis, ndr) da Tavaroli (ex responsabile sicurezza di Telecom Italia, ndr), il quale glielo aveva presentato come suo grande amico”.

Manager navigato con esperienze in Cina, Grasso è stato scelto a luglio per tenere i rapporti con le istituzioni e lavora sotto il presidente di Leonardo, Luciano Carta, che era a capo dell’AISE. Nelle mail tra Bianchi e Grasso si parla anche di Enel. Il responsabile relazioni istituzionali della società pubblica allora era Gianluca Comin ma è Grasso a proporsi: “Grasso – è scritto negli atti – fa presente a Bianchi che ‘Comin di Enel’ sarebbe interessato ad avere contatti con la Fondazione e gli chiede se lo vuole incontrare”.

Bianchi declina l’invito di Grasso “precisando che al momento non vuole incontrare ‘Comin’ per ragioni di opportunità”. Forse perché due mesi dopo, ad aprile 2014, l’allora presidente della Open sarà nominato nel cda di Enel.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/19/open-lamico-di-bisignani-e-la-donazione-saltata-di-pirelli/6008662/

Mediaset si salva ancora grazie alla “sinistra”. - Gad Lerner



All’indomani della visita del segretario Ds a Cologno Monzese, per non lasciare adito a equivoci, così titolava L’Unità del 5 aprile 1996: “Pace D’Alema-Mediaset”. E l’articolo esordiva: “Mediaset è un patrimonio di tutti gli italiani. La vostra azienda non corre nessun rischio”. Niente di nuovo sotto il sole? L’ho pensato leggendo su Il Fatto dell’altroieri la giustificazione fornita da Luigi Di Maio all’emendamento salva-Mediaset proposto al Senato dalla maggioranza M5S-Pd-Iv-LeU e votato da tutti con la sola astensione della Lega: “Nessuno scambio. C’è stata un’azione molto chiara da parte del ministero dello Sviluppo economico per tutelare un’azienda italiana, come abbiamo sempre fatto”.

La retorica sulla difesa dell’italianità delle imprese, che tanti danni ha prodotto in Alitalia, mal si applica al settore delle telecomunicazioni e in particolare dei network tv, già penalizzato da gravi distorsioni della libera concorrenza. Vedremo come il governo se la caverà in sede di ricorsi alla Commissione e alla Corte di giustizia europea preannunciati dall’azionista francese Vivendi, appoggiato da Macron (che in materia di nazionalismo economico è più agguerrito di noi). Restiamo in attesa degli esiti del braccio di ferro sul futuro di Mediaset e sul parallelo coinvolgimento di Berlusconi nelle scelte governative. Ma intanto vale la pena di interrogarsi anche sulla parte che svolgerà Mediaset nel dare voce al riassetto della destra italiana; costretta a fare i conti col fallimento delle spallate di Salvini.

Significativa, in merito, è la repentina giravolta della Lega: dopo aver votato in commissione contro l’emendamento salva-Mediaset, si è vista costretta a far parlare in aula lo stesso Salvini per scongiurare una rottura che non può certo permettersi. Come è noto, l’imprevisto sorpasso leghista ai danni di Forza Italia nelle elezioni politiche del 2018 fu assai favorito dallo spazio concesso da Rete 4 alle quotidiane esibizioni populiste dello stesso Salvini. Tanto che, a latte versato, per un’intera stagione i conduttori artefici di quella offensiva propagandistica videro sospese le loro trasmissioni. Salvo poi, dati gli ascolti modesti conseguiti da personalità più moderate, rilanciare con successo le trasmissioni dei vari Del Debbio, Giordano, Porro. E le ospitate fisse dei vari Belpietro, Maglie, Capezzone, Meluzzi. La rapida marcia indietro parlamentare di Salvini evidenzia come egli non possa fare a meno del supporto delle reti Mediaset. Tanto più che nel frattempo la Bestia social coordinata da Luca Morisi ha visto affievolirsi il suo impatto mediatico, imitata da rivali che hanno imparato a far propri gli stessi metodi grevi.

Per quasi un trentennio Mediaset è stata la principale artefice della formazione del senso comune di destra nel nostro Paese. Non so se le tv berlusconiane avranno ancora la capacità di plasmare il prossimo leader di quell’area, passando dal salotto di Barbara D’Urso agli strepiti dei talk show in cui spesso i pochi ospiti di sinistra assolvono involontariamente alla funzione di mere caricature. Può darsi che Mediaset decida di investire sulla maggior presentabilità di Giorgia Meloni o che vadano in cerca di figure alternative di qui al 2023. Si tratta di una partita aperta, resa ancor più incerta dal probabile ridimensionamento dell’influenza della destra nel riassetto di potere interno alla Rai, dove gli ascolti del Tg2 e dei conduttori orientati a destra restano deludenti.

Può aiutarci, nell’immaginare le future strategie della comunicazione nazionalpopulista italiana, seguire l’evoluzione in corso negli Stati Uniti prima e dopo la sconfitta elettorale di Trump. Archiviate le disastrose performance di Steve Bannon, sentendosi tradito da Murdoch e dalla sua Fox News Channel, nonché delegittimato su Twitter, Facebook e YouTube, il presidente sconfitto punta a riorganizzare la sua forza d’urto mediatica ricorrendo a network tv e social alternativi. Come ha ben raccontato Massimo Gaggi sul Corriere, The Donald ha cominciato a dirottare i fan verso altre reti tv disposte a trasmettere acriticamente la propaganda dei suoi “fatti alternativi” (quasi sempre bugie belle e buone). Una migrazione sarebbe in corso anche su nuovi siti dell’estrema destra, a cominciare da Parler, di proprietà della miliardaria Rebekah Mercer, che in una settimana ha visto raddoppiare da 5 a 10 milioni i suoi utenti. Questa pericolosa deriva della comunicazione politica, frazionata in compartimenti stagni nei quali ciascuno può sentirsi ripetere ciò in cui crede senza verifiche di realtà, è un fenomeno che da noi Mediaset sta già assecondando. Dubito che vi rinunci.

Ps. Una curiosità. L’articolo del 1996 sulla pace fra D’Alema e Mediaset era firmato da Fabrizio Rondolino che, quattro anni dopo, ritroveremo autore e capo della comunicazione del Grande Fratello.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/19/mediaset-si-salva-ancora-grazie-alla-sinistra/6008681/

Il piano Bertolaso: tutti nelle Marche, nel “suo” ospedale. - Vincenzo Bisbiglia

 

Il super “consulente volontario” all’emergenza Covid in Umbria, Guido Bertolaso, arriva a Perugia e nel giro di due settimane vara un piano straordinario dove un terzo delle nuove terapie intensive saranno previste nel “suo” ospedale di Civitanova Marche, a più di 150 km dal capoluogo umbro. Tutto ciò mentre la Usl locale comunica il depotenziamento di due ospedali in provincia di Terni. Il ricorso alla struttura “provvisoria” marchigiana, costata 18 milioni di euro e voluta in primavera proprio dall’ex capo della Protezione civile (già in carica con lo stesso ruolo di consulente nelle Marche su input dell’ex governatore Luca Ceriscioli) si sarebbe reso “necessario” anche per i continui intoppi e ritardi sulla realizzazione dell’ospedale da campo di Bastia Umbra (4,5 milioni per 12 posti di rianimazione), annunciato il 7 aprile dalla governatrice leghista Donatella Tesei e che non sarà inaugurato prima del 17 dicembre.

L’“astronave” sul mare di Civitanova è stata descritta da molti come un flop: aperto e chiuso nel giro di 10 giorni a giugno, è stato riattivato il 21 ottobre. Il problema è che se l’Umbria vorrà utilizzarlo, dovrà portarci tutto il necessario: dai macchinari al personale sanitario. “Non siamo in grado di organizzare il modulo – ha ammesso l’assessore marchigiano Filippo Saltamartini – perché dovremmo sottrarre medici, internisti e anestesisti da altri nostri reparti”.

L’arrivo di Bertolaso in Umbria è stato annunciato da Tesei il 30 ottobre e formalizzato con una delibera di giunta del 4 novembre. Del 6 novembre la comunicazione della Usl Umbria 2 ai sindaci di Narni e Amelia che il personale specialistico di anestesia e rianimazione sarebbe stato trasferito altrove: “Ma dopo le nostre animate proteste, si sta lavorando per ridefinire il provvedimento”, chiarisce il sindaco di Narni, Francesco De Rebotti. Nel frattempo Bertolaso ha varato un “piano di salvaguardia” della sanità umbra in cui, si legge, “si prevede di realizzare – tra le altre cose – ulteriori 40 posti letto in Terapia intensiva”, di cui 14, appunto, a Civitanova, con “sottoscrizione di specifico accordo quadro con la Regione Marche”.

Per la verità, Bertolaso in Umbria per ora non si è visto molto. Alle principali occasioni pubbliche ha presenziato Patrizia Arnosti, per molti una “delegata di fatto”. Arnosti è direttrice generale e socia di Promedia srl, società di engineering di Teramo – ma con sede operativa a Roma, dove Bertolaso è in pole position come candidato sindaco di centrodestra – che ha materialmente realizzato l’ospedale di Civitanova, anche grazie al contributo determinante dell’Ordine di Malta. Altro socio della Promedia è l’amministratore unico Raffaele Di Gialluca, ingegnere e fratello di Vincenzo, ex consigliere regionale di Forza Italia in Abruzzo.

In questi mesi, Pd e M5S avevano presentato due progetti alternativi, anche rispetto all’ospedale da campo di Bastia Umbra, per il recupero di strutture pubbliche. La prima si trova a 100 metri dall’ospedale di Terni ed è nota come “Ex milizia”, un vecchio centro di ricerca per le cellule staminali, di proprietà dell’Ater e pressoché inutilizzato. L’altra è a Perugia, in zona Monteluce, anche questa disponibile per essere subito riconvertita.

La prima mozione congiunta è addirittura del 22 aprile. “Togliere medici dai nostri ospedali per mandarli in altre regioni sarebbe una scelta scellerata – attacca Thomas De Luca, consigliere regionale del M5S in Umbria –. Mandare i pazienti umbri, il nostro personale sanitario e i macchinari di terapia intensiva a Civitanova Marche, più che al sistema sanitario regionale sembrerebbe essere utile a trovare un senso al criticato ‘Bertolaso Hospital’ marchigiano”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/19/il-piano-bertolaso-tutti-nelle-marche-nel-suo-ospedale/6008652/

PERLE AI PORCI. - Rino Ingarozza

Eppure durante la prima ondata, almeno il popolo, sembrava tutto unito. Si stava a casa, si usciva per necessità, si leggeva un libro, si guardava un film o un programma in TV, alcuni cantavano persino sui balconi, altri suonavano sui tetti. Su quei balconi dove spiccavano dei lenzuoli con la scritta "Andrà tutto bene".

Sembra, però, che qualcosa non abbia funzionato, perché non è andato tutto bene. Sembra che, in questa seconda ondata, la gente non sia più disposta a fare sacrifici, in nome del bene comune e ha trovato un nemico con cui prendersela. Il virus? No, su dai, sforzatevi, inizia con "G". Indovinato?
Facile. Certo, è sempre stato così.
"Piove, Governo ladro" si è sempre detto. In realtà a me pare che la situazione sia ben diversa, adesso, il nemico c'è, non è visibile ma è visibile quello che provoca. Tre, quattrocento morti al giorno, non sono sufficienti? E allora perché se piove è colpa del Governo? Perché molti sembra che godano nel remare contro? Perché non si cerca di fare la guerra al virus, invece di farla al Direttivo? Perché non si combatte il covid, seguendo le regole, invece di inveire contro Conte e i suoi, e trasgredirle, queste regole?
Ma davvero credete a quei politici dementi e a quei pennivendoli senza dignità che vi dicono che è tutta colpa del Governo? Davvero siete così ingenui da crederlo? Davvero credete che Conte goda nel fare le zone rosse? A rinchiuderci in casa?A me sembra proprio di si, altrimenti non si spiegherebbero le numerose proteste.
Ma come si fa a pensare questo.
È un insulto al vostro intelletto. Un'offesa al genere umano.
Sento i commenti di tutti e, sinceramente, mi viene un po' da ridere. "Vogliamo andare a scuola, la scuola è importante". Ma non mi dire....non vi rendete conto dell'ovvietà di questa frase? (E li intervistano pure). Prof, genitori, alunni. Specialmente questi ultimi che, a novembre, avevano sempre sofferto di novembrite, tanto da dover integrare il libretto delle giustificazioni (si usa ancora?), per giustificare le assenze, adesso, che si dice loro, di fare lezione da casa, per un mese, (il mese di novembre) hanno tutti voglia di alzarsi due ore prima, prendere il bus o la metropolitana e andare a scuola, magari sperando che qualcuno telefoni e dica "c'è una bomba nella scuola" per uscire e andarsene in giro. Ma dai, fate i seri.
Anche i professori, tutti ligi al dovere e contro questo Governo di analfabeti che tolgono loro la possibilità di praticare la loro missione: Alfabetizzare il mondo. Ma guardate che se, per un mese o due, lo fate da casa, non muore nessuno di ignoranza. Piuttosto qualcuno può morire se tutti voi vi spostate contemporaneamente. Perché tra di voi ci possono essere dei positivi che possono infettare persone più fragili e quindi condannarli. Siete laureati, come fate a non capire questo? Cosa c'entra il Governo, perché sbraitare contro di esso?
Siamo tutti in trincea, con dei soldati (medici ed infermieri) in avanscoperta, per salvare vite umane.
Come vi spiegate che loro non protestano per le chiusure ma, anzi, le chiedano? Perché loro sanno di cosa si tratta. Sanno cosa stiamo vivendo. Siete dei prof, ma lo siete della vostra materia. In questa, siete degli alunni, come tutti noi, i prof sono i medici e noi tutti dobbiamo cercare di seguire i loro consigli ed evitare di ritrovarci dietro la lavagna.
Capite, signori?
Stesso discorso per quelle persone che, all'improvviso, si sono sentite dei provetti Proietti, che non possono fare almeno dei teatri e dei novelli Fellini, che non riescono a fare almeno del cinema. Un mese, signori, un mese o forse due.
Per un mese o due la vostra cultura non si arruginisce certo.
Ma tutto questo, purtroppo, è niente, difronte a due notizie di queste ore.
La prima riguarda i sindacati italiani che, in piena pandemia, indicono uno sciopero generale per il 9 dicembre.
Questa è una cosa che non riesco proprio a mandar giù. Ma come, la gente non sa come andare avanti, o perché la cassa integrazione non basta o perché è un piccolo commerciante e deve stringere la cinghia, e voi fate sciopero per chiedere più soldi, per l'unica categoria che ha continuato ad vedersi accreditato lo stipendio, senza decurtamenti e senza problemi?
Ma, sinceramente, non vi fate un po' schifo? Non vi sentite dei miserabili?
Dei sanguisuga? Degli sciacalli? Ma volete, almeno, aspettare la fine della pandemia? Lo capite o no che c'è gente sull'orlo del suicidio? mentale o fisico che sia?
LANDINI, BOMBARDIERI E FURLAN ....
V E R G O G N A
L'altro fenomeno è il direttore di Radio Maria, un certo don Miele, che ha detto:
"Basta con queste corbellerie. Il virus è un complotto ardito da Satana".
Caro don, non so se Satana esista, ma sono sicuro che, se esistesse, somiglierebbe tanto a lei. Lei è un criminale, perché fuorvia i suoi ascoltatori. Lei è un irresponsabile perché plagia persone intellettualmente deboli, come quel cretino che commentando un mio post, scrive che la soluzione è "fare una marcia su Assisi".
Mi sento di dirle solo una cosa, ma glielo dico a gran voce : si cerchi un esorcista al più presto. E se lo cerchi bravo. Per il commentatore, invece, credo non ci sia niente da fare.
Per concludere, credo che dovremmo essere noi a dire al Governo "conta su di me" e non fare la guerra, perché è una guerra contro i mulini a vento.
Il nemico è il coronavirus, mettiamocelo in testa. E il Governo non è un nemico da combattere. Criticatelo per altre cose, se volete, ma non perché sta cercando di tutto per limitare i danni e salvare vite umane.
Perché dimostrerebbe che tutte le cose che vi si dice, nel vostro interesse e dei vostri cari, siano come "gettare perle ai porci".