venerdì 4 dicembre 2020

Covid: Conte firma il nuovo Dpcm. Stretta sulle feste di Natale.


Regioni, il decreto approvato senza averci interpellato.

Con la firma del premier Conte sul nuovo Dpcm, il governo blinda il Natale. 'Non possiamo abbassare la guardia.

Dobbiamo evitare una terza ondata a gennaio che potrebbe essere violenta. Intanto, non faremo un un nuovo lockdown generalizzato. Niente divisioni, è il momento di agire uniti', dice Conte presentando le misure. Tensione con le Regioni, che esprimono rammarico per il metodo con cui è stato approvato il decreto con le regole per gli spostamenti dal 21 dicembre al 6 gennaio. Per il presidente della Lombardia Fontana, 'è inaccettabile il divieto di spostarsi a Natale e Santo Stefano per i ricongiungimenti familiari'. Toti: 'Le misure del governo non stanno in piedi'. 

 

Il governo blinda il Natale e va allo scontro con le Regioni imponendo il divieto di spostamento anche tra i Comuni per il 25 dicembre, Santo Stefano e Capodanno. "Abbiamo evitato il lockdown generalizzato - sintetizza all'ora di cena il premier Giuseppe Conte spiegando il provvedimento - ma ora non dobbiamo abbassare la guardia. Dobbiamo scongiurare una terza ondata che potrebbe arrivare già a gennaio e non essere meno violenta della prima". E' una misura "ingiustificata" rispondono i presidenti in rivolta, secondo i quali si crea una disparità di trattamento tra chi abita in una grande città e i milioni di italiani che vivono invece nei piccoli comuni. Ma lo scontro è anche nel Pd, con 25 senatori che chiedono al premier di rivedere le "misure sbagliate" e il segretario Nicola Zingaretti che ribadisce la necessità di "misure rigorose".

Qualche deroga sarà però concessa, anche alla luce del parere del Comitato tecnico scientifico secondo il quale, proprio in considerazione della differenza di dimensioni tra città metropolitane e comuni minori, vanno comunque garantiti per le realtà più piccole gli spostamenti "per situazioni di necessità e per la fruizione dei servizi necessari", a partire dal non lasciare gli anziani da soli. Lo stesso Conte conferma che tra i motivi che rientrano nello "stato di necessità" c'è l'assistenza alle persona non autosufficienti, così come sarà possibile sempre rientrare non solo alla propria residenza ma anche nel luogo "dove si abita con continuità", una formula per consentire il ricongiungimento delle coppie conviventi. Prevale dunque la linea dei rigoristi nel giorno in cui l'Italia registra purtroppo il record di vittime per Covid dall'inizio della pandemia, 993 in 24 ore. Il decreto legge 'cornice', già in vigore, e il Dpcm valido dal 4 dicembre fino al 15 gennaio, contengono tutte le restrizioni già annunciate nei giorni scorsi e nessuna delle 'concessioni' che erano state ipotizzate o chieste dai governatori. Niente centri commerciali aperti nei fine settimana e nei festivi, ristoranti chiusi la sera, niente sci fino al 7 gennaio, quarantena per chi viene dall'estero. Ma è sulle misure previste dal 21 dicembre al 6 gennaio che si è acceso lo scontro più duro. Chi va all'estero dovrà poi rimanere due settimane in quarantena, chi decide di passare l'ultimo dell'anno in albergo dovrà cenere in camera ma soprattutto non ci si potrà muovere dal proprio Comune a Natale, Santo Stefano e Capodanno, giorno questo in cui anzi il coprifuoco sarà posticipato dalle 5 alle 7. Unica concessione, l'apertura dei ristoranti a pranzo il 25 e 26 dicembre e il 1 gennaio, anche se il divieto di muoversi sarà comunque un ostacolo.

"C'è stupore e rammarico per il mancato confronto", attaccano le Regioni sottolineando che il metodo utilizzato dal governo "contrasta con lo spirito di legale collaborazione" tra istituzioni e impedisce di arrivare a "soluzioni più idonee per contemperare le misure di contenimento e il contesto di relazioni familiari e sociali tipiche" del Natale. I governatori criticano anche il fatto che né nel decreto legge né nel Dpcm si faccia riferimento ai ristori promessi per le attività costrette a chiudere. Il divieto di andare da un comune all'altro è una "limitazione ingiustificata e lunare" dice Attilio Fontana mentre Luca Zaia chiede "quale tecnico sanitario abbia avallato una cosa del genere". E se il presidente della Liguria Giovanni Toti definisce quello del governo un comportamento "scorretto" che "mortifica i sacrifici dei cittadini", quello della Valle d'Aosta Erik Lavevaz parla di una misura "iniqua" e Massimiliano Fedriga di "disparità di trattamento" tra chi abita in una grande città e chi invece nei piccoli comuni.

Posizione condivisa da Matteo Salvini. "Il governo non conosce l'Italia e i suoi ottomila comuni e divide le famiglie - accusa il leader leghista - Un conto è abitare a Milano o Roma, un altro è essere residente dei 5.495 comuni che hanno meno di 5mila abitanti e che spesso hanno figli e genitori, nonni e nipoti, divisi da una manciata di chilometri". Ai governatori risponde Boccia ribandendo che coprifuoco e limitazione alla mobilità sono punti "inamovibili": è "incomprensibile - afferma il ministro - "il loro stupore. Le norme sono state discusse in due riunioni durate 7 ore". Una crepa si apre però anche nel governo. Le ministre di Italia Viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti avrebbero chiesto che il verbale del Cdm registri la loro netta contrarietà alla misura e 25 senatori del Pd, molti vicini all'ex leader Matteo Renzi, chiedono di modificare la norma rendendo possibili i ricongiungimenti familiari a Natale. E' una misura "sbagliata" dice il capogruppo Andrea Marcucci, rivolgendosi direttamente al premier. A stoppare la fronda è pero il segretario Nicola Zingaretti: con mille morti, "rifletta chi non capisce quanto è importante tenera alta l'attenzione con regole rigorose". Una sponda a Conte che arriva anche dai sindaci, con il presidente dell'Anci Antonio Decaro che invita il governo a "non dare segnali di allentamento". Non c'è stato al momento scontro, invece, sul ritorno a scuola dei ragazzi delle superiori dopo le feste, con il premier che non ha escluso la possibilità di turni pomeridiani anche se la decisione sarà lasciata alle realtà territoriali. Dal 7 gennaio saranno in presenza al 75% e nel frattempo partirà un tavolo con i prefetti per affrontare il problema irrisolto da settembre, quello dei trasporti. Nella bozza del Dpcm era al 50% ma, dicono dall'Istruzione, su sollecitazione della ministra Lucia Azzolina si è arrivati al 75%.

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/12/03/covid-regioni-il-decreto-approvato-senza-averci-interpellato_c334c149-36b8-4936-9652-48570e52123f.html

Stormir di fronde. - Marco Travaglio























Per non farci mancare nulla, ora abbiamo pure le fronde. Tre, senza contare quella dei renziani che ce l’hanno nel Dna. C’è quella di un drappello di senatori Pd che contestano il governo sul divieto agli spostamenti tra Comuni durante le feste. C’è quella dei 46 parlamentari 5Stelle capitanati da Morra, Toninelli e Lezzi che contestano il sì dell’Italia alla riforma del Mes. E c’è quella di 4 eurodeputati M5S che se ne vanno con supercazzole sulla buonanima di Casaleggio, sulla “difesa del pianeta e la tutela della salute dei cittadini” e sulla “fine del Movimento” a far data da cotanta perdita. Tre fronde diverse, un comune denominatore: l’assoluto e irresponsabile distacco dalla realtà. Alla fronda pidina ha risposto, a stretto giro, il dato terrificante dei morti di ieri per o con Covid: quasi mille, record assoluto dall’inizio della pandemia. In quattro giorni abbiamo avuto più vittime dell’11 Settembre e certi decerebrati vanno dietro ai capricci dei parenti stretti ed eventuali elettori. La miglior risposta alle due fronde grilline sarebbe una risata, ma siccome c’è in ballo il governo va articolata meglio.

La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi. La solita eterogenesi dei fini, già sperimentata con la linea Di Battista-Laricchia alle Regionali: il M5S rifiutò l’alleanza col Pd in Puglia, perse per strada un bel po’ di elettori che provvidero da soli, salvo poi entrare nella giunta Emiliano con un peso molto più marginale di quello che avrebbe avuto con un’intesa preventiva. Una soluzione di buonsenso l’ha indicata il viceministro Pierpaolo Sileri: il M5S fa passare la riforma del Mes e gli alleati Pd-Iv-Leu la piantano di invocare il prestito anti-Covid di 36 miliardi, visto che Conte e Gualtieri hanno ribadito mille volte che l’Italia non ne ha bisogno perché non ha problemi di cassa, non è alla bancarotta e ha già stanziato per la sanità quasi 10 miliardi in 9 mesi con vari scostamenti di bilancio. Se ne servono altri, basta prenderli dalle convenzioni fra Regioni e cliniche private. Ma, come tutte le soluzioni di buon senso, anche questa ha un’aspettativa di vita sottozero.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/04/stormir-di-fronde/6026164/

giovedì 3 dicembre 2020

“Mafie e virus sono fatti l’uno per l’altro. Dallo smaltimento dei rifiuti sanitari all’affare dei farmaci: il business dei clan al tempo del Covid”: il rapporto di Libera. - Manuela Modica

 

Il rapporto dell'associazione antimafia riassume dati, fatti, intercettazioni, che disegnano un quadro chiaro su come la criminalità organizzata abbia già cominciato a trarre profitto dall’emergenza. Numeri raccolti e rielaborati che restituiscono un affresco dell’emergenza dal punto di vista criminale. Don Ciotti: "Covid e clan fatti l'uno per l'altro. È quanto risulta da questo rapporto, una fotografia inquietante del grado dell’infezione mafiosa ai tempi del Covid".

“Col virus si fanno i soldi”. Così parlava lo scorso maggio Salvatore Emolo, sottoposto a sorveglianza speciale per camorra. Ignaro di essere intercettato Emolo chiariva il suo business plan: “In pieno lockdown, aveva trovato una soluzione: il cugino era già il titolare di un’impresa di lavaggio auto con sede a Pesaro, bisognava riadattare l’azienda alle esigenze, trasformandola in una ditta di sanificazioni”. È solo un esempio di come l’emergenza scatenata dal Covid sia diventata un’occasione per la criminalità organizzata, “l’altro virus” che si muove parallelo all’epidemia. “Mafiavirus“, lo ha definito don Luigi Ciotti, il fondatore dell’associazione antimafia Libera che con la rivista Lavialibera ha appena pubblicato un rapporto sulla pandemia e la criminalità organizzata, dal titolo: “La tempesta perfetta. Le mani della criminalità organizzata sulla pandemia”. “Mafie e Covid: fatti l’uno per l’altro. È quanto risulta da questo rapporto, una fotografia inquietante del grado dell’infezione mafiosa ai tempi del Covid. Fotografia che si è potuta sviluppare grazie alla camera non oscura ma chiara, trasparente, luminosa della condivisione e della corresponsabilità”, commenta Ciotti, descrivendo il dossier.

Sei interdittive antimafia al giorno – Sono 48 pagine di dati, fatti, intercettazioni come quella di Emolo, che disegnano un quadro chiaro su come la criminalità organizzata abbia già cominciato a trarre profitto dall’emergenza. Dati raccolti e rielaborati che restituiscono un affresco dell’emergenza dal punto di vista criminale: “Le attività investigative di Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza insieme alle procure, le direzioni distrettuali e la Procura Nazionale Antimafia tra penali e amministrative, hanno portato all’apertura di oltre tremila fascicoli di indagine, tutti con il codice Covid-19”. Tremila inchieste col nome della pandemia che ha acceso gli appetiti di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra. Mentre nei primi nove mesi dell’anno il ministero dell’Interno ha registrate ben 1.637 interdittive antimafia, alla media di 181 al mese, sei provvedimenti al giorno. D’altronde si tratta di un’emergenza sanitaria, lì dove con “emergenza” si crea il contesto ideale per l’eccezione alla regola, ovvero per ottenere appalti legati alla distribuzione di presidi medicali ma anche allo smaltimento dei rifiuti speciali ospedalieri. E lo smaltimento di rifiuti, è ben noto, è da sempre nel mirino della criminalità organizzata, camorra in primis. La sanità è uno “strumento di consenso di cui si serve molto anche la politica, visto che spesso condiziona le nomine, dai primari ai vertici di ospedali e aziende sanitarie”, ricorda il report.

L’affare dello smaltimento di rifiuti sanitari – Secondo un calcolo dell’Anac tra il 1° marzo e il 9 aprile sono stati spesi 2.277 miliardi di fondi pubblici per l’acquisto di mascherine (23%), camici e altri dispositivi di protezione individuale (32%), respiratori polmonari (23%), tamponi (5%) e altro. Una tavola molto più che ghiotta che riguarda anche le opere di ristrutturazione delle Rsa, dove non mancheranno assegnazione di appalti e forniture di dispositivi sanitari. Una tavola che fa gola soprattutto alla ‘ndrangheta: “Certo, ora abbiamo la necessità di smaltire enormi quantità di rifiuti sanitari. Si tratta di materiali pericolosi, che hanno come unica destinazione l’inceneritore. Vorrei che ci fosse una maggiore tracciabilità, perché da tempo la criminalità è interessata al settore”, spiega il procuratore aggiunto, Alessandra Dolci, capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, che ha lanciato l’allarme sugli interessi della ‘ndrangheta legati all’emergenza sanitaria. I numeri spiegano di che interessi si tratta: dal 1° marzo al 27 novembre – ricorda il report di Libera e Lavialibera – sono state distribuite dalla Protezione Civile 2.012.798.391 mascherine sanitarie. Tutte da smaltire negli inceneritori una volta utilizzate. Perfino il Financial Times aveva rilevato che “alcune imprese del settore sanitario legate alla ‘ndrangheta hanno ceduto le fatture non pagate dalle aziende sanitarie pubbliche a intermediari per recuperare crediti; a loro volta gli intermediari hanno ceduto le fatture non pagate a società finanziarie che hanno creato ‘strumenti di debito‘ venduti agli investitori di tutto il mondo. Le inefficienze della sanità pubblica e gli affari delle mafie sono entrati così nel mercato finanziario globale”.

Le mani dei clan sui farmaci – E ora che siamo vicini ad una svolta, le mafie non saranno impreparate: solo poche settimane fa l’Agenzia delle dogane avvertiva sul rischio di immissioni di vaccini pericolosi. D’altronde anche il capo della Polizia Franco Gabrielli aveva evidenziato: “Pensate solo all’attenzione che c’è per la ricerca di nuovi vaccini, di strutture per l’accoglienza dei pazienti o per i dispositivi di protezione individuale. Oltre a tutta la partita sui farmaci per curare le malattie: alcuni valgono più dell’oro”. E questo è il Covid-19 per la criminalità organizzata: oro. “Con i farmaci faremo 100 milioni l’anno”. “Giovà…, gli antitumorali gli ospedali li comprano a mille, e nell’Inghilterra li vendono a 5 mila. Quindi tu compri a mille e vendi a 5 mila, e così guadagni 4 mila euro l’uno. Allora se noi entriamo con due ospedali, che ti danno 10 farmacie…”. Sono le parole del boss della ‘ndrangheta Grande Aracri. Il “nuovo business”, come lo ha definito Aracri al quale non poteva mancare la mafia.

Il boom dei reati spia: riciclaggio e usura – Dalla Calabria alla Sicilia: “Sorella sanità è il nome dell’inchiesta della Guardia di Finanza di Palermo che il 20 maggio scorso ha svelato il sistema costituito da Fabio Damiani e Antonino Candela. – ricordano nel Report -. L’inchiesta della Finanza riguarda un sistema di mazzette attorno a quattro appalti della sanità siciliana. Gare, per un valore totale di 600 milioni di euro”. Eppure Cosa nostra siciliana pare retrocedere nel grande affare del Covid: l’isola registra solo 178 interdittive e risulta quarta, dietro l’Emilia Romagna, che ne registra 218. Una regione del centro-nord che arriva terza dopo Campania che raggiunge quota 468 interdittive e Calabria con 343, in calo rispetto all’anno precedente. Ma la porta d’ingresso più pericolosa nell’economia da parte della criminalità organizzata – dopo il periodo di lockdown per contrastare il Coronavirus – è costituita dai mercati finanziari. I ricercatori della Banca d’Italia hanno tracciato le operazioni sospette: sono 53.027, in aumento (+3,6 per cento) rispetto al 2019. E, manco a dirlo, “la crescita complessiva del semestre è determinata dalle segnalazioni di riciclaggio, in aumento rispetto al primo semestre del precedente anno (+4,7 per cento)”. Secondo i dati elaborati dal rapporto di Libera e Lavialibera, poi, le operazioni sospette di riciclaggio hanno dato questo risultato: “Trentino col 47 percento, Lazio col 38, Sardegna con 37, Calabria col 17,8, Val D’Aosta 14,1, Campania, 9,7”. A conferma di una sempre maggiore operatività della criminalità organizzata nelle regioni del Nord. La crisi economica, tradotta praticamente in una mancanza di liquidi nelle tasche degli italiani, ha creato l’humus perfetto per l’acquisizione di società in difficoltà, trasformando l’emergenza in occasione propizia per riciclare denaro sporco. E tra i reati contro il patrimonio, l’usura è “l’unico reato che ha fatto registrare un aumento. Da sempre l’usura è uno dei reati spia quale indicatore significativo dell’operatività dei gruppi criminali e del controllo mafioso sul territorio”, sottolineano nel rapporto.

Crescono i reati online – Tutti chiusi in casa da marzo a maggio: ecco l’occasione per l’aumento dei crimini online: “Solo nei primi quattro mesi dell’anno in corso si sono registrati un totale di transazioni fraudolente pari ad oltre 20 milioni di euro in costante ed ulteriore ascesa… un aumento del 600 per cento nel numero di email di phishing in tutto il mondo, con sfruttamento di temi correlati al Coronavirus per raggirare persone fisiche ed aziende”. Un fenomeno che non ha limiti geografici, come rivelava l’Fbi, la scorsa primavera: “Il numero di segnalazioni di crimini informatici ricevute dall’agenzia sia più che triplicato durante la pandemia da Coronavirus”. Ma se non si può uscire come va avanti il traffico di droga? Basta aggiornare i modelli di trasporto, le rotte del traffico e i metodi di occultamento alle limitazioni imposte dalla pandemia. È così che in Spagna tra marzo e aprile sono state sequestrate 14 tonnellate di droghe: “Sei volte la quantità scoperta nello stesso periodo del 2019, altre 18 tonnellate in Belgio – sei in più dell’anno scorso, e 4,5 in Olanda (fonte Europol)”. Niente che sorprenda gli italiani: il 70 percento ritiene che della spinta dell’emergenza Covid la corruzione in Italia si stia diffondendo ancora di più, come rivela l’indagine condotta da Demos per Libera dal 10 al 13 novembre scorso.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/02/mafie-e-virus-sono-fatti-luno-per-laltro-dallo-smaltimento-dei-rifiuti-sanitari-allaffare-dei-farmaci-il-business-dei-clan-al-tempo-del-covid-il-rapporto-di-libera/6024186/

La Palermo di Ciancimino esiste ancora: uno sfregio alla città. - Riccardo Lo Verso

 

La confisca subita dal costruttore Zummo riporta a galla gli anni del sacco edilizio. Migliaia di pratiche fuorilegge.

La Palermo del cemento selvaggio di Vito Ciancimino è uno sfregio eterno. La ferita ricorda, ad perpetuam rei memoriam, che una parte della città sarà per sempre come non avrebbe dovuto essere.

La Palermo di Ciancimino resiste nelle fondamenta e nei muri delle case dove vivono migliaia di palermitani. Interi palazzi costruiti con i soldi sporchi della mafia quando don Vito controllava la macchina burocratica. Fu assessore ai lavori pubblici della giunta di Salvo Lima negli anni ’60 e sindaco per meno di due mesi nel 1970, ma i suoi legami con la mafia corleonese lo resero potente fra i potenti anche negli anni successivi.

La sua storia è tornata di attualità con la confisca, decisa pochi giorni fa dalla Corte di appello di Palermo, dei beni del costruttore Francesco Zummo, che alla soglia dei 90 anni, e al termine dell’ennesimo step di un lungo iter processuale non ancora definitivo, si è visto togliere un patrimonio da 150 milioni di euro dagli agenti della Direzione investigativa antimafia, guidati dal capo centro Paolo Azzarone.

La Corte (presidente Fabio Marino, consigliere Filippo Messana e consigliere estensore Pietro Pellegrino) sono stati piuttosto critici con i giudici che in primo e in secondo grado (prima che la Cassazione stabilisse la necessità di celebrare un nuovo processo di appello) avevano deciso di restituire i beni a Zummo.

Il principio adottato era che non ci fosse la prova che il costruttore avesse impiegato i soldi di Cosa Nostra. Mafiosa, però, e il collegio ora lo ribadisce, è anche quell’impresa che “tragga dal rapporto col sodalizio di criminalità organizzata rilevanti vantaggi e concrete agevolazioni economiche”.

C’è di più però, perché chi decise di restituire i beni a Zummo lo fece ritenendo “arduo”, alla luce del tempo trascorso, approfondire i singoli affari illeciti nonostante le sentenze passate in giudicato avessero dato ampia prova dei rapporti di Zummo con Ciancimino e altri mafiosi. Solo che “non è affatto necessario”, scrivono i giudici, individuare i singoli affari, ma sarebbe bastato verificare se Zummo avesse avuto vantaggi economici.

Ed ecco il passaggio cruciale della vicenda: i rapporti con Ciancimino e con altri mafiosi hanno contribuito, secondo l’accusa, in maniera decisiva ai “faraonici utili imprenditoriali” di Zummo. Nessuna concorrenza, facile accesso al credito, controllo della manodopera: grazie alla mafia Zummo ebbe vita facile. Lui e il consuocero Vincenzo Piazza, un altro costruttore d’oro, capace di accumulare un impero da mille miliardi di vecchie lire.

C’era don Vito Ciancimino a facilitare le procedure per ottenere le concessioni edilizie. Migliaia di concessioni, tenendo conto che Zummo negli anni del ‘sacco’ edilizio ha costruito qualcosa come 2500 appartamenti nella sola Palermo. Via Petrazzi, via Brunelleschi, Via Pietro Scaglione: palazzoni su palazzoni costruiti da Zummo. “Un paese, un intero villaggio”, lo chiamava Rosario Naimo, garante della pax mafiosa fra gli scappati della guerra di mafia e i corleonesi di Totò Riina, infine divenuto collaboratore di giustizia.

Don Vito Ciancimino metteva a posto le cose. Si superavano ostacoli altrimenti insormontabili, come la mancanza dei piani di lottizzazione preventiva. Si rendeva possibile l’impossibile come il cambio di destinazione d’uso di intere aree industriali in zone di residenziali in barba al piano regolatore.

Un esempio fra tanti sommerso delle scartoffie della malaburocrazia: anche l’area dove oggi sorge il rione Marinella, tra Tommaso e lo Zen, era un’area industriale. Le regole erano chiare. Per cambiare la destinazione serviva una delibera del Consiglio comunale dopo il parere della Commissione urbanistica. Ed invece il 25 gennaio 1974 una delibera di giunta, la numero 123, diede il via libera alla cementificazione senza alcun piani di lottizzazione.

Altrove – allo Sperone, a Partanna Mondello, nelle vie Oreto, Messina Marine e dell’Orsa minore – la Commissione edilizia del Comune fra il 1969 e il 1973 diede il via libera alla costruzione di interi in assenza di piani di lottizzazione.

O meglio fu stabilito che si poteva procedere anche senza lottizzazione perché i piani volumetrici erano contenuti. Ed invece arrivarono le solite colate di cemento, senza preoccuparsi non tanto del gusto estetico, che sarebbe stato fin troppo pretenzioso, ma della vivibilità.

Migliaia e migliaia di pratiche con irregolarità eclatanti che “solo la mano interna di un personaggio di spicco, capace di di manovrare uomini ed apparati poteva portare a termine”. Erano gli anni in cui Vito Ciancimino dettava legge e ha sfregiato Palermo in maniera permanente.

https://livesicilia.it/2020/12/03/la-palermo-di-ciancimino-resiste-nei-palazzoni-dellillegalita/?refresh_ce

Chi ha davvero paura della patrimoniale. - Salvatore Cannavò

 

Qual è il “ceto medio”. Dibattito e isterie. La proposta è approssimativa, ma la destra mente sui dati. Solo il 10% delle famiglie supera i 500 mila euro (ma ha il 44% di beni e denaro).

Che paura che fa la patrimoniale. Basta solo accennarne l’introduzione che in Italia scatta una reazione isterica, prevalentemente a destra, ma non solo, da far impallidire i camionisti cileni che diedero il via all’affossamento di Salvador Allende.

La proposta avanzata da LeU con qualche improbabile compagno di strada democratico (vedi Matteo Orfini, che da presidente del Pd avallò il Jobs Act) non ha certo brillato per fattibilità, come ha già argomentato su queste pagine Antonio Padellaro. Non a caso quell’emendamento alla legge di Bilancio è stato giudicato ieri “inammissibile” dalla commissione Bilancio della Camera per “carenza o inidoneità della compensazione”, cioè per mancanza di coperture.

Qui viene a galla il primo paradosso. L’inammissibilità, infatti, dipende da ragioni opposte a quelle per cui il provvedimento è stato duramente attaccato. A fronte di un prelievo sul patrimonio, infatti, l’emendamento prevedeva anche l’abolizione dell’Imu sulle persone fisiche (oggi esistente solo sulle seconde case) e dell’imposta di bollo sui conti correnti bancari e deposito titoli.

L’abolizione provocherebbe un mancato gettito di circa 19 miliardi da compensare con la “patrimoniale” che è stata pensata così: un’imposta sui grandi patrimoni superiori a 500 mila euro comprensivi di attività mobiliari e immobiliari al netto delle passività finanziarie, con un’aliquota base dello 0,2% che sale allo 0,5% oltre 1 milione di euro e fino a 5 milioni di euro e poi sale ancora all’1% sopra i 5 milioni e al 2% sopra i 50 milioni. Per la commissione Bilancio, però, la compensazione non è chiara e quindi l’emendamento non è stato accolto.

Nicola Fratoianni, mostrandosi sorpreso e minacciando ricorsi, dice al Fatto che secondo i calcoli di Sinistra italiana il saldo netto positivo della misura sarebbe di 10 miliardi, “ma in Italia manca una valutazione del patrimonio e quindi è difficile fare valutazioni esatte”.

Lasciando da parte l’improvvisazione con cui l’iniziativa è stata presa, quello che colpisce è il furore con cui la destra italiana e quel manipolo di “liberisti de noantri” che popola le pagine dei principali giornali ha reagito al grido di “giù le mani dai nostri portafogli”. Tra i più esagitati, Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith society e Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e uomo-Mediaset.

Gli attacchi vengono portati senza alcuna attinenza ai numeri reali e con la reale condizione delle famiglie italiane preferendo urlare a un generico “assalto criminale” al bene supremo degli italiani, la casa. Qui, però, si fa sempre finta di non sapere che le imposte si pagano sui valori catastali e non sul valore commerciale, che è di circa tre volte il valore di riferimento per l’imposta. Ne troviamo conferma sia in uno studio della Cisl che nelle stime di Salvatore Morelli, Research Assistant Professor presso il Graduate Center della City University of New York.

Quando si pensa a un valore immobiliare di 500 mila euro occorre pensare a un bene che sul mercato vale circa 1,5 milioni, una piccola reggia se non è collocato di fronte al Duomo di Milano. Ma non è neanche questo a inquinare il dibattito. Il vero problema è la concentrazione della ricchezza in Italia dimostrata da tutti gli studi da qualunque parte provengano. I numeri di Banca d’Italia parlano chiaro. Solo il 10% più ricco delle famiglie italiane ha un patrimonio complessivo, finanziario e non, superiore ai 500 mila euro, anzi, stando ai dati riferiti al 2016, gli ultimi disponibili, ai 462 mila euro.

Questo decile della popolazione, come si vede nella tabella, detiene il 44% della ricchezza complessiva stimata, al lordo delle passività finanziarie, in 9.742 miliardi di euro. Significa che il 10% delle famiglie detiene circa 4.286 miliardi di euro della ricchezza complessiva. Quella detenuta dal 30% più povero delle famiglie è appena l’1% di quella complessiva, e come sottolinea la Banca d’Italia, “tre quarti di queste famiglie sono anche a rischio di povertà. Il 30% più ricco delle famiglie, invece, detiene circa il 75% del patrimonio complessivo, con una ricchezza netta media pari a 510 mila euro, il doppio della ricchezza media delle famiglie pari a 206 mila euro.

“Tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta media è diminuita del 5%”, ricorda ancora Banca d’Italia mentre uno studio di Morelli e di Paolo Acciari, dirigente del Mef, mostra come dal 1995 al 2014 la ricchezza dell’1% più ricco della popolazione sia passata dal 17 al 27% della ricchezza netta complessiva.

Altro che “ceto medio” in lacrime di fronte alla patrimoniale, qui c’è un nucleo molto ristretto di super-ricchi – spesso evasori fiscali, beneficiari di paradisi intra ed extra-europei, meri beneficiari di eredità – che monopolizza il patrimonio nazionale.

Per questo la discussione sulla tassazione dei patrimoni non è un tabù e infatti è entrata nel dibattito spagnolo, grazie a Podemos, con un’imposta del 2% sulle attività nette superiori a 1 milione di euro, per poi salire progressivamente. Anche in Francia, benché a governare ci sia il liberista Emmanuel Macron, l’imposta sulla fortuna (Isf) non è stata eliminata del tutto lasciando in vigore quella sui patrimoni immobiliari con aliquote progressive a partire da 1,3 milioni.

L’economista Thomas Piketty nel suo recente Capitale e ideologia mostra come la quota di reddito a disposizione del 10% di popolazione più ricca (di Usa, Europa, Cina, India e Russia) sia passata dal 25-35% del 1980 al 35-55% del 2018. E ispirandosi alla “giustizia” di John Rawls propone una robusta tassazione patrimoniale per finanziare una “dotazione di capitale” ai giovani di 25 anni dall’importo di 120 mila euro.

Una idea simile rilancia il Forum Diseguaglianze e Diversità coordinato da Fabrizio Barca, che ha lanciato l’ipotesi di offrire ai giovani di 18 anni una “eredità universale” di 15 mila euro al compimento della maggiore età da prelevare proprio con una imposizione sulla successione. Figurarsi dopo il napalm berlusconiano cosa succederebbe se si discutesse di nuovo di tassa di successione. Eppure, ai “liberisti de noantri” non farebbe male rileggere Alexis de Tocqueville: “Mi stupisco – scriveva ne La democrazia in America – che gli scrittori politici non abbiano attribuito alle leggi sulle successioni una maggiore influenza sulle cose umane: dovrebbero essere messe in testa a tutte le istituzioni politiche”. Già.

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Vaccino: all’Italia 200 milioni di dosi e non sarà obbligatorio. - Alessandro Mantovani

 

Il piano. Il ministro Speranza in Parlamento: “Logistica, stoccaggio, approvvigionamento, trasporto e somministrazione, tutto centralizzato”.

Ventimila persone impegnate: medici, infermieri e operatori sanitari, ma anche giovani laureati in Medicina iscritti ai corsi di specializzazione. Un luogo di stoccaggio nazionale e 300 punti vaccino in tutta Italia per conservare anche prodotti che, come quello dell’americana Pfizer, e della tedesca Biontech destinato a quanto pare ad arrivare per primo, richiedono temperature fino a -70 gradi. Un elenco delle categorie da vaccinare prioritariamente: operatori sanitaripersonale e anziani delle Rsa e over 80, seguiti da over 60malati cronici e lavoratori dei servizi essenziali. Stavolta si centralizza, almeno “logistica, approvvigionamento, stoccaggio e trasporto – ha spiegato ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, illustrando il piano vaccini – saranno di competenza del Commissario straordinario” Domenico Arcuri e non delle Regioni. Avranno un ruolo anche le forze armate. Servirà una piattaforma informatica che faccia tesoro del flop di Immuni.

“C’è luce in fondo al tunnel”, ha detto Speranza al Senato anche se, ha spiegato, “al momento nessun vaccino è stato approvato” dalle agenzie Usa (Fda) e Ue (Ema). L’Italia, attraverso i sei contratti segreti stipulati dalla Commissione Ue per gli Stati membri, “ha opzionato 202.573 milioni di dosi” che basterebbero per tutti anche con la doppia somministrazione che si dà per necessaria. Sono sei prodotti diversi: AstraZeneca (per 40,38 milioni di dosi), Johnson e Johnson (53,84 milioni), Sanofi (40,38 milioni), Pfizer/Bnt (26,92), CureVac (30,285), Moderna (10,768). È il 13,46% del totale opzionato dall’Ue, pari al peso demografico del nostro Paese. Questo, naturalmente, “se tutti i processi autorizzativi andassero a buon fine”.

Certezze non può averne, la scelta è stata pagare per stare su tutti i tavoli, anche firmando contratti segreti che trasferiscono al contraente pubblico, non si sa in quale misura, la responsabilità per eventuali danni. L’alternativa sarebbe attendere che il virus sparisca da sé.

Non ci sono ancora studi pubblicati, Pfizer/Biontech e Moderna hanno dichiarato efficacia superiore al 90% nel prevenire forme sintomatiche più o meno gravi di Covid-19; meno certezze sulla protezione dall’infezione in sé, che Pfizer potrebbe garantire. Questi due vaccini sono tra i più costosi, circa 20 dollari a dose. I dati clinici arriveranno a breve, anche perché le riviste scientifiche hanno criticato la politica degli annunci delle scorse settimane. Le autorizzazioni, se e quando ci saranno, avranno carattere provvisorio e d’emergenza, il che richiederà “una sorveglianza aggiuntiva sulla sicurezza dei vaccini stessi – ha spiegato ancora Speranza –, monitorando gli eventuali eventi avversi” per ciascun vaccinato. Le agenzie regolatorie di Stati Uniti (Fda) e Unione europea (Ema), per ora, hanno ricevuto i primi risultati solo da Pfizer/Biontech e Moderna. Sono vaccini a Rna messaggero, basati cioè sulla sequenza genetica del virus secondo un processo diverso dalla produzione di virus depotenziati o proteine, che sono tecniche più tradizionali. L’agenzia europea “potrebbe esprimersi il 29 dicembre sul vaccino Pfizer-Biontech e il 12 gennaio sul vaccino Moderna – ha spiegato il ministro –. Queste due aziende nel primo trimestre dell’anno prossimo, da contratto, dovrebbero fornirci rispettivamente 8,749 milioni di dosi Pfizer-Biontech e 1.346.000 Moderna”. È più indietro l’anglo-svedese AstraZeneca, che lavora con l’Università di Oxford ed era arrivata terza negli annunci: il suo vaccino, più tradizionale, costa molto meno. Le prime dosi, poco più di 10 milioni, sarebbero dunque destinate agli operatori sanitari (1.404.037 secondo i dati forniti da Speranza), al personale e agli ospiti delle Rsa (507.287) e agli anziani over 80 (4.442.048): in totale sono 6.416.372 persone. Poi toccherà ai 13,4 milioni di italiani che hanno tra i 60 e i 79 anni e ai 7,4 milioni con patologie croniche (in parte già compresi). Per la seconda fase Speranza ha indicato “gli insegnanti ed il personale scolastico, le forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità”.

“Noi dobbiamo essere pronti allo scenario migliore. E poi adattarci se le scadenze dovessero cambiare. Il cuore della campagna vaccinale, secondo le nostre previsioni, sarà l’arco di tempo tra la prossima primavera e l’estate”. Si esclude l’obbligo: “Valuteremo l’adesione dei cittadini. L’obiettivo è raggiungere l’immunità di gregge”. Che vuol dire dal 70 per cento di vaccinati in su.

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Montezuma. - Marco Travaglio

 

L’altra sera, facendo zapping, mi è parso di intravedere a Dimartedì il mio amico Giannini che citava se stesso. E il mio amico Carofiglio che citava se stesso e poi dava fondo all’intero dizionario delle citazioni, che evidentemente sa a memoria. Roso dall’invidia, stavo per spegnere, quando mi è apparso Luca Cordero di Montezemolo che, collegato da una qualche Versailles, piagnucolava perché c’è un sacco di gente che soffre ed è alla fame, ma soprattutto perché il governo è sempre in ritardo su tutto (rispetto a cosa? boh), vuole pure negarci quella leccornia del Mes e non si circonda delle persone giuste, signora mia. E dire che su piazza ci sarebbe lui, prêt-à-porter, se solo lo chiamassero a insegnare un po’ d’efficienza. Ma niente, non lo chiamano. È stato allora che mi sono convinto di avere sognato: quel signore dalla chioma giallo-canarino-metallizzato che dava lezioni al “governo della paralisi” che “non pensa al futuro”, non poteva essere Montezemolo. Altrimenti gli sarebbe scappato da ridere.

Il Montezemolo vero, detto “Libera e bella” per il crine fluente e cotonato d’un tempo, nasce nel 1947 a Bologna da nobili lombi sabaudi. Amico del cuore di Cristiano Rattazzi, figlio di Suni Agnelli, fa tanto divertire l’Avvocato. Così nel 1973 approda alla Ferrari. È il suo più grande e forse unico successo della vita (donne a parte), anche perché alla guida delle Rosse c’è Niki Lauda. Appena passa alle Relazioni esterne della Fiat, si scopre che si fa pagare da finanzieri straccioni per presentarli ad Agnelli, per giunta con banconote nascoste dentro libri svuotati di Enzo Biagi. Romiti lo caccia su due piedi e anni dopo racconterà: “Abbiamo pescato un paio di persone che pretendevano soldi per presentare qualcuno all’Avvocato. Uno l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano”. Tra i fumi dei vermouth, Libera e bella resiste poco. Eccolo dunque sulla tolda di Azzurra all’America’s Cup. E poi al vertice del comitato dei Mondiali di Italia 90, altra calamità naturale: opere sballate, sprechi faraonici, ritardi mostruosi, costi degli stadi alle stelle (ultima rata pagata dallo Stato nel 2015). Ma, come diceva Totò, il talento va premiato. L’Avvocato lo ripesca e lo manda a rilanciare la Juventus con il “calcio champagne” di Gigi Maifredi. Risultato: la Juve arriva settima, esclusa dopo ben 28 anni da tutte le Coppe internazionali. In più, la società paga 4 miliardi di lire in nero al Torino per l’acquisto di Dino Baggio, con fondi gentilmente forniti da un conto svizzero di Agnelli. “Vedremo che cosa saprà fare da grande”, dice l’Avvocato mentre lo congeda dalla Juve dopo appena un anno e richiama in servizio il grande Giampiero Boniperti.

Montezuma viene parcheggiato a Rcs Video, a occuparsi di videocassette: altro flop catastrofico da centinaia di miliardi. Così torna in Ferrari, l’unica cosa che gli riesce bene. Ma, lievemente bulimico, non si contenta e inizia una collezione di poltrone e sofà da Guinness: Corriere, Stampa, Le Monde, Tf1, Fiera di Bologna, Confindustria, Luiss, Indesit, Merloni, Poltrona Frau, Maserati, Unicredit, Ntv treni, Tod’s, Federazione Editori, Campari, Assonime, Citi Inc., Pinault, Fnac, Ppr Sa, Telethon, Unione Industriali Europei, Confindustria Modena, Cnel, Citigroup, Fondo Charme (sede in Lussemburgo, ci mancherebbe), senza contare una candidatura a ministro di Qualcosa nel governo Berlusconi-2 (2001), annunciata dal Caimano per acchiappare voti in campagna elettorale, mai smentita dall’interessato e poi tramontata. Dall’alto di cotanti successi, è pronto per la politica. Nel 2009 fonda Italia Futura in vista della discesa in campo, circondato da un trust di cervelli da paura: Umberto Ranieri, Andrea Romano, Carlo Calenda, Linda Lanzillotta. Il meglio sono i fratelli Vanzina, che almeno un mestiere ce l’hanno e lo fanno bene. Lui intanto si fa beccare al telefono col faccendiere pregiudicato della P2 e della P4 Luigi Bisignani, a cui ha assunto il figlio alla Ferrari, ma solo perché “è in gamba”. Naufragata anche Italia Futura, che confluisce in Scelta Civica di Mario Monti, cioè nel nulla cosmico, la maledizione di Montezuma si riabbatte sulla Fiat, di cui diventa presidente dopo la morte di Umberto Agnelli. Poi arriva Marchionne e nel 2010 lo liquida con una buonuscita di 27 milioni. E nel 2014 lo caccia anche dalla Ferrari: pure lì ha perso il tocco magico.
Ma l’Innominabile è pronto a riciclarlo, come mediatore con gli arabi di Etihad e poi come presidente della “nuova Alitalia”. Che perde più soldi di quella vecchia, tant’è che ora il nostro è indagato a Civitavecchia per bancarotta. Non bastando, lo piazzano anche al comitato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, in tandem col suo dioscuro Giovannino Malagò. Ma lì, a impedirgli di fare altri danni, provvede Virginia Raggi col gran rifiuto. Lui, appena uscito da Ntv con 250 milioni in saccoccia, si rifà con la presidenza del Sigaro Toscano, perché non si dia del venditore di fumo: nel 2018 ne annuncia financo la quotazione in Borsa, ma ovviamente non se ne saprà mai più nulla. Voi capite perché, l’altra sera, quando l’ho visto pontificare di efficienza e buona gestione e piagnucolare per la povertà che avanza e l’inadeguatezza della classe dirigente, ho empatizzato col povero generale Cotticelli. E ho pensato che avessero drogato anche me.

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