lunedì 24 gennaio 2022

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA COSTITUZIONE E L’UNITÀ NAZIONALE. - GUSTAVO ZAGREBELSKY

 

“Non divisivo”: Il presidente della Repubblica non deve essere divisivo: è ovvio, siamo tutti d’accordo. È il rappresentante dell’unità nazionale. Ma, detta così senza precisare di chi e di che cosa non si deve essere divisivi, la parola è insensata. Serve solo a scambiarsi accuse: tu sei divisivo – no, divisivo sarai tu. Berlusconi è divisivo – no, sei tu il divisivo, nel momento stesso in cui lo dici di un altro. Non fermiamoci alla superficie e cerchiamo di guardare un poco che cosa c’è dentro questa parola. La politica è una sequenza di decisioni, cioè di scelte tra possibilità. Decidere significa per l’appunto dividere, tagliare, separare. Se non c’è nulla da decidere, come accade di fronte alle cose che dipendono non da noi ma dalla necessità, dal caso o dal destino, non si è, né si può essere divisivi.

Ma, fuori di questi casi, cioè nel campo delle scelte d’ogni giorno, non si può accontentare tutti. Si è divisivi per necessità, prima che per volontà. Chi volesse o promettesse di accontentare tutti sarebbe un illuso o, peggio, un ipocrita, un impostore. In politica, essere divisivi è giocoforza. Non si può piacere a tutti. C’è un momento storico in cui si concentra la summa divisio politica. È il momento in cui si stabilisce una costituzione. Per quanto si desideri ch’essa sia inclusiva, soprattutto dopo una guerra civile, quando la pacificazione è il primo imperativo, la costituzione non può includere tutto. Ogni costituzione è una differenziazione e una decisione. Non si può costituzionalizzare tutto e il suo contrario.

Si vuole la pacificazione e, quindi, non si può ammettere la violenza. Si può credere nella dignità delle persone e dare spazio al razzismo? Si vuole uguaglianza, libertà e solidarietà e ammettere l’egoismo dei più forti e dei più ricchi. Si vuole la tolleranza, che è una virtù reciproca, e si può tollerare l’intolleranza? A tutto questo e a molto altro la prima e fondamentale decisione costituzionale dà risposte chiare e nette, a incominciare dall’antifascismo che la permea in tutte le sue parti. Questa è l’unità nazionale, una nozione non neutra, amorfa, ma piena di contenuti. Non equivale a dire: tutti hanno un po’ di ragione e un po’ di torto. Non si può, per esempio, essere equidistanti tra i ladri e le guardie, tra gli evasori fiscali e i contribuenti onesti. Non decidere significa essere dalla parte dei ladri e degli evasori.

C’è, dunque, una dimensione superiore della vita pubblica, collocata nella decisione costituzionale presa una volta per tutte all’inizio di un ciclo politico, che è unitiva e divisiva, per l’un verso e per l’altro. Al di sotto, nella dinamica politica d’ogni giorno, si vota per il Parlamento, si fanno leggi, si formano e si disfano maggioranze e governi. Quella è, per così dire, la dimensione non inferiore, ma quotidiana della vita politica dove stanno divisioni e decisioni senza le quali non ci sarebbe democrazia. Chi, invece, è chiamato a operare nell’anzidetta dimensione superiore e vi opera effettivamente entro i suoi limiti intrinseci, come esecutore e garante della decisione costituzionale, non potrà mai essere accusato di “divisività”, se non da parte di chi, più che contestare lui, contesta la costituzione e le si pone contro. Anche quando, per l’eccezionalità delle situazioni, dovesse fare uso non consueto dei suoi poteri, per difendere gli amici della costituzione dai suoi nemici.

Questo breve profilo del presidente della Repubblica non sarebbe completo se non si aggiungesse ciò che è già ovvio: non gli spetta sostituirsi alla libera dinamica delle forze politiche né interferirvi, né governare anche se non direttamente ma per interposta persona, né, infine, creare attorno a sé “partiti del presidente” o giri di potere più o meno ramificati, quale che ne sia il genere: affaristico, burocratico, politico, eccetera. La provenienza dalla militanza in un partito politico può considerarsi, alla stregua di ciò che si è detto, un impedimento? Non è né un ostacolo né una preferenza.

Ciò che conta è la consapevolezza, la determinazione e l’indipendenza necessarie a chi sia chiamato a ricoprire con le sue forze una così importante e difficile carica. La consapevolezza implica la conoscenza e l’adesione alla costituzione, non ai suoi singoli, freddi articoli, ma a ciò di cui sono espressione e testimonianza: cioè alla storia, alla cultura e ai sacrifici che sono venuti a consolidarsi in questo testo, di certo uno dei più alti e significativi venuti alla luce nel tempo che ci sta alle spalle. La determinazione può essere testimoniata nelle esperienze precedenti e, certamente, è incompatibile con l’opportunismo, il trasformismo, il grigiore e l’ossequio nei confronti del potente di turno.

La presidenza della Repubblica non è per i cortigiani, anche perché essi spesso, quando le occasioni lo permettono, trasformano la debolezza del passato in prepotenza nel futuro. L’indipendenza non è l’ultima caratteristica. Anzi, forse è la prima. Chi assume il compito affascinante e tremendo di dare la rappresentazione dell’unità della nazione può farlo solo a patto di liberarsi dai vincoli che, più o meno legittimamente, lo condizionavano in precedenza.

I vincoli sono tanti e vari. Possono determinare ciò che impropriamente si chiama conflitto d’interessi e che, più propriamente, sarebbe da definire non conflitto ma coesistenza di interessi contraddittori. Se non ci si spoglia della dipendenza dal partito da cui si proviene, dalla appartenenza a gruppi di potere che chiedono di restituire i favori in precedenza elargiti e accettati, dal vincolo di ubbidienza che si assume entrando in chiese e associazioni più o meno segrete, dai propri interessi economici la cui difesa diventa spesso un’irresistibile coercizione, dall’adesione faziosa a una ideologia politica: se non ci si spoglia da tutto questo, l’alta carica viene trascinata nella bassura del tornaconto personale o del gruppo, della cerchia, del “giro” di appartenenza.

Peggio del peggio sarebbe se proprio questo tornaconto fosse la molla delle ambizioni di chi mira al Quirinale. Questa sarebbe la massima divisività, il massimo allarme costituzionale. Non solo la persona influisce sulla carica ricoperta. Spesso, avviene il contrario e i pronostici possono essere smentiti dai bilanci. Tuttavia, i trascorsi sono pur sempre dei prodromi e i prodromi possono trasformarsi in eventi e gli eventi possono determinare conseguenze. Guardandoci intorno e cercando di capire che cosa succede in questi giorni di vigilia, vien voglia di unirsi a coloro – i realisti – che ridono di tutto ciò che non è puro interesse, puro potere, pura spregiudicatezza.

È vero, c’è questa voglia. O anche, la voglia di dire: non sono fatti miei, alla malora. Ma più crescono queste voglie, più cresce, insieme, anche la rivolta.

la Repubblica, 18 gennaio 2022


http://www.libertaegiustizia.it/2022/01/23/il-presidente-della-repubblica-la-costituzione-e-lunita-nazionale/

IL PRESIDENTE CHE VORREI/ L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ E IL CORAGGIO DELL’IMMAGINAZIONE. - Sergio Labate

 

Mai come di questi tempi abbiamo bisogno di affidarci all’ottimismo della volontà. Perché i segnali che costringono la nostra ragione al più cupo pessimismo sono ormai troppi. La discussione sull’elezione del Presidente della Repubblica non fa eccezione.

Se dovessimo fare un esempio volutamente eretico, la discussione sembra limitarsi esclusivamente alla disputa sui nomi, come se si trattasse di calciomercato. Tempo sprecato a discutere sui nomi, senza pensare davvero a cosa questi nomi possano significare, se essi rappresentino un’idea intorno alla quale uno Stato si può riconoscere nella sua unitarietà, come suggerisce la nostra Costituzione. Il loro “valore politico” è del tutto sganciato da questa funzione rappresentativa, dipende dal cinismo della conta dei voti, nient’altro. La surreale candidatura di Silvio Berlusconi dimostra paradigmaticamente questo sganciamento quasi schizofrenico tra il valore politico, a cui un nome dovrebbe riferirsi, e la sua quotazione mercantile.

A questa deriva vorremmo reagire, appunto, con l’ottimismo della volontà. Cioè con un discorso altro, in cui depuriamo anche le nostre parole da una deriva che appare ormai irreversibile e che noi, per il solo fatto che proviamo a parlare altrimenti, non riconosciamo affatto come irreversibile.

Abbiamo chiesto ad alcuni amici di donarci delle parole che siano già una sorta di ricusazione politica del linguaggio prevalente. C’è qualcuno che ancora prova a parlare dell’elezione del Presidente della Repubblica in forma più nobile e più corrispondente a quell’“entusiasmo civile” trasmesso dall’art. 87 della nostra Costituzione: il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Ma con questo ‘gioco’ proviamo anche a suggerire qualcosa che può essere utile nei tempi a venire, che non saranno meno difficili per la nostra ragione già così sofferente di pessimismo. Gramsci non basta più. Non possiamo accontentarci dell’ottimismo della volontà. A esso dobbiamo sapere affiancare qualcosa che ci consenta di recuperare una qualche forma di immaginazione politica. Perché la volontà non basta, se non siamo più in grado di immaginare una scena differente da quella che prevale. Se non riconosciamo nella Costituzione qualcosa cui guardare non soltanto con nostalgia – come fosse un segnaposto di un mondo che abbiamo conosciuto e abbiamo visto sparire – ma anche con speranza, come fosse un mondo per cui resistere e di cui continuare a parlare, semplicemente perché continuiamo a immaginarlo.

Ecco, se uniamo l’ottimismo della volontà al coraggio dell’immaginazione possiamo usare l’occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica per guardare oltre. Per custodire quel legame pubblico che la Costituzione suggella e che il Presidente della Repubblica incarna. È questo il gioco, e non è solo retorico. La democrazia si fa e si disfa col farsi e disfarsi dei discorsi pubblici. Non vogliamo cedere al ricatto della disperazione ma osare volere e osare immaginare.

A questo servono le parole: a ricordare a una politica incapace di assolvere al suo compito che quel compito è insostituibile.

*Presidente di Libertà e Giustizia.

http://www.libertaegiustizia.it/2022/01/18/chi-salira-al-colleil-presidente-che-vorrei/

domenica 23 gennaio 2022

Elisabetta Belloni, chi è? Orientamento politico, stipendio, vita privata, marito e figli. - Domenico Iovane

 

Elisabetta Belloni, chi è: una figura che è nata e cresciuta nel campo della diplomazia italiana ed internazionale. Ufficialmente fuori da ogni contesto e posizione politica, si definisce “orgogliosa di non avere nessuna matrice politica”. Il suo nome è uscito in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica 2022.

Elisabetta Belloni: orientamento politico.

Ufficialmente Elisabetta Belloni non fa parte di un partito politico specifico. Ha avuto ruoli istituzionali con governi sia di destra sia di sinistra. Viene considerato come un profilo politico “indipendente”. La sua carriera politica, istituzionale e diplomatica è sempre stata neutrale.

Dunque, il suo è un orientamento politico che è da considerarsi da “tecnico”, perché Belloni ha sempre rifiutato di esternare appartenenze o preferenze politiche. In un’intervista del marzo 2007 disse: “Io sono orgogliosa di non avere nessuna matrice politica. Qui ci sono colleghi di destra, colleghi di sinistra e alcuni definiti istituzionali. Io sono molto orgogliosa di definirmi istituzionale”.

Elisabetta Belloni: stipendio.

In campo diplomatico, il primo livello della carriera, segretario di legazione, assicura uno stipendio di 62 mila euro l’anno, 5 mila lordi al mese. Ne beneficiano già in 328. Al livello seguente, quella di caposezione (in servizio ce ne sono 161), la busta paga sale a 81 mila. Per i 264 consiglieri d’ambasciata l’ingaggio arriva a 174 mila euro, mentre per i 207 ministri plenipotenziari lievita fino a 240 mila, tetto che ufficialmente vale anche per i 25 ambasciatori e per il segretario generale Elisabetta Belloni.

Elisabetta Belloni: vita privata.

Elisabetta Belloni è nata Roma, (1 settembre 1958 ). Ricopre il ruolo di segretaria generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dal 5 maggio 2016.  Ha una laurea in scienze politiche alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma nel 1982.

Nel suo curriculum si legge che parla quattro lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) e tra le onorificenze ha ricevuto anche la Legion d’onore in Francia.

La sua carriera professionale è iniziata come diplomatica nel 1985. Ha ricoperto incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi del Ministero degli Affari Esteri. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, ha ricoperto la carica di Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri ed entra in carica il 5 maggio.

Nel maggio del 2021, è stata nominata da Draghi  capo dei servizi segreti del paese, la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia dei servizi segreti italiani.

Belloni: marito e figli.

Elisabetta Belloni è stata sposata con Giorgio Giacomelli, che però è morto nel febbraio 2017. Non ci sono informazioni pubbliche riguardo possibili figli. Sulla figura del marito si sa che Giacomelli era un ambasciatore di origini padovane, con oltre 30 anni di mandati diplomatici di alto profilo e ha anche prestato servizio in territori come la Siria e la Somalia. Nel corso della sua carriera, è stato responsabile dell’Agenzia palestinese per i rifugiati ed è stato direttore generale del Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

https://www.lanotiziagiornale.it/elisabetta-belloni-chi-e-orientamento-politico-stipendio-vita-privata-marito-e-figli/

Quirinale, Berlusconi si arrende. Ma non rinuncia all’ultima balla: “Ho i numeri per essere eletto, passo indietro per responsabilità nazionale”.

 

Il leader di Forza Italia non va a Roma e resta a Milano, vede i suoi ministri, poi diserta il vertice del centrodestra e invia una nota per spiegare il passo indietro nella corsa al Colle, nonostante - giura - avesse "verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione". Quindi, consapevole di aver probabilmente sbloccato l'impasse, avanza i suoi veti. Il primo: Draghi deve rimanere a Palazzo Chigi.

Aveva i voti ma ha preferito farsi da parte. Silvio Berlusconi dice di essersi ritirato dalla corsa alla presidenza della Repubblica, nonostante avesse “verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione”. Non è una battuta ma è quello che sostiene il leader di Forza Italia nella nota inviata al vertice del centrodestra. Ovviamente non potrà mai esserci la controprova, visto che l’uomo di Arcore ha deciso di arrendersi. Ma è abbastanza improbabile che, dopo mesi di trattative, Berlusconi abbia rinunciato al sogno del Colle pur avendo i voti. E invece alla fine ha dovuto gettare la spugna. Lo fa nel tardo pomeriggio di una giornata segnata dalla decisione di non recarsi a Roma, proprio per il vertice del centrodestra. Una riunione, quella con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che è stata rinviata di tre ore, visto che nel frattempo Berlusconi ha visto i ministri di Forza Italia. Nessuno, dicono i berlusconiani, gli ha chiesto di ritirarsi. Ma qualcuno ha fatto notare che i numeri per l’elezione al Colle non c’erano. Ecco perché Berlusconi si è arreso: al vertice del centrodestra – pure quello via Zoom – non si è fatto vedere. Ha inviato la fida Licia Ronzulli, con una nota in cui esplicita il passo indietro: si ritira anche se – giura – aveva i voti.

Un documento, quello del leader di Forza Italia, in cui Berlusconi torna a vestire i panni del padre della patria. “Dopo innumerevoli incontri con parlamentari e delegati regionali, anche e soprattutto appartenenti a schieramenti diversi della coalizione di centro-destra, ho verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione“, sostiene l’ex premier che si dice “onorato e commosso: la Presidenza della Repubblica è la più Alta carica delle nostre istituzioni, rappresenta l’Unità della Nazione, del Paese che amo e al servizio del quale mi sono posto da trent’anni, con tutte le mie energie, le mie capacità, le mie competenze”. Tuttavia, sostiene di essersi tirato indietro a seguito di una riflessione compiuta “ponendo sempre l’interesse collettivo al di sopra di qualsiasi considerazione personale” e compiendo “un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare ad indicare il mio nome per la Presidenza della Repubblica”. Un’affermazione che pronunciata dal padre di tante leggi ad personam e ad aziendam rischia di provocare qualche sorriso.

Perché dunque Berlusconi si tira indietro? Per evitare, sostiene lui, che sul suo nome “si consumino polemiche o lacerazioni che non trovano giustificazioni che oggi la Nazione non può permettersi”. Insomma: che la sua candidatura fosse altamente divisiva lo sapeva anche lui. Col suo passo indietro Berlusconi fa un piacere a Matteo Salvini, che ora può provare a vestirsi da kingmaker. E infatti, subito dopo il vertice, il capo della Lega comincia a telefonare agli altri leader e fa sapere – ancora una volta – di essere a lavoro per una “rosa di nomi”. Poi parlano pure Giuseppe Conte ed Enrico Letta: adesso, è il senso degli interventi di entrambi, si può cominciare il confronto per un candidato condiviso. Insomma: il passo indietro di Berlusconi sembra aver sbloccato l’impasse. Il diretto interessato ne è consapevole e infatti avanza subito i suoi veti. Il primo: Mario Draghi non deve andare al Colle ma deve restare a Palazzo Chigi per evitare di tornare alle urne. “Considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al Pnrr, proseguendo il processo riformatore indispensabile che riguarda il fisco, la giustizia, la burocrazia”, scrive nella sua nota Berlusconi, facendo infuriare Fratelli d’Italia. Anche il partito di Giorgia Meloni è contrario a Draghi al Colle, ma – come è noto – non lo vuole neanche a Palazzo Chigi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/22/quirinale-berlusconi-si-arrende-ma-non-rinuncia-allultima-balla-ho-i-numeri-per-essere-eletto-passo-indietro-per-responsabilita-nazionale/6465246/#

Finalmente potremo dire che una cosa buona, durante l'arco della sua vita da parlamentare, l'ha fatta! Come? Ritirando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica....

Pericolo scampato per i cittadini italiani che hanno a cuore la dignità di essere italiani!
cetta

sabato 22 gennaio 2022

L’Uomo Poltrona. - Marco Travaglio

 

Il 23 aprile 1993, dopo la bocciatura del suo decreto Salvaladri che ha scatenato il putiferio alla Camera, fra leghisti che sventolano cappi e missini che mostrano guanti bianchi, spugne e manette, Giuliano Amato si dimette da presidente del Consiglio (sostituito da Ciampi) e abbandona la politica: “Per cambiare, dobbiamo trovare nuovi politici. Per questo confermo che ho deciso di lasciare la politica, dopo questa esperienza da primo ministro. Solo i mandarini vogliono restare sempre e io sono in Parlamento ormai da dieci anni”. Sarà il ritiro più breve della storia.

Tiritiritu? Nel 1994 Berlusconi va al governo e, grato per i decreti pro Fininvest, il 9 novembre nomina Amato presidente dell’Antitrust: chi meglio del santificatore del suo trust? Infatti in tre anni il Dottor Sottile non si accorge della più spaventosa posizione dominante mai vista sui mercati televisivo, editoriale e pubblicitario. In compenso spezza le reni a un trust ben più grave per il libero mercato: le scatole di fiammiferi che, a differenza degli accendini, possono ospitare pubblicità. Uno scandalo: fremente di sdegno, Amato scrive una letteraccia ai presidenti delle Camere, al premier Prodi e al ministro Bersani perché provvedano immantinente: “Fiammiferi e accendini sono prodotti che assolvono alla stessa funzione d’uso e l’esistenza di due distinte discipline normative determina una disparità ingiustificata di trattamento a favore delle imprese attive nella produzione e commercializzazione di fiammiferi”. Ecco perché non vede la trave Fininvest: ha sempre una pagliuzza, anzi un fiammifero nell’occhio.

L’amico Squillante. Nel 1996 Berlusconi gli offre un collegio sicuro in FI e lui, prima di declinare, ne discute con l’amico giudice Renato Squillante, capo dei Gip romani di stretta osservanza socialista e poi berlusconiana, senza sapere che sta per essere arrestato per corruzione. Così il suo nome salta fuori dalle intercettazioni e tabulati dell’inchiesta “toghe sporche”. Nel 1997, in piena Bicamerale, D’Alema lo vuole con sé nel progetto “Cosa 2” per seppellire l’Ulivo prodiano. Ma basta un fax da Hammamet per fermarlo sull’uscio. “Amato – scrive Craxi il 7 febbraio – tutto può fare salvo che ergersi a giudice delle presunte malefatte del Psi, di cui egli, al pari degli altri dirigenti, porta per intero la sua parte di responsabilità… Ma guardacaso, forte delle sue amicizie e altolocate protezioni, a lui non è toccato nulla di nulla. Buon per lui…”. Lo definisce “becchino del Psi”, “voltagabbana”, “una cosa vomitevole come tutti i craxiani diventati anticraxiani”, “un opportunista che strisciava ai miei piedi e ora striscia a quelli degli altri per salvarsi la pelle”.

Erano pronti perfino ad andare ad Arcore pur di fare quel tanto agognato vertice che lui, il candidato in pectore, voleva rimandare per prendere ancora tempo. Così alla fine Silvio Berlusconi si è dovuto arrendere alla pressione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Lo hanno chiamato e lui non ha potuto tirarsi indietro. Dunque il vertice del centrodestra si farà oggi pomeriggio a Roma e sarà decisivo: Berlusconi, anche se in collegamento da villa San Martino, scioglierà la riserva. In un senso o nell’altro. E a quel punto si sbloccherà lo stallo. Sarà lui a prendere per primo la parola e a decidere il da farsi: se da Arcore si racconta che Berlusconi è ancora “determinato” e potrebbe convincere gli alleati che ce la può fare, alla fine il leader azzurro sarebbe pronto al ritiro.

Tant’è che per la prima volta Berlusconi aprirà a una rosa di nomi alternativi. Tutti “piani b” ma su cui discutere con Meloni e Salvini. D’altronde il leader della Lega, smanioso di fare il kingmaker, come gli ha consigliato il suocero Denis Verdini, ieri pomeriggio ha incontrato Umberto Bossi a Gemonio e ha sentito tutti i leader della coalizione di governo via sms con un messaggio preciso: “Lavori in corso”. Come dire: le carte le do io e solo io posso sbloccare la partita del Colle. Che sia vero o meno, lo si vedrà oggi. Anche perché ieri sera dalla Lega facevano sapere che Salvini è pronto a tirare fuori un nome coperto, non ancora uscito negli ultimi giorni. Uno di questi potrebbe essere Paola Severino, di cui il leghista ha parlato giovedì con Conte. Ma la certezza, ieri sera, era un’altra: un accordo sul nome, nel centrodestra, non c’è.

Oggi però la prima mossa dovrà farla Berlusconi. Se tutto fa pensare al suo ritiro, al momento la sua posizione è quella di dire “no” a Mario Draghi. Una strategia emersa ieri nel pranzo ad Arcore con Licia Ronzulli e Antonio Tajani, i capigruppo Paolo Barelli e Anna Maria Bernini e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. La prima scelta di Berlusconi sarebbe quella del Mattarella bis ma Lega e Fratelli d’Italia sono apertamente contrari a questa ipotesi.

L’altro nome in testa di Berlusconi è quello di Giuliano Amato, anche questo bocciato da Salvini e Meloni. A quel punto si ragionerà su altri nomi “di alto profilo di centrodestra”, come ha spiegato ieri il segretario del Carroccio. E sarà Salvini a dover fare la prima mossa. Nella rosa del leghista, in pole ci sono Marcello Pera (sponsorizzato da Verdini) e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Più indietro, Letizia Moratti e Franco Frattini ma anche Pier Ferdinando Casini, che ha preso sempre più quota nelle ultime ore. Meloni invece condivide con il leghista il sostegno a Pera e non le dispiacerebbe Giulio Tremonti. Su tutti questi nomi però Berlusconi resta freddo (“sono tutti miei sottoposti” usa dire) a partire da Casini: in Forza Italia non prendono in considerazione l’ipotesi del senatore centrista. E anche dalla Lega c’è scetticismo: “È stato eletto con il Pd” dicono i salviniani più stretti. Anche se alla fine potrebbe essere lui l’anti-Draghi, il candidato che mette d’accordo tutti e non fa vincere nessuno. Veti e controveti che rendono complicata una convergenza su un candidato di centrodestra a partire dalla prima votazione.

Così, anche se Salvini e Berlusconi dicono “no” in partenza, si arriva a Draghi. Quella di Berlusconi è una posizione tattica: sbarrare la strada al premier per trattare un possibile appoggio a partire dal rimpasto di governo (in cui entrerebbe Antonio Tajani) e magari, è il sogno dell’ex Cavaliere, la nomina di Gianni Letta come segretario generale del Quirinale. Anche Meloni vedrebbe bene l’elezione del premier al Colle: è stata lei la prima a fare il suo nome e con lui ha un ottimo rapporto. Ma soprattutto, è la tesi di un esponente di peso di Fratelli d’Italia, Draghi potrebbe essere quell’ombrello con le cancellerie internazionali pronto a garantirgli l’incarico a Palazzo Chigi. L’unico dei tre che, per il momento, resta sul “no” secco al premier è Salvini. Che potrebbe sparigliare e mettere sul piatto proprio quel Casini che terrorizza il Pd.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/22/luomo-poltrona/6464531/

venerdì 21 gennaio 2022

Renzi, le carte – Un investigatore privato e notizie mirate (rilanciate da profili fake) per distruggere la reputazione di avversari politici e giornalisti: ecco il piano inviato da Rondolino all’ex premier. - Pierluigi G. Cardone e Giuseppe Pipitone | 11 NOVEMBRE 2021

 

L'INCHIESTA - Il 7 gennaio del 2017 l'ex Lothar di D'Alema invia una mail all'ex presidente del consiglio, con in allegato il piano per realizzare una "struttura di propaganda antigrillina". Tra le altre cose si propone di ingaggiare "un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)" per produrre un'operazione di "character assassination", cioè diffondere notizie, indiscrezioni, "rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica" di avversari politici ma pure cronisti come Travaglio e Scanzi. Dopo due minuti l'ex segretario del Pd inoltra la mail, senza alcun commento, a Carrai.

Una “piccola, combattiva redazione ad hoc” che lavori “nella massima riservatezza“, composta da due giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato “di provata fiducia e professionalità“. Il costo? Medio-alto. L’obiettivo? Character assassination, cioè diffondere notizie, indiscrezioni, “rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica” degli avversari. Chi sono gli avversari? Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Alessandro Di BattistaRoberto Fico, ma anche giornalisti come Marco Travaglio e Andrea Scanzi. Come si dovevano colpire? Attraverso materiale pubblicato su un sito specifico, “non riconducibile al Pd né tanto meno a Mr“, da costruire su “un server estero non sottoposto alla legislazione italiana”. Quei contenuti sarebbe stati rilanciati “una rete di fake”. Era questo il piano d’attacco che Fabrizio Rondolino e la moglie Simona Ercolani avevano elaborato per Matteo Renzi. Un documento di due pagine, intitolato “Tu scendi dalle stelle“, inviato via mail all’ex presidente del consiglio il 7 gennaio del 2016. Cosa fa Renzi? Dopo appena due minuti, gira il messaggio di posta elettronica – senza aggiungere alcun commento – all’amico Marco Carrai.

La “Bestiolina” del Giglio – Un piano che segna praticamente l’inizio della fase 2 della macchina di propaganda creata dai renziani sul web. Una Bestiolina creata dal Giglio magico che sembra essere anche più potente della Bestia leghista creata da Luca Morisi e più volte pubblicamente attaccata dallo stesso Renzi. È tutto ricostruito nelle carte depositato agli atti dell’inchiesta sulla fondazione Open. La procura di Firenze vuole dimostrare che la cassaforte della corrente renziana si muoveva come un’articolazione del Partito democratico. Per questo motivo gli investigatori della Guardia di Finanza documentano come Open finanziasse direttamente le campagne mediatiche del Giglio magico. Sia per la propaganda elettorale in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che in un periodo successivo. “Dopo il risultato referendario del dicembre 2016, in cui la Fondazione Open ha sostenuto, economicamente, le politiche promosse dal Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, segnatamente a metà dicembre 2016, affiora la volontà di attuare una ‘strategia social‘ a sostegno di Matteo Renzi e, nei primi mesi del 2017, di realizzare una struttura di propaganda antigrillina“, scrive la Guardia di Finanza in una delle tante informative a disposizione delle parti.

Tu scendi dalle stelle – È il 7 gennaio del 2017, esattamente un mese dopo le dimissioni da Palazzo Chigi in seguito alla sconfitta al referendum costituzionale. Renzi aveva più volte annunciato di essere pronto a lasciare la politica, ma rimarrà segretario del Pd almeno fino a febbraio: poi si ricandiderà subito alle primarie. Intanto riceve una mail da parte di Rondolino, che scrive da un account di posta criptato (l’ex dalemiano ne consiglierà pure l’uso all’allora segretario del Pd). L’oggetto è “antiGrillo” mentre in allegato c’è un documento che si chiama “Tu scendi dalle stelle“. È importante sottolineare come ha reagito Renzi alla mail ricevuta da Rondolino: dopo appena due minuti la gira, senza alcun commento, a Marco Carrai. L’imprenditore toscano, indagato nell’inchiesta su Open per altre vicende, è un personaggio importante nella struttura di propaganda del Giglio magico. Nel gennaio del 2016 Renzi lo avrebbe voluto al vertice dell’unità di Cybersecurity del suo governo. Una nomina poi saltata a causa delle polemiche. In seguito sarà Carrai a curare l’acquisto dei due software israeliani da usare durante la campagna per il referendum. E sarà sempre Carrai a dare seguito alla mail di Rondolino con un “Progetto per ricostruire l’Italia“, dai toni molto più sfumati rispetto a quelli usati dall’ex Lothar di D’Alema. Ma andiamo con ordine.

Le tubature della rete – “Caro Matteo, eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni. Siamo in contatto con Marco e Fabio per le ‘tubature‘ e gli altri aspetti pratici. Sarebbe utile vederci presto per approfondire e iniziare la Lunga Marcia…“, è il testo della mail inviata da Rondolino a Renzi, il giorno dopo l’epifania di quattro anni fa. Non si sa a cosa si riferisse l’ex dirigente dei Giovani comunisti con “lunga marcia“. Mentre proprio la parola “tubature” sarà utilizzata da Renzi nei mesi successivi quando dovrà attaccare Lega e 5 stelle: “Grillini e Lega escono con gli stessi codici nell’advertising dei social. Usano le stesse tubature della rete“, dirà alla Leopolda del novembre successivo, quella tutta dedicata alla lotta alle fake news e agli account fasulli sui social. Argomenti che occupano gran parte delle conversazioni dei suoi fedelissimi nei mesi precedenti. “Tu scendi dalle stelle” è il nome scelto da Rondolino per gli “appunti sulla contropropaganda antigrillina: contenuti, struttura, diffusione”. Sono due paginette che prevedono la creazione di due tipi di contenuti, creati da due tipi di strutture: da una parte meme, vignette e card per i social con messaggi ironici e strafottenti che “ridicolizzano questa o quella proposta, dichiarazione, personaggio” ma anche polemiche e provocazioni (Rondolino fa alcuni esempi: “Quanti avvisi di garanzia, quanto spendono i grillini in fondi pubblici, ecc”).

Character assassination- Del secondo gruppo di contenuti, invece, Rondolino inserisce “inchieste giornalistiche documentate ovvero, secondo lo stile del Fatto, ‘allusive’ e intrinsecamente diffamanti“. Non si capisce perché se un’inchiesta giornalistica è documentata per l’ex dalemiano debba per forza essere diffamante. Anche qui ci sono degli esempi: “I disastri delle amministrazioni grilline, da Roma al più piccolo dei comuni amministrati: scandali, dimissioni, inchieste giudiziarie, sperpero di fondi pubblici, rimborsi spese, stipendi ecc”. L’ex Lothar però va oltre e inserisce tra i contenuti da produrre anche quelli che chiama “character assassinationnotizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi“. Somiglia tanto a un progetto di dossieraggio ai danni non solo di avversari politici ma anche di giornalisti che avevano criticato l’ex premier.

L’ispettore privato – Ancora più pesante è quello che Rondolino scrive in seguito, quando deve spiegare chi deve produrre i contenuti elencati sopra. Per quelli soft – meme, vignette, card – propone redattori digitali e un filmaker (a basso costo). Per le inchieste “allusive e intrinsecamente diffamanti”, invece, scrive che è “necessario creare una piccola, combattiva redazione ad hoc, che lavori esclusivamente sul progetto nella massima riservatezza: vanno individuati almeno 2 giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)“. La domanda è: sono stati effettivamente ingaggiati investigatori privati per raccogliere notizie su avversari politici e giornalisti? Di sicuro c’è che Rondolino propone anche di utilizzare per i loro scopi pure due cronisti lontani dal Giglio magico: “Possono infine essere coinvolti, in forme più o meno indirette e sulla base di un rapporto personale e fiduciario, due giornalisti che professionalmente seguono il M5s e che non sempre possono pubblicare ciò che scoprono”.

La teoria del complotto – Nel documento, poi, l’ex Lothar di D’Alema tratteggia il presunto sistema messo su dagli avversari: “Il M5s ha costruito, o comunque gode di un ecosistema informativo pressoché perfetto: il Sacro Blog, la rete degli attivisti digitali, un quotidiano (il Fatto) e un network televisivo (La7). Ciò che scrive il Sacro Blog resterebbe confinato sui social network (e tutt’al più trattato come notizia fra le tante dai media tradizionali) se non diventasse l’ossatura della prima pagina del Fatto, che a sua volta determina la scaletta del Tg7 della sera e, a pioggia, quella dei talk show de La7 del giorno successivo”. Per fronteggiare questo inesistente ecosistema, scrive il renziano, le armi del Giglio magico sono spuntate: “Noi non abbiamo un giornale (a meno di non ripensare radicalmente l’Unità) né un canale televisivo. Anzi: l’arrivo di Telese su La7 e della Berlinguer su Rai3 in prima serata chiude definitivamente ogni spazio informativo. Tutto l’approfondimento politico tv, con l’eccezione di Vespa (che non sarebbe comunque utilizzabile per questa operazione), è saldamente integrato nell’ecosistema grillino”.

Il sito su server estero – E dunque come dovrebbe partire questa controffensiva? “In una prima fase – ragiona Rondolino – possiamo limitarci soltanto al web: va dunque creato un sito specificonon riconducibile al Pd né tantomano a MR, da costruire su un server estero non sottoposto alla legislazione italiana, che raccoglie e pubblica tutto il materiale (una specie di Breitbart, o di WikiLeaks antigrillina), da rilanciare poi sui social network (attraverso una rete di fake che agiscono su cluster specifici, da individuare con Fabio) e che, a seconda del valore e della qualità, potrà poi essere ripreso dai media tradizionali. Sarà poi utile individuare una serie di interlocutori, nei giornali e nelle tv, con cui costruire un rapporto personale e fiduciario, da coinvolgere nella diffusione dei contenuti. In prospettiva, però, un ragionamento strategico sui media è da considerarsi essenziale”. E in effetti la mail inviata quasi un anno dopo da Renzi a Carrai su come organizzare la campagna elettorale in tv e radio somiglierà parecchio al “ragionamento strategico sui media” invocato da Rondolino. Nel dicembre del 2017 l’allora segretario del Pd chiederà, tra le altre cose, ai suoi “una presenza televisiva molto più organizzata e massiccia” in vista delle elezioni politiche del 2018. D’altra parte lo stesso Rondolino, ex giornalista dell’Unità, aveva accompagnato il suo piano da una premessa tutta politica: “Dopo Grillo, per gli elettori grillini, c’è soltanto l’astensione: pensare di recuperare al Pd (o a qualsiasi altro partito) l’elettorato grillino è illusorio e irrealistico, almeno sul breve-medio periodo. Se così stanno le cose, non dobbiamo perdere tempo a ‘riconquistare’ l’elettorato: dobbiamo spingerlo a non votare più. Non dobbiamo rincorrere Grillo sul suo terreno (a cominciare dall’anti-Casta), ma dobbiamo dimostrare che anche Grillo è Casta. Non dobbiamo controargomentare sulle loro proposte, dobbiamo distruggere chi le ha avanzate”.

L’idea di Carrai: “Copiamo i 5 stelle” – Come reagiscono Renzi e il Giglio magico a questa proposta di piano di propaganda? Due minuti dopo aver ricevuto questa mail, Renzi la inoltra a Carrai, senza aggiungere alcun commento. Passano ventiquattro ore e l’imprenditore toscano invia una mail all’ex sindaco di Firenze, a Rondolino, a Ercolani, al docente universitario Fabio Pammolli, già consulente del governo Renzi, ad Andrea Stroppa, altro collaboratore della fondazione Open. “Questo è il mio cemento armato su cui partire. avevo fatto una cosa molto più lunga e articolata ma mi rendo conto che basta l’essenziale”, scrive Carrai firmandosi M. L’imprenditore non fa alcun cenno al documento di Rondolino. Il suo allegato si chiama “Progetto ricostruire Italia” che prevede tutta una serie di azioni: “Trasformazione della Pagina Fb e del sito di Basta un Sì e definizione delle azioni di comunicazione collegate”, la “costruzione, a partire da piattaforme esistenti, di un blog personale di MR”, e poi la “progettazione e costruzione di una rete informale, interna ed esterna, di influencers che s’impegnano ad alimentare pagine e piattaforma con propri contenuti”. In premessa Carrai scrive che “il movimento 5 stelle ha costruito una rete di propaganda e disinformazione. Noi dobbiamo invece basarci sull’informazione”. Alla fine del documento, però, sembra smentirsi visto che inserisce tra le “azioni da intraprende a tempo zero“, pure la “realizzazione della ns Dagospia (a simona il compito di trovare il nome)”, la “trasformazione dell’Unità in un grande giornale di inchiesta” e la “realizzazione di siti civetta dove si copia il modello 5 stelle nel metodico sputtanamento dell’avversario”. Nel novembre susccessivo Renzi dedicherà l’edizione della Leopolda tutta alle fake news. Più volte si scaglierà pubblicamente contro quella che definisce “una vera industria del falso, con profili social altamente specializzati in diffusione di bufale, fake news, propaganda”. Un sistema che i renziani rinfacciano sistematicamente alla Lega e ai 5 stelle di usare. Lo stesso modello che, nel gennaio del 2017, Carrai invitava a copiare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/11/renzi-le-carte-un-investigatore-privato-e-notizie-mirate-rilanciate-da-profili-fake-per-distruggere-la-reputazione-di-avversari-politici-e-giornalisti-ecco-il-piano-inviato-da-rondolino-allex/6388305/?fbclid=IwAR23Hx_djhWq9e6DFhHaZOpQDfkpjnaWa81MNV25MnnujeM6Vn3GqRh3Vrg

Affossa-lira e salva-ladri. - Marco Travaglio

 

Dopo tanti scandali sparsi per l’Italia, nel 1992 il pool Mani Pulite scoperchia l’intero sistema di Tangentopoli. Craxi spedisce Amato a Milano come commissario del Psi. E lui si segnala subito per rigore morale e lungimiranza: “Il tentativo di coinvolgere Craxi nella storia di Mario Chiesa mi sembra il classico scandalo montato sul nulla per impedire che Craxi abbia l’incarico” (7.6.’92). Infatti sarà proprio Chiesa a inguaiare Bettino. Dopo le elezioni-terremoto di aprile e la strage di Capaci del 23 maggio, il nuovo presidente Oscar Luigi Scalfaro deve nominare il nuovo premier al posto di Andreotti. L’accordo Dc-Psi prevede il ritorno di Craxi, ma le confessioni di politici e imprenditori fanno di lui un indagato sicuro. Le alternative sono Amato e Martelli, il delfino che però sta scaricando Bettino. Così tocca ad Amato, ritenuto più fedele al segretario. Il suo governo è un lombrosario: infatti in pochi mesi perderà per strada ben 7 ministri, impallinati da avvisi di garanzia per tangenti. Poi, per tamponare la crisi economico-finanziaria che vede lo Stato sull’orlo della bancarotta, vara una legge finanziaria da 92mila miliardi di lire tutta tasse e tagli. E, non bastando, dispone nottetempo il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti degli italiani.

Molti gli rimprovereranno anche la strenua difesa della lira per tutta l’estate, decisa da lui, dal governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, dal suo direttore generale Lamberto Dini, dal ministro del Tesoro Piero Barucci (Dc) e dal suo direttore generale Mario Draghi. Una politica monetaria suicida che polverizza le riserve valutarie della Banca d’Italia (48 miliardi di dollari) e poi porta ugualmente alla svalutazione del 30%. Mega-speculatori, investitori e banche internazionali, “intuita” la linea Amato, guadagnano fortune colossali attaccando e vendendo in massa la debole valuta italiana. Ma anche banche, imprese e politici hanno tutto il tempo di uscire da debiti in monete forti, per acquistare da Bankitalia dollari e marchi (pagando con lire vicine al deprezzamento) e nascondere capitali all’estero. Come scriverà sul Fatto Ivo Caizzi, il quintetto Amato-Barucci-Draghi-Ciampi-Dini verrà soprannominato ironicamente dagli speculatori ingrassati il “Dream Team” o la “Squadra del ’92”. E farà carriera: a parte Barucci, approderanno tutti a Palazzo Chigi.

Appena giunto al governo, Amato non fa nulla per bloccare la trattativa Stato-mafia, avviata dal vicecapo del Ros Mario Mori con Vito Ciancimino. Il 22 luglio Mori ne informa Fernanda Contri, segretario generale della Presidenza del Consiglio, che avvisa subito il premier.

Sentito come teste al processo Trattativa, Amato dirà di non ricordare nulla neppure di uno dei nodi più intricati della nascita del suo governo: le manovre per cacciare due ministri antimafia come Martelli alla Giustizia e Scotti a Viminale (riuscite a metà con l’arrivo di Mancino al posto di Scotti). Un’amnesia che, scriverà nella sentenza la Corte d’assise di Palermo nel 2018, “non può non suscitare perplessità”.
Poker d’assi alla toilette. Il 27 agosto 1992, da premier, Amato partecipa alla segreteria Psi convocata da Craxi per scatenare l’offensiva dei dossier contro Di Pietro. Dirà poi di non essersi accorto dello scopo della riunione perché, nel momento clou, era andato alla toilette. In realtà in quel nobile consesso vengono esaminate alcune informative dei servizi segreti sul pm di Mani Pulite (la Mercedes usata, il telefonino, qualche prestito, le amicizie con alcuni socialisti suoi futuri indagati) e i risultati di attività spionistiche illegali sull’intero Pool di Milano. Rino Formica, all’uscita, dichiara: “Bettino ha in mano un poker d’assi”. “Amato – racconterà Di Donato – era rimasto a bocca aperta per le rivelazioni e come tutti si era sentito rassicurato per il futuro”. Altro che toilette. Carlo Ripa di Meana, allora ministro craxiano dell’Ambiente, interrogato nel ’95 a Brescia, racconterà: “Amato (nell’estate ’92, ndr) mi disse: ‘Io ho i rapporti del capo della Polizia (Vincenzo Parisi, ndr) e di tutti i servizi, che dicono che bisogna fermare questo pool, e in particolare Di Pietro, perché questi stanno mettendo in pericolo le istituzioni’…”. Altri particolari Ripa di Meana li racconterà nella sua autobiografia Cane sciolto (Kaos, 2000): “Trovavo inaccettabile il silenzio del governo (Amato, ndr) che non aveva aperto bocca per difendere l’indipendenza dei giudici… Pensavo che Craxi dovesse essere fermato prima che completasse la propria rovina personale e quella del Psi… Decisi che avrei scritto una lettera aperta ai magistrati milanesi (‘Fate un lavoro necessario. Chi vi attacca per fermarvi sbaglia’) e che comunque avrei rotto col governo, con il partito e col mio amico Bettino… Amato mi rimproverò: disse che l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i Servizi e il capo della Polizia Parisi – era un pericolo per le istituzioni. Poi il confronto tra noi a Brescia, con Giuliano che pretendeva di negare tutto…”.
Il 9 febbraio 1993, poco dopo le dimissioni di Craxi da segretario Psi, rientra dalla latitanza l’architetto socialista Silvano Larini, collettore delle tangenti milanesi. E svela al Pool i segreti del Conto Protezione (usato negli anni 80 dal banchiere piduista Roberto Calvi, complice Licio Gelli, per girare a Craxi una mazzetta dell’Eni di 8 miliardi). Intanto i pm arrivano al cuore di Tangentopoli con le indagini su Enimont, il Gotha della finanza (Fiat, Fininvest, Ligresti) e delle Partecipazioni statali (Eni, Iri, Enel) e sulle tangenti rosse al Pci-Pds tramite Primo Greganti. Il Sistema sta per saltare e Amato si precipita al salvamento.
“Bettino, abbi fede”. Il 9 febbraio, mentre Larini canta in Procura, su carta intestata “Il Presidente del Consiglio dei ministri”, il premier Amato scrive una lettera non protocollata all’amico Bettino – indagato per corruzione, concussione e illecito finanziamento e furibondo perché il suo governo non fa nulla contro i pm – per suggerirgli la linea difensiva e rassicurarlo sul colpo di spugna che sta preparando. “Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare. Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile. È inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi. Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice. Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi. E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita. Se posso darti un consiglio personale, ricomponi le tue linee difensive: tu hai detto che sapevi – come tutti – che c’erano dei finanziamenti irregolari. Ora neghi di aver avuto conoscenza delle singole cose che ti vengono addebitate. Ciò significa che neppure tu sapevi quanto fosse ramificata, estesa e legata a fatti specifici di corruzione o concussione la provvista dei fondi irregolari”. Poi parla della guerra nel Psi sul successore di Craxi: “Lo scontro è pericoloso. Anche se Claudio (Martelli, ndr) mi pare ormai in pericolo. Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta (del Banco Ambrosiano, ndr). Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”.
Il Dottor Spugna. Detto, fatto. Il 5 marzo Amato vara un decreto del ministro della Giustizia Giovanni Conso che depenalizza il reato di finanziamento illecito ai partiti. Un mega-colpo di spugna sulle indagini su Tangentopoli, senz’alcuna sanzione neppure politica o amministrativa per i colpevoli. Scalfaro e i presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini, sconsigliano. Conso tentenna. Ripa di Meana si dimette per protesta da ministro e dal Psi. Ma il premier tira dritto, garantendo l’avallo di Scalfaro. Che invece ha posto precisi paletti: “Chi confessa e patteggia per finanziamento illecito deve rinunciare per sempre alla vita pubblica”. Invece nel decreto c’è scritto solo che l’illecito finanziamento non è più reato, ma una semplice infrazione amministrativa senz’alcuna interdizione dai pubblici uffici. Non solo. C’è pure il bavaglio alla stampa: nessuna notizia sulle indagini fino al processo. “Non è un colpo di spugna, abbiamo fatto esattamente quel che ci ha chiesto il pool di Milano con Di Pietro e Colombo”, azzarda Amato. Ma il procuratore Francesco Saverio Borrelli lo sbugiarda a stretto giro: “Non consentiamo a nessuno di presentare come da noi richieste, volute o approvate, le iniziative in questione… Ciascuno si assuma davanti al popolo italiano le responsabilità politiche delle proprie scelte, senza farsi scudo… delle nostre opinioni. Che sono esattamente opposte al senso dei provvedimenti adottati. Il prevedibile risultato… sarà la totale paralisi delle indagini e la impossibilità di accertare fatti e responsabilità… Così si disincentiva qualunque forma di collaborazione”. Migliaia di cittadini indignati inondano di fax i giornali e scendono in piazza. Lega, Rete e Msi sparano a zero, il Pds si dissocia e Scalfaro non firma il decreto. Il governo Amato è ormai un morto che cammina.

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