sabato 27 giugno 2015

La morte che viene dallo spazio. - Roberto Paura



A dispetto della sua disavventura in un duello, in cui l’avversario gli aveva staccato buona parte del naso, poi sostituito da una leggendaria protesi in argento (sembra che la disputa fosse sorta su un’errata predizione astrologica),Tycho Brahe fu un uomo fortunato. Nella sua giovinezza aveva potuto osservare una rara eclissi di Sole, che l’aveva spinto a studiare astronomia; e tre anni dopo – all’epoca ancora non esistevano i telescopi – poté seguire una altrettanto rara congiunzione di Giove e Saturno che lo portò a correggere le tavole astronomiche allora in uso. Ma l’evento più fortunato della sua vita gli capitò una fredda notte di novembre del 1572. Appena ventisettenne, il giovane Tycho dalla finestra di casa, in Svezia, dov’era tornato per assistere il padre malato, notò in cielo una stella che non aveva mai visto prima. Gli bastò qualche osservazione più precisa per stabilire senza ombra di dubbio che si trattava di una stella nuova, una nova in latino. L’anno successivo pubblicò le sue osservazioni e considerazioni nel "De nova et nullius aevi memoria prius visa stella" (Sulla nuova stella mai vista prima a memoria d’uomo), prima che gli ultimi bagliori di quella strana apparizione svanissero per sempre, nel marzo 1574.
Tycho Brahe era stato il primo astronomo occidentale a riportare l’osservazione di una supernova. Gli storici della scienza hanno ricostruito finora sette osservazioni di supernove compiute in epoche storiche. Non sorprende che la maggior parte di esse vennero osservate in Cina, dove fino all’inizio del Rinascimento europeo la scienza astronomica era parecchio più avanzata di quella occidentale. Nel 1006 i monaci dell’abbazia di San Gallo in Svizzera avevano preso nota di un’altra supernova, ma all’epoca brancolavano nel buio del medioevo e, fermamente stretti alla concezione aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli, non accettarono l’idea che quella luce apparsa all’improvviso fosse davvero una nuova stella (a dispetto del fatto che la sua luminosità fosse davvero ragguardevole e che rimase visibile per diversi anni nei cieli dell’emisfero boreale).
Le supernove non sono un fenomeno comune nella nostra galassia. Sono l’esito spettacolare della morte di una stella di massa molto superiore a quella del Sole, quando il loro nucleo, rimasto a corto di carburante per continuare ad alimentare il processo di fusione nucleare, collassa sotto la spinta dell’enorme forza di gravità prodotta dalla loro massa. La materia negli strati più esterni della stelle viene espulsa in un’immane esplosione che produce una luminosità tale da superare quella dell’intera galassia, con le sue decine o centinaia di miliardi di stelle. Non c’è da stupirsi dunque se questa luce straordinaria, dopo aver viaggiato per diversi anni luce, arrivi talvolta ben visibile anche a occhio nudo fino a noi. Oltre alle supernove, gli astrofisici hanno teorizzato anche l’esistenza di “ipernove”. Un’ipernova rilascerebbe un’energia quasi cinquanta volte superiore a quella di una supernova, al punto da emettere in pochi secondi la stessa energia che il nostro Sole produce nell’intero arco della sua vita, circa 10 miliardi di anni. Ogni anno si osservano con potenti telescopi circa una decina di esplosioni di supernove nell’universo, e diverse potenziali “ipernove”. Nessuno di questi eventi, tuttavia, cade all’interno della nostra galassia. L’ultima supernova nostrana fu osservata nel XVII secolo da Keplero, dopodiché, se altre supernove sono esplose nella Via Lattea, i telescopi non sono stati in gradi di rilevarle (senza contare quelle che, in epoche più antiche, sono state visibili solo nell’emisfero australe, dove nessuno ne ha tenuto traccia).
In passato, l’apparizione di una nuova stella nel cielo poteva essere fonte di perplessità, se non addirittura di terrore. Oggi costituirebbe uno spettacolo di straordinario interesse per scienziati e astrofili. Ma una supernova può mettere a rischio l’esistenza della vita sulla Terra? L’energia sprigionata da una supernova può arrivare a qualcosa come quattrocento miliardi di miliardi di miliardi di bombe termonucleari. Quella che vediamo sotto forma di luce è solo una piccola frazione dell’energia prodotta. La maggior parte di essa ci arriva infatti sotto forma di raggi X e di raggi gamma, fotoni ad alta energia che possono interagire con i costituenti della materia biologica producendo danni anche molto estesi a seconda della loro quantità: lo sappiamo bene, anche solo perché ricordiamo i cartelli esposti quando andiamo a farci una radiografia (che produce raggi X in quantità comunque irrilevante per la salute umana). Anche il Sole e la radiazione cosmica bombardano il nostro pianeta con grandi quantità di energia sotto forma di radiazione X e raggi gamma, ma non ce ne curiamo perché la Terra gode di una protezione naturale derivante dalla sua spessa atmosfera e soprattutto dallo strato di ozono atmosferico.
Le supernove che sono state finora osservate nella nostra galassia erano tutte sufficientemente lontane dalla Terra da non costituire alcun rischio. Quella di Tycho Brahe era distante tra gli 8000 e i 9000 anni luce. La più vicina, quella osservata dai monaci di San Gallo e dagli astronomi cinesi, distava pur sempre oltre 4000 anni luce. Sembra che circa undicimila anni fa l’emisfero australe sia stato sconvolto dall’apparizione di una supernova di luminosità estrema, probabilmente maggiore di quella della Luna piena. All’epoca non esisteva nemmeno la scrittura, per cui nessuno poté lasciarci testimonianze di quello straordinario spettacolo. Oggi ciò che resta di quella supernova è una pulsar, una potentissima sorgente di onde radio ma anche di raggi X e gamma. Questa supernova distava circa 1500 anni luce dalla Terra, e ciò spiega perché gli astrofisici sono convinti che quando esplose la sua luminosità fosse particolarmente intensa. Anche in quel caso, tuttavia, non produsse alcun danno agli esseri viventi sul nostro pianeta. Non tutto ciò che quella supernova ha espulso è arrivato già dalle nostre parti: il guscio più esterno di gas continua ad allargarsi dal nucleo della pulsar a velocità molto lente rispetto a quelle della luce e si trova attualmente a 800 anni luce dalla Terra. Si stima raggiungerà il nostro sistema solare tra non meno di 4000 anni, ma non avremo nulla di cui preoccuparci: sarà un innocuo sbuffo di gas che solo gli astrofisici del futuro potranno rilevare con i loro strumenti.
La domanda è: quanto vicina dev’essere una supernova, per costituire un serio rischio per la vita sulla Terra? Partiamo da una sicurezza: esiste una “zona rossa” con un raggio di 50 anni luce dal nostro sistema solare, all’interno del quale una supernova si trasformerebbe da straordinario spettacolo pirotecnico in un evento apocalittico. Per supernove così vicine, lo strato di ozono non sarebbe in grado di deflettere tutta la radiazione estremamente energetica che ci colpirebbe alla velocità della luce. Per metterci l’anima in pace, si tratta solo di capire se ci sono stelle comprese in questa “zona rossa” che possono diventare supernove. Siamo certi di conoscerle tutte, perché anche se ignorassimo la presenza di stelle molto flebili, soprattutto nane rosse, nelle vicinanze della Terra, certamente conosciamo tutte le stelle con una massa di almeno 1,4 masse solari (il cosiddetto “limite di Chandrasekhar”), cioè circa una volta e mezza il nostro Sole. Al di sotto di tale massa, infatti, alla fine della sua vita la stella non esploderà in supernova, ma seguirà il destino del nostro Sole: un’espulsione di massa esterna di portata piuttosto blanda che, come vedremo nel secondo capitolo, non produce effetti all’esterno del proprio sistema. Tuttavia, anche una massa più che doppia rispetto a quella del Sole è ancora poca roba. Secondo alcune stime, per preoccuparci dovremmo considerare stelle con una massa perlomeno otto volte quella del Sole. Ebbene, nessuna delle stelle nel raggio considerato arriva a questi livelli.
Questo ci rassicura sul futuro, ma pone qualche interessante quesito sul passato. C’è qualche possibilità che, nei quattro miliardi di anni che ci precedono, la Terra sia stata interessata da una vicina esplosione di una supernova? In uno studio del 1995 i fisici John Ellis e David Schramm (il primo del Cern di Ginevra, il secondo del Fermilab di Chicago) affrontarono l’ipotesi che una o più esplosioni di supernove vicine abbiano potuto produrre estinzioni di massa in ere passate sulla Terra. Nei loro calcoli essi stimano, innanzitutto sulla base della popolazione stellare nota nella galassia, che supernove che possono produrre qualche effetto sulla Terra esplodono in media ogni 70-240 milioni di anni. I entrambi i casi, comunque, ci sarebbe stata almeno una, e probabilmente più di un’esplosione di supernove vicine nel corso dell’eone Fanerozoico, l’attuale eone iniziato circa mezzo miliardo di anni fa. Queste esplosioni di supernove possono spiegare una delle “big 5”, le cinque grandi estinzioni di massa verificatesi nel corso dell’eone Fanerozoico? I due studiosi credono che l’ipotesi non possa essere esclusa. I loro calcoli dimostrano che un’esplosione di supernova nel nostro vicinato possa aver distrutto lo strato di ozono, esponendo gli organismi viventi sia terrestri che marini a un bombardamento di radiazione ultravioletta potenzialmente letale. Ad essere particolarmente colpiti sarebbero gli organismi che svolgono la fotosintesi, tra cui il fitoplancton. La maggior parte delle specie viventi, dunque, non verrebbe uccisa direttamente dalle radiazioni, ma dalla crescente scarsità di cibo e dal cambiamento ambientale: in un arco di tempo di trecento anni, la Terra andrebbe incontro a un repentino effetto serra, con un severo innalzamento delle temperature a causa dell’aumento di anidride carbonica dovuto all’indebolimento del processo fotosintetico. Altri studiosi parlano invece di un potenziale cosmic ray winter, un “inverno da raggi cosmici” (per parafrasare lo scenario dell’inverno nucleare), che quindi provocherebbe non un rialzo ma un rapido crollo delle temperature a causa dell’aumento della copertura nuvolosa del pianeta. Questa tesi si basa sulla considerazione che i raggi cosmici abbiano un effetto sulla formazione delle nubi, per cui un significativo aumento delle quantità di particelle altamente energetiche provenienti dallo spazio avrebbe l’effetto di trasformare il pianeta in un’unica grossa “palla di neve”.
Nel loro studio, Ellis e Schramm suggerivano di cercare eventuali tracce di passate esplosioni di supernove vicine sia nello spazio che sulla Terra, attraverso la ricerca di indizi che indicherebbero che in passato il nostro pianeta è stato investito dall’onda d’urto di una di queste stelle morenti. Lo stesso John Ellis, quattro anni dopo, firmava con Brian Fields, astronomo dell’Università dell’Illinois, un paper nel quale venivano prese in considerazione tracce di alcuni isotopi nei sedimenti dei fondali oceanici che potrebbero provenire da esplosioni di supernove: nel corso delle ultime, concitate fasi di fusione nucleare, nel nucleo delle grandi stelle vengono rapidamente sintetizzati tutti gli elementi più pesanti del ferro, poi espulsi nello spazio durante l’immane esplosione. Se il guscio di gas proiettato all’esterno della supernova raggiunge la Terra quando ancora non si è del tutto disperso negli abissi interstellari, parte di questi elementi potrebbero essere individuati negli strati geologici passati. Significative quantità dell’isotopo ferro-60 in alcuni depositi sottomarini potrebbero avere come unica spiegazione, secondo gli studiosi, l’origine extraterrestre: una supernova entro un raggio di 30 parsec sarebbe esplosa alcuni milioni di anni fa, e l’esplosione avrebbe investito la Terra provocando la caduta sul nostro pianeta di questo isotopo.

Per trovare la prova definitiva di una correlazione tra estinzioni e catastrofi
Tre supernovae distanti. Sopra è visibile l'immagine prima dell'esplosione della stella e sotto la stessa immagine con la supernova
Tre supernovae distanti. Sopra è visibile l'immagine prima dell'esplosione della stella e sotto la stessa immagine con la supernova
stellari, abbiamo bisogno che gli indizi raccolti sulla Terra siano corroborati da una “pistola fumante” nello spazio. Un residuo di una supernova vicina, per esempio. Nel 2001 Jesus Maiz-Apellaniz dello Space Telescope Science Institute di Baltimora ha individuato un potenziale candidato. Tra i 380 e i 470 anni luce dal nostro sistema solare esiste un insieme di stelle molto giovani, con pochi milioni di anni alle spalle, probabilmente nate tutte da una stessa nebulosa. Gruppi di stelle del genere sono noti come “associazioni OB”, dalle lettere con cui gli astronomi identificano le classi spettrali di questa tipologia di stelle giovani. L’associazione Scorpius-Centaurus è la più vicina a noi. È composta da una miriade di stelle, nate tutte da una stessa enorme nebulosa-madre, alimentata dai materiali di antiche esplosioni stellari. Una di queste esplosioni, in particolare, sarebbe occorsa circa tre milioni di anni fa. E poiché, come si è visto, un’estinzione minore ma con particolari ricadute sul fitoplancton è avvenuta sulla Terra circa nello stesso periodo, i conti sembrano tornare. Qualche anno dopo sia John Ellis che Brian Fields confermavano la correlazione tra l’ipotesi supernova e i depositi di ferro-60 sui fondali oceanici risalenti a tre milioni di anni.  I due scienziati notano che, nell’arco di tempo durante il quale i resti della supernova avrebbero colpito il nostro pianeta, si sono verificate alcune estinzioni minori: in particolare una circa 13 milioni di anni fa, durante il medio Miocene, e un’altra più ridotta circa 3 milioni di anni fa, nel corso del Pliocene. Le evidenze geologiche e biologiche includono una forte riduzione dello zooplancton e del fitoplancton, con conseguente estinzione di diverse specie di animali che si cibavano di plancton. Incrociando queste prove con l’ipotesi supernova, tutto lascia ipotizzare che in almeno uno di questi due casi l’onda d’urto della supernova abbia spazzato via lo strato di ozono esponendo la Terra al bombardamento ultravioletto.
C’è però un “ma”: per quanto relativamente vicina, l’associazione Scorpius-Centaurus è comunque ben al di fuori della zona rossa. In teoria, non dovremmo preoccuparsi di possibili supernove a una tale distanza di sicurezza. Tuttavia, gli astronomi hanno calcolato che le stelle del gruppo hanno un moto di recessione rispetto al Sole di circa 25 chilometri al secondo. Questo vuol dire che, a conti fatti, la supernova che cerchiamo era, tre milioni di anni fa, più vicina a noi di 200 anni luce. Comunque oltre la zona rossa, certo, ma abbastanza vicina da colpire duramente la vita sulla Terra. Non stiamo parlando di un’estinzione di massa, ma di un danno alla biosfera causato probabilmente da una temporanea dissoluzione dello strato di ozono. Ciò ci spinge a considerare la necessità di individuare, oltre a una zona rossa, anche una “zona arancione” all’interno della quale una supernova potrebbe, se non estinguere la vita sul nostro pianeta, metterla comunque a repentaglio. Quant’è grande questa “zona arancione”?
Per farci un’idea, vale la pena considerare uno studio più recente che compara i presunti tassi di esplosione di supernove locali con fenomeni geologici come le variazioni del livello dei mari. Secondo Henrik Svensmark del National Space Institute di Copenhagen, supernove vicine avrebbero avuto un ruolo decisivo nei cambiamenti climatici che hanno caratterizzato la storia del nostro pianeta negli ultimi 500 milioni di anni. I climatologi conoscono abbastanza bene le variazioni climatiche che la Terra ha subito nel corso dell’ultimo eone. Ciò che Svensmark ha fatto è di comparare queste epoche di forte variabilità, che durano diecimila o anche centomila anni, con i dati ottenuti dai suoi calcoli sul tasso di supernove nel nostro vicinato galattico. L’indicatore usato è quello della regressione marina, che avviene quando il mare si ritira ed espone il suo fondale all’aria aperta. Questi fenomeni sono ricostruibili attraverso lo studio dei fondali, che nelle epoche in cui si trovano liberi dalle masse d’acqua sovrastanti vengono coinvolti dagli stessi eventi della terraferma (alluvioni e altri eventi che provocano l’accumulo di sedimenti). È difficile spiegare a livello geologico alcune delle regressioni marine più rilevanti. Quella del Mediterraneo è facilmente spiegabile, dato che anche oggi la chiusura dello Stretto di Gibilterra avvierebbe un graduale processo di essiccamento del mare. Fenomeni in cui il livello del mare cala di oltre 25 metri sono di solito spiegati tirando in causa la formazione di grandi calotte di ghiaccio a velocità molto rapide. Comparando questi eventi alle previsioni riguardo le esplosioni di supernove vicine, emerge una covarianza abbastanza evidente (fig. 1).
Figura 1
Figura 1
A questo punto, dobbiamo cominciare a capire quante candidate a future supernove si trovano all’interno della presunta “zona arancione”. Abbiamo già escluso la possibilità di stelle candidate nell’arco di 50 anni luce, ma se estendiamo questo raggio troviamo in effetti qualche problema. La candidata più vicina è stata individuata nel 2002 da una studentessa di Harvard. Qualcuno si chiederà perché HR 8210, o IK Pegasi, non sia stata individuata prima. La stella in questione è in realtà una nana bianca, che ha esaurito il suo combustibile e non è individuabile attraverso i normali telescopi, ma rilevabile grazie alla produzione di energia in altre bande elettromagnetiche e al suo effetto gravitazionale. Una nana bianca non può esplodere in una supernova. I processi di fusione nucleare al suo interno sono terminati e non può avvenire la devastante reazione a catena che provoca il letale “canto del cigno” di una grande stella. Il problema è che questa nana bianca non è sola. Si trova in un sistema binario con un’altra stella di massa simile a quella del Sole. Addizionando le due masse, viene fuori un totale che è poco al di sopra del limite di Chandrasekhar. Questo vuol dire che, quando la stella compagna comincerà a esaurire il suo combustibile e a ingrandirsi fino ad arrivare alla condizione di gigante rossa, ingloberà al suo interno la nana bianca. A quel punto la massa totale avrà superato il limite fatidico, per cui tutta la vicenda si concluderà con l’esplosione di una supernova.Non necessariamente tali eventi sono collegati a estinzioni di massa. Sicuramente, un’improvvisa glaciazione non favorisce lo sviluppo della biodiversità; ma durante le ere glaciali, la vita è comunque sopravvissuta. Anche l’evoluzione del genere Homo è proseguita, tra qualche difficoltà. Questo vuol dire due cose: che da un lato l’esposizione della Terra ai residui di una supernova non è necessariamente letale; ma che, d’altra parte, anche supernove molto lontane – qui parliamo di un raggio di ben 300 parsec, dunque oltre 900 anni luce – potrebbero avere un impatto in termini di repentini cambiamenti climatici.
Non stiamo comunque parlando di cose che possono avvenire dall’oggi al domani. Il sistema binario appare effettivamente instabile ed è probabile che l’avvio della fase di espansione della stella compagna di HR 8210 non sia molto lontano nel tempo. Ma, considerati i tempi astronomici, questo potrebbe voler dire anche diversi milioni di anni. In effetti, i calcoli effettuati dall’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics in seguito alla scoperta del pericoloso sistema binario parlano di almeno un centinaio di milioni di anni o giù di lì. Possiamo quindi dormire sonni tranquilli, ed è una fortuna visto che la stella si trova ad appena 150 anni luce dalla Terra, quindi ben all’interno della “zona arancione”.
L’altro rischio è collegato alle ipernove. Cosa produce questi mostri stellari? Dobbiamo avere una stella di massa almeno 30 volte quella del Sole, che nel momento del collasso gravitazionale conseguente all’esaurimento del suo combustibile nucleare finisce per contrarsi al punto da produrre istantaneamente un buco nero. La produzione di un buco nero, nelle supernove ordinarie, avviene dopo un certo tempo, non istantaneamente dopo l’esplosione. Qui, invece, si avrebbe un’immediata formazione di un buco nero nel nucleo di quello che fino a poco prima era una stella gigantesca, capace di attirare in poco tempo buona parte della materia del sistema solare in cui si trova. Ai poli opposti del nucleo collassato della stella vengono emessi due getti estremamente concentrati di fotoni gamma, che costituiscono la traccia di energia individuabile dagli astronomi. Queste cosiddette collapsar, che producono un’ipernova, sono fortunatamente molto rare. Secondo alcune stime, ne esploderebbe una nella nostra galassia ogni 200 milioni di anni in media. Ma non abbiamo solidi elementi a conferma di questa stima.
Per capire quanto vicina dev’essere un’ipernova per crearci qualche grattacapo dobbiamo prendere in considerazione un’altra tipologia di eventi di straordinaria potenza, collegati alle ipernove. Il 2 luglio del 1967 due satelliti Vela, messi in orbita dagli Stati Uniti per monitorare l’osservanza del trattato per il bando dei test nucleari, individuarono un picco anomalo di raggi gamma. Sembrava proprio una delle firme di un’esplosione nucleare, che nella detonazione rilascia una gran quantità di fotoni ad alta energia. Ma qualcosa non tornava. Per esempio, non vennero individuate quantità di radiazioni superiori alla norma nelle aree dove si riteneva fosse stato effettuato il test nucleare clandestina. La notizia rimase segreta, soprattutto perché a quel primo segnale se ne aggiunsero altri. Alla fine, quando in totale erano stati raccolti 16 picchi di raggi gamma, gli scienziati di Los Alamos esclusero una loro origine terrestre. Non solo: la fonte sembrava bel lontana dal nostro sistema solare. Nasceva così l’enigmatica storia dei gamma-ray burst (GRB), o lampi gamma.
Oggi i GRB sono attentamente studiati da diversi satelliti e da un esercito di
astrofici, ma non ci sono ancora certezze sulla loro origine. Quel che sappiamo per certo è che tutti i lampi che sono stati osservati provengono da galassie molto distanti, in alcuni casi lontane miliardi di anni luce. Ciò ha portato a corroborare la tesi secondo cui tali lampi sarebbero il prodotto del collasso di materia all’interno di enormi buchi neri annidati al centro di antichissime galassie. La Via Lattea e probabilmente tutte le altre galassie possiedono enormi buchi neri al loro centro. Quando oggetti molto massicci, come per esempio le nane bianche o le stelle di neutroni, che sono estremamente dense, cadono nelle grinfie dell’attrazione gravitazionale di questi mostri giganteschi, emetterebbero un’intensa energia sotto forma di fasci di raggi gamma estremamente concentrati che mantengono la loro energia a scale enormi. Le grandi distanze rendono questi eventi, i più violenti dell’universo conosciuto, del tutto innocui. Anche se non ne è stato ancora osservato nessuno, non è però escludere l’ipotesi di GRB provenienti dall’interno della nostra galassia. E questo cambierebbe un pochino il quadro.
Difatti, gli astrofisici ritengono che, per quanto rari, eventi come la caduta di stelle di neutroni all’interno di buchi neri presenti nella Via Lattea non vadano esclusi. È vero, finora non ne abbiamo mai osservati. Ma potremmo rilevare degli indizi su GRB avvenuti in passato. Nel 2004 un satellite della NASA, Chandra, un vero e proprio osservatorio per l’analisi delle fonti di raggi X sparse nell’universo, individuò a 35.000 anni luce dal nostro sistema solare quelli che oggi si ritengono essere i resti di un GRB avvenuto all’interno della galassia. Si tratta di una nebulosa, catalogata come W49B, che pare essere il residuo dell’esplosione di una supernova con una singolare produzione di raggi X e gamma. È da escludere che da quelle parti vi sia un buco nero, perciò secondo i più recenti studi la stella che è collassata doveva essere un particolare tipo di supernova, di tipo Ib o Ic, che si caratterizza per la perdita del suo strato esterno di idrogeno prima del collasso finale. Ciò avviene perché solitamente lo strato di gas più esterno viene risucchiato da una stella compagna. La supernova in questione genera anche un GRB lungo l’asse di rotazione della stella, e la nebulosa W49B sarebbe quindi sia il primo esempio di un’antica supernova di questo tipo nella nostra galassia che il primo caso di una fonte di lampi gamma internamente alla Via Lattea.
Potrebbe però esserci stato qualcosa anche più vicino a noi. Abbastanza vicino da colpire la Terra e produrre lo stesso effetto di un’esplosione ravvicinata di una supernova. Un fisico dell’Università del Kansas, Adrian Melott, e il suo gruppo di ricerca, che include anche tre astrofisici del centro Goddard della NASA, ritiene che 440 milioni di anni fa un GRB proveniente da molto vicino – astronomicamente parlando – ossia circa 6000 anni luce abbia investito la Terra causando un’estinzione di massa. L’estinzione del tardo Ordoviciano fu la seconda più grande estinzione di massa dopo quella del Permiano. Il 60% delle specie marine scomparve. Dopo una fase piuttosto calda sul nostro pianeta, le temperature crollarono e iniziò una rapida glaciazione che produsse tra le sue conseguenze un drastico calo del livello del mare. Ormai avrete imparato ad associare questi eventi alla possibile conseguenza della distruzione dello strato di ozono con conseguente esposizione della Terra ai raggi cosmici. Questa tesi è ancora troppo prematura, e gli studiosi delle estinzioni di massa continuano a prediligere l’ipotesi di una causa endogena per l’evento del tardo Ordoviciano (soprattutto una serie di violente eruzioni vulcaniche). Ma la causa esogena, cioè extraterrestre, non è da escludere.
Nel caso dei GRB, l’ordine di grandezza delle energie coinvolte rende evidente la necessità di individuare una “zona gialla”, più ampia certo della zona rossa e di quella arancione, ma anche legata a una probabilità molto più bassa che un evento al suo interno possa estinguere la vita sulla Terra. Le stime riguardo l’ampiezza di tale zona di rischio variano tra i 6500 e i 10.000 anni luce e la frequenza di eventi apocalittici, in cui cioè il fascio di un GRB sia puntato proprio in direzione della Terra, è stata calcolata in circa 1 evento ogni 700 milioni di anni. Questo dovrebbe farci tirare un sospiro di sollievo, almeno se ragioniamo in termini meramente statistici: se è vero che l’ultimo evento estintivo legato a un GRB è avvenuto nel tardo Ordoviciano, dunque 440 milioni di anni fa, per i prossimi 200-300 milioni di anni la probabilità di essere fritti da un lampo gamma proveniente dall’interno della nostra galassia resterà piuttosto trascurabile.
Tuttavia, scoperte molto recenti dimostrerebbero che il nostro pianeta è stato investito da un GRB solo pochi secoli fa. Se siamo qui a raccontarlo, vuol dire ovviamente che non si trattava di un lampo di energia tale da compromettere la nostra esistenza. Ma l’evento, se confermato, porterebbe a rivedere alcune nostre convinzioni. La storia è la seguente: nel 2011, un’équipe giapponese diretta da Fusa Myake, fisico delle alte energie della Nagoya University in Giappone, scopre che in alcuni cedri rossi giapponesi vecchi di migliaia di anni si trovano livelli insoliti di carbionio-14, un radioisotopo la cui presenza in natura può variare, in un anno, al massimo dello 0,05%, mentre in questo caso negli anelli risalenti all’VIII secolo dopo Cristo la percentuale è venti volte maggiore rispetto alla norma. Un fallout radioattivo in pieno medioevo? Data l’alta improbabilità dell’ipotesi, non resta che guardare al cielo. Quando i raggi cosmici colpiscono gli strati più esterni dell’atmosfera, gli atomi di azoto che si trovano lassù si legano con i neutroni provenienti dallo spazio formando il carbonio-14. Legandosi all’ossigeno, il carbonio forma l’anidride carbonica che, nella sua versione contenente il radioisotopo in questione, viene assorbita dalle piante nella fotosintesi. È quindi possibile trovarne tracce nelle piante secolari, come in questo caso.
Al gruppo di Myake non sfuggiva un particolare decisivo. Nel 2008, dei loro colleghi avevano rinvenuto in una carota di ghiaccio in Antartide – un campione del sottosuolo ghiacciato del Polo Sud, che permette di ricostruire la storia geologica della Terra – livelli eccezionali di berillio-10 risalenti più o meno alla stessa epoca: il 775 d.C. circa. Berillio-10 e carbonio-14 forniscono insieme due indizi significativi a favore dell’ipotesi che una violenta doccia di raggi gamma abbia colpito la Terra in quell’epoca. Il primo indiziato è stato il Sole. Un potentissimo brillamento solare potrebbe aver prodotto un’emissione di raggi gamma tale da produrre la “cascata” di radioisotopi sulla Terra. Ma la tesi è stata rapidamente abbandonata, per via delle elevatissime energie in gioco: il Sole avrebbe davvero dovuto dare spettacolo all’epoca, abbastanza da meritarsi un posto nelle cronache medioevali (spettacolari aurore boreali alle basse latitudini, visibili anche in Cina, dove – a differenza dell’Europa – in quell’epoca si tenevano registri astronomici, non sarebbero passati inosservati).
A questo punto l’unica possibilità era scrutare il cielo in cerca di “pistole fumanti”. Supernove, innanzitutto. L’ipotesi non è da scartare a priori: se una supernova fosse apparsa all’epoca nell’emisfero australe, non ci sarebbe stata nessuna civiltà sufficientemente sviluppata da documentare l’evento. Qualche settimana dopo la pubblicazione dello studio su Nature, uno studente di biochimica dell’Università della California a Santa Cruz inviò una lettera al prestigioso settimanale suggerendo un possibile indizio a favore dell’ipotesi della supernova. Sfruttando un archivio online di antichi documenti realizzato dall’Università di Yale, il giovane studente aveva scoperto che nella Cronaca anglosassone redatta alla fine dell’XI secolo durante il regno di Alfonso il Grande in Inghilterra c’è un riferimento specifico a un misterioso “crocifisso rosso” apparso nel cielo subito dopo il tramonto nell’anno 774. Potrebbe trattarsi dello spettro di una supernova, passata perlopiù inosservata per la sua posizione nel cielo che la rendeva difficile da osservare, se non al tramonto? L’interpretazione delle antiche cronache medievali non è semplice, ma la tesi suggestiva ha colpito diversi studiosi.
Resta il fatto che il picco davvero notevole di radioisotopi registrato potrebbe essere correlato solo a un evento di elevata intensità, per cui una supernova ordinaria è tendenzialmente da escludere, dato che sarebbe stata ben più visibile e avrebbe comunque lasciato una traccia evidente come sorgente di raggi X individuabile dalle moderne strumentazioni che scandagliano il cielo in questa banda. Due studiosi dell’Astrophysikalisches Institut dell’Università di Jena hanno puntato il dito su una sorgente GRB che, calcolatrici alla mano, stimano distante tra i 3000 e i 12.000 anni luce. Ma un momento: non ci troviamo, almeno per buona parte, all’interno della pericolosa “zona gialla”? Dipende dalla tipologia del fenomeno. Gli astrofisici di Jena confermano la stima di una pericolosità letale per GRB in un raggio di circa 6000-7000 anni luce che colpiscano direttamente la Terra. Ma stiamo parlando dei più comuni lampi gamma, i cosiddetti GRB lunghi.
Esiste però una seconda tipologia, più rara, di lampi che durano un paio di secondi appena, e che pertanto sono definiti GRB corti. L’energia che producono è inferiore, per cui potrebbero anche avvenire a distanze minori rispetto alla Terra senza mettere a rischio la biosfera. Anche se nessun evento del genere è finora stato individuato nella nostra galassia, il fenomeno che ha prodotto il picco dell’anno 775 potrebbe essere proprio un GRB corto in un raggio interno alla zona gialla. I due astrofisici stimano infatti che il rischio estintivo di un GRB corto sia nullo oltre i 3500 anni luce circa. Cosa produce questo tipo di lampi gamma? Non si sa ancora con certezza, ma sicuramente si tratta di eventi che coinvolgono mostri cosmici: una fusione tra stelle di neutroni, o tra due nane bianche, o tra uno di questi ultimi due e un buco nero. Simili collisioni producono un getto di raggi gamma ad altissima energia per poche frazioni di secondo, che potrebbero aver colpito la Terra in questo caso specifico. Analisi degli alberi plurisecolari dimostrerebbero che questo sia stato l’unico caso negli ultimi 3000 anni. Che tasso di frequenza possa avere un simile fenomeno, non è possibile stabilirlo con certezza. Se ne venissimo colpiti oggi, di certo sopravvivremmo come sono sopravvissuti i nostri antenati. Ma i satelliti in orbita geostazionaria intorno alla Terra andrebbero in tilt, provocando grossi contraccolpi alla nostra civiltà. E questo ci porta a riflettere su quanto la nostra civiltà tecnologica sia molto più vulnerabile rispetto al passato alle minacce provenienti dallo spazio.

venerdì 26 giugno 2015

Il buco nero più attivo mai visto nella galassia.


Rappresentazione artistica di un buco nero che divora la sua stella (fonte: UzaY Sitesi)

Staffetta di telescopi spaziali sta inviando dati.


Una vera e propria 'staffetta' di telescopi spaziali e basati a Terra sta inviando immagini e dati sul buco nero più attivo mai visto nella galassia, mentre sta divorando una piccola stella vicina 'ingoiando' brandelli di materia, rende noto l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).
''La gravità del buco nero accelera la materia a velocità vicine a quella della luce, raggiungendo temperature elevatissime'', ha detto Pietro Ubertini, dell'Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali (Iaps) dell'Inaf.

A diffondere le prime notizie sulla coppia più 'brillante' della Via Lattea sono stati dei Telegrammi Astronomici (Atel), ossia il più veloce 'passaparola' per gli astronomi di tutto il mondo. L'oggetto luminoso è formato dalla piccola stella chiamata V404 Cygni, delle dimensioni del nostro Sole, e dal buco nero GS2023+338, la cui massa è 10 volte superiore a quella del Sole. E' stata scoperta 25 anni fa dal satellite giapponese Ginga, ''ma poi si è 'spenta' ed è rimasta così per oltre 20 anni'', ha detto Ubertini.
''Solo la settimana scorsa - ha aggiunto - Swift ha visto un'emissione molto forte e ha dato l'allerta''.

Lanciato nel 2004 dalla Nasa, il satellite è stato realizzato in collaborazione con Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e Consiglio britannico per le ricerche di Astronomia e Fisica delle particelle (Pparc).
Dopo l'allerta di Swift il telescopio spaziale, Integral, dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa), ha dimostrato che il 'super-buco nero' è un evento davvero unico. Lo ha visto in particolare lo strumento Ibis, specializzato nel rilevare i raggi gamma e del quale è responsabile Ubertini. Adesso tutti i satelliti astronomici in orbita stanno modificando i loro programmi osservativi a brevissima scadenza per osservare l'evoluzione del buco nero.

Da queste prime osservazioni risulta che la coppia formata dal buco e nero e dalla sua compagna è l'oggetto cosmico 50 volte più 'brillante' rispetto agli oggetti che finora detenevano il record, come la pulsar che si trova nella nebulosa del Granchio e il buco nero Cygnus X-1.

Pensioni, al via i rimborsi ad agosto: 796 euro lordi in più a chi ne prende 1.500.

Pensioni, al via i rimborsi ad agosto: 796 euro lordi in più a chi ne prende 1.500

Dal primo agosto prossimo l’Inps pagherà a titolo di arretrati la rivalutazione delle pensioni sancita dalla sentenza della Consulta e recepita dal decreto legge del governo: dal 2016 arriverà un aumento mensile di 41 euro lordi e con tassazone ordinaria. Rimborsi anche per gli eredi.

Quasi 800 euro lordi di rimborso una tantum ad agosto (per il periodo gennaio 2012- agosto 2015) per un pensionato che percepisce un assegno da 1.500 euro (sempre lordi), poi il trattamento mensile salirà a 1.525 euro circa per arrivare a 1.541 euro dal 2016. Questo il contenuto della circolare Inps che, confermando le simulazioni pubblicate nelle scorse settimane, fornisce le istruzioni applicative del “bonus Poletti”, cosi come ha definito Matteo Renzi l’articolo 1 del decreto 65 con cui il governo ha messo una toppa dopo la sentenza della Consulta che ha definito incostituzionale il blocco dell’indicizzazione per gli assegni superiori a tre volte il minimo voluta dal tandem Monti-Fornero.
Il rimborso, aveva già avuto modo di spiegare già il presidente dell’Inps Tito Boeri, è automatico e i 3,7 milioni di pensionati coinvolti se lo vedranno quindi aggiungere all’assegno previdenziale di agosto, senza bisogno di fare domanda. Ma ora l’Istituto di previdenza descrive in dettaglio anche la misura della rivalutazione automatica per gli anni 2012, 2013 e 2014 e che interessa solo le pensioni da 3 volte il minimo fino a 6 volte. Meglio, però, non sottovalutare che il calcolo dei rimborsi è sempre al lordo. Così le somme restituite negli anni 2012-14 saranno assoggettate a tassazione separata e, quindi, più favorevole perché calcolate sulla base dell’aliquota media senza applicare le addizionali locali. Ma, invece, le somme maturate dal 2015 saranno assoggettate a tassazione ordinaria. In questo caso, ipotizzando un’aliquota media del 27%, per ogni 10mila euro erogati, 2mila e 7oo euro andranno in imposte.
Come funziona il rimborso
Per il 2012 e 2013 i pensionati percepiranno un reintegro del 100% per tutti i trattamenti di importo complessivo fino a tre volte il minimo. Percentuale che scende al 40% per gli assegni superiori a 3 volte il minimo e fino a 4 volte, al 20% per quelli tra 4 e 5 volte il minimo, per poi toccare quota 10% per quelli tra 5 e 6 volte il minimo.
Per il 2014 e il 2015, invece, la rivalutazione sarà riconosciuta a partire dalle pensioni superiori a 3 volte il minimo e fino a 6 volte e sarà pari al 20% della percentuale assegnata per ogni fascia di reddito per gli anni 2012-2013.
pensioni 1Esempio
Le pensioni superiori a 3 volte il minimo e pari o inferiori a 4 volte il minimo (cioè la classe più popolosa degli aventi diritto a rimborso) percepiranno dal primo agosto una rivalutazione complessiva una tantum di 796,27 euro calcolando gli arretrati 2012-2015. In particolare saranno restituiti 210,6 euro per il 2012 e 447,2 per il 2013. Per il 2014 e 2015, invece, la restituzione sarà pari rispettivamente a 89,96 euro e 48,51 euro.
Il meccanismo di calcolo dell’Inps
Riservato agli amanti dei calcoli complessi, si basa tutto sull’incremento del primo biennio che costituisce la base di calcolo per gli anni successivi e viene riconosciuto in misura pari: al 20% dell’aumento ottenuto nel biennio 2012-2013 per gli anni 2014 e 2015; al 50% dell’aumento ottenuto nel biennio 2012-2013, relativamente al 2016.
Quindi, numero alla mano, alle pensioni il cui importo è superiore a tre volte il trattamento minimo verrà attribuita la percentuale di perequazione prevista per il 2012 (pari al 2,7%) nella seguente misura: il 20% del 40% fino a quattro volte il minimo (1.500-2.000 euro circa), il 20% del 20% fino a cinque volte (2.000-2.500 euro circa) e il 20% del 10% fino a sei volte (2.500-3.000 euro circa).
Nella stessa misura verrà attribuita alle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo la percentuale di perequazione previsita per il 2013, pari al 3%.
Pertanto, in base a questi nuovi incrementi si determina il valore del rimborso e il nuovo assegno pensionistico a partire dal 2016. In particolare, le percentuali di perequazione per gli anni 2012 e 2013 vengono incrementate con queste modalità: il 50% del 40% fino a quattro volte il minimo, il 50% del 20% fino a cinque volte e il 50% del 10% fino a sei volte.pensioni 2
Rimborso anche agli erediIl rimborso è esteso anche gli eredi che avranno diritto ai rimborsi delle pensioni superiori a tre volte il minimo. L’Inps precisa, infatti, che i pagamenti riguarderanno “anche le pensioni che al momento della lavorazione risulteranno eliminate” e che “il pagamento delle spettanze agli aventi titolo sarà effettuato a domanda nei limiti della prescrizione”. In questo caso, quindi, il rimborso non è automatico ma va presentata una domanda all’Inps prima che scatti la prescrizione.
I conti tornano?
Durante l’audizione parlamentare del 16 giugno, il presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, Giuseppe Pisauro, ha spiegato che “la fascia di pensionati con assegni tra le tre e le quattro volte il minimo (tra 1.500 e 2.000 euro) riceverà solo circa i due terzi delle risorse stanziate dal governo”, vale a dire il 12%, confermando che “il totale delle risorse messe a disposizione dal governo – pari a 2,2 miliardi di euro – sono stati attinti in larga parte dal tesoretto contenuto nel Def e dato dalla differenza tra deficit/Pil tendenziale e programmatico”.

l'ov is in the air.



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“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire. - Thomas Mackinson

“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire

Dopo Roma, la nuova grana del governo è Milano. La legge Delrio che ha cancellato la Provincia ha scaricato sulla Città metropolitana i debiti dell'ente soppresso e insieme ai tagli ai trasferimenti sottrae quasi 500 milioni di euro in tre anni al motore economico dell'Italia. Pisapia non ci sta: aveva programmato un'uscita di scena in punta di piedi, deve invece battere i pugni sul tavolo. I candidati a sostituirlo ne approfittano per aprire la campagna elettorale. E Roma, per ora, tace.

Non solo Roma e Mafia Capitale. Si materializza un’altra grana per il governo di Matteo Renzi. La Grande Milano che ha voluto e varato è appena nata e già  rischia di fallire, facendo virare sul rosso anche la “rivoluzione arancione” del suo sindaco, quel Giuliano Pisapia che voleva uscire di scena in punta di piedi e si ritrova invece a battere i pugni sul tavolo del governo. Sembra un fulmine a ciel sereno, in realtà il rischio default era stato rappresentato per tempo a Palazzo Chigi. Tutto nasce dalla riforma Delrio, quella che per i gufi premonitori era un gigantesco “pasticcio” e si scopre ora una ciambella col buco. Il buco è appunto quello della Città metropolitana di Milano, l’ente di area vasta che assorbe l’ex provincia e ne eredita anche il  debito: 94 milioni di euro. La scoperta ha mandato su tutte le furie il sindaco che giovedì scorso ha mollato su due piedi la first lady d’America, Michelle Obama, in visita all’Expo per volare a Roma a recapitare un messaggio a Palazzo Chigi: la città metropolitana rischia di sprofondare sotto il combinato disposto dei tagli ai trasferimenti al nuovo ente e dei debiti che eredita dalla disciolta provincia. Un’emergenza conti che diventa un boccone amarissimo per Pisapia e assai goloso per i candidati alla sua successione.
I conti in rosso: 500 milioni di bucoI numeri parlano chiaro. Il bilancio preventivo 2015 della Città Metropolitana sconta pesantemente la serie di tagli programmati dal governo agli enti di primo livello che sono stati fissati in un miliardo di euro, con una ricaduta sul capoluogo lombardo di 27 milioni nel 2015, il doppio nel 2016 e nel 2017 di 54 milioni. Così, lo squilibrio nei conti si attesterà a 94 milioni quest’anno, 163 milioni nel 2016 e altri 212 nel 2017. In tutto sono 500 milioni di euro. Poco o nulla, nel frattempo, è arrivato dalla rimodulazione del decreto sugli enti locali che doveva attenuare la corsa ai tagli: gli effetti del decreto si riducono essenzialmente al risparmio sullo sforamento del Patto di Stabilità della defunta Provincia, quantificato da 60 a 10 milioni. Il debito contratto defluisce dalle scritture contabili dell’ente morto. L’allarme risuona a sirene spiegate: per non portare i libri in tribunale ed evitare il commissariamento tocca correre ai ripari entro il 31 di luglio, un mese e poco più. Da contabile la vicenda diventa subito politica, perché nel 2016 si vota e i candidati in corsa che scaldano i motori si vedono già apparecchiato, sul piatto d’argento, un bellissimo boccone per cui scannarsi.
Le accuse di Passera e Gelmini, già in campagna elettoraleA cogliere la palla al balzo, ad esempio, è Corrado Passera, candidato a sindaco nel 2016 con la sua Italia Unica: “Ancora un volta emerge un buco di bilancio, e stavolta ci va di mezzo la Grande Milano. Ancora una volta comincia un rimpallo di responsabilità tra il sindaco e Palazzo Chigi su chi e come deve “ripianare”. Uno scaricabarile a cui i cittadini sono stanchi di assistere”. Stessi bersagli individuati dalla coordinatrice regionale di Fi, Mariastella Gelmini: “Non è Milano che affonda con la Città metropolitana: ad affondare è la sinistra milanese e nazionale e la sua costante, immutabile inconcludenza. Nel 2011 hanno promesso la “primavera” arancione per Milano, fallita a poco più di metà mandato con la rinuncia del sindaco a ricandidarsi e nessuna realizzazione del programma. Ora anche la Città metropolitana naufraga dopo alate promesse e decine di convegni a base di favole. Invece che abolire le Provincie e distribuire le competenze tra Comuni e Regioni, il governo ha creato un carrozzone vuoto con la Delrio. Ora naufraga nei debiti, con un surreale scaricabarile tra il Pd milanese e il Pd governativo”.
Via alle svendite di fine stagione: caserme, prefettura e immobili di lusso.Intanto la Grande Milano si prepara alle svendite per tappare una parte del buco. La Città metropolitana è pronta a vendere Palazzo Diotti, la storica sede della Prefettura e un paio di caserme che ora ospitano polizia e forze dell’ordine. Il piano di rientro allo studio del sindaco è subordinato alla possibilità di poter utilizzare almeno il 50 per cento proveniente dalle dismissioni del patrimonio immobiliare per la spesa corrente. Il palazzo e le caserme, spiega il Corriere della Sera, dovrebbero essere già inserite nel primo lotto del fondo Invimit, la società di gestione del risparmio del ministero dell’Economia e delle Finanze, dove confluiscono gli immobili delle Città metropolitane e delle Province che non sono più funzionali agli scopi dei nuovi enti. Chiaramente la funzione pubblica resta preservata e quindi non ci sarà nessuno “sfratto” della Prefettura o delle forze dell’ordine. Il valore degli immobili collocati nel fondo varia tra gli 80 e i 90 milioni di euro, a cui si aggiungerebbero i 38,7 milioni per la vendita del palazzo di corso di Porta Vittoria che è stato “prenotato” con una proposta irrevocabile.
Il “tradimento” di Pisapia, padre nobile della Grande MilanoE tuttavia il pasticcio politico resta. Per Pisapia e la sinistra milanese diventa un peso enorme in vista della competizione del 2016. Ci sono poi da rilevare due aspetti che possono fare la differenza nei rapporti sull’asse Roma-Milano. Il primo è che proprio Pisapia è stato tra i “padri nobili” delle città metropolitane. Lo raccontava lui stesso, in una lettera, durante lo sfibrante confronto parlamentare sulla riforma Delrio. “Oltre dieci anni fa – ricordava Pisapia – quando si è discusso del titolo V della Costituzione ero stato tra i proponenti della Città metropolitana. Nella stessa seduta avevo anche presentato un emendamento per una graduale soppressione delle province che, invece,  non è stato accolto”. Insomma, il padre nobile non riconosce la sua “creatura” per come la disegna il governo Renzi. Pisapia, va detto, aveva pure lanciato l’allarme per tempo, definendo Milano come una “Ferrari senza benzina”, e avvertendo il governo sul rischio di non riuscire a garantire più servizi essenziali come la manutenzione delle strade, i servizi scolastici, gli aiuti ai disabili.
La beffa dei congedi in rosso: la Moratti lasciò un buco da 186 milioni.
Ma c’è di più. Se si torna al 2011 si comprende meglio il furore che ha colto Pisapia il “mite”, quello della “rivoluzione gentile”. Quando si è insediato a Palazzo Marino, il neo sindaco di Milano e il suo assessore al bilancio Bruno Tabacci scoprirono nei conti del Comune un buco da 186 milioni di euro lasciato in eredità dall’amministrazione Moratti. “Siamo davanti a un disavanzo potenziale che rischia di mettere in ginocchio la città”, accusavano. E ora a Pisapia, dopo quattro anni di governo della città, non pare vero di ritrovarsi nella stesa situazione, con i candidati sindaco che banchettano sul “pasticcio”, imputandogli di aver lasciato la città coi conti in rosso. Ecco perché ha messo da parte il suo fair-play, ecco perché picchia i pugni sul tavolo. Il fallimento della città, ragiona il sindaco, non può essere la mia targa di addio alla Grande Milano.

mercoledì 24 giugno 2015

Relitto romano scoperto nei fondali della Gallura: grande valore archeologico.



Roma, 21 giugno 2015 - Importante scoperta archeologica nelle acque della Gallura: la polizia di Sassari, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Sardegna, ha trovato un relitto di età romana in fondo al mare. I poliziotti del Nucleo Sommozzatori, a meno cinquanta metri di profondità, hanno rinvenuto la nave che, per il suo carico e il suo posizionamento sui fondali del mare, rappresenta un unicum dal grande valore scientifico. 
Si tratta di una nave lunga 18 metri e larga 7 carica di laterizi di età romana imperiale, prodotti nelle officine intorno Roma. Visto il luogo del ritrovamento, gli archeologici ritengono che l`imbarcazione fosse destinata alla Spagna o alla costa occidentale della Sardegna. L`eccezionalità del ritrovamento attiene allo stato di conservazione del carico che risulta intatto e ad oggi stivato come al momento della partenza. Pare pertanto che la nave sia affondata con un semplice movimento verticale dalla superficie fino al fondale.

C’è un’Atlantide in Egitto. Splendori della città sommersa. - Aristide Malnati



La Stele di Naucratis, sulla quale viene menzionata la città di Heracleion/Thonis.

Trovati vicino ad Alessandria i resti di Heracleion: forse ispirò Platone. L'archeologo Frank Goddio: "Le ricchezze e l'impianto urbanistico corrispondono al mito"

E SE ATLANTIDE fosse in Egitto? Precisamente alla foce del Nilo sul Mar Mediterraneo, presso il cosiddetto braccio canopico? A suggerire questa nuova, avvincente ipotesi della misteriosa città scomparsa, sede delle civiltà ideale raccontata da Platone nei dialoghi “Crizia” e “Timeo”, sono i risultati dell’esplorazione sistematica ad opera di un’équipe di archeologi francesi dei fondali davanti ad Abuqir, a 20 km a est di Alessandria d’Egitto. A guidarli è Frank Goddio, forte di studi storici, ma soprattutto avventuroso scopritore di tesori in mezzo mondo, ad iniziare da un galeone spagnolo carico di dobloni d’oro nel Mar cinese meridionale.
Questa volta l’esplorazione è fatta secondo i crismi della scienza, con strumenti avveniristici; e i risultati non si sono fatti attendere: gli esperti hanno identificato i resti di un antico e magnifico abitato, parzialmente coperto dalla sabbia e dalle alghe. La lettura delle tracce degli edifici ha permesso una mappatura dell’intero assetto urbano, dell’intrico di vie, piazze, santuari, templi e monumenti sontuosi: il palazzo dei governatori e naturalmente il porto con l’arsenale e i vari mercati per le merci. Non vi sono più dubbi: si tratta di quel che rimane di Heracleion, la Thonis dell’Antico Egitto, fiorente centro commerciale, strategico per la posizione, che collegava il Nilo col Mar Mediterraneo.
Da qui transitavano raffinati prodotti di ogni tipo: «Ad esempio navi con importanti carichi di vino pregiato, come il famoso rosso di Cipro, che faceva bella mostra sulle tavole imbandite dei faraoni e le cui tracce sono state trovate in anfore sepolte nella tomba di Tut Ankh Amon – racconta Goddio – Heracleion rimase snodo commerciale fino al VI secolo d. C. Sappiamo che Cleopatra faceva arrivare qui le navi con i profumi di Cipro».
L’ÉQUIPE francese ha identificato anfore e giare per vino e olio, preziose ampolle per profumi, boccette e scatolette in ceramica e alabastro per il trucco. Le regine e le bellissime fanciulle di Heracleion tornano così a sedurre in tutta la loro bellezza, mentre l’assetto urbano si precisa campagna dopo campagna: ecco il tempio principale, dedicato a Khonsu, divinità lunare, signore dell’aria e delle tempeste, che i greci associarono a Eracle per la sua potenza, ma che rispetto a Eracle pronunciava (tramite il suo sacerdote) oracoli, fonte di preziosi consigli per naviganti in procinto di affrontare il mare ignoto.
Goddio ha poi identificato (e ricostruito fedelmente grazie alla computer grafica) anche il santuario del dio Amon, sede dei misteri di Osiride: i reperti ritrovati sul fondale, tra cui un’ampia lamina in oro con scrittura in geroglifico, rivelano che qui in particolare durante il regno di Nectanebo I (dal 380 al 362 a. C.) la barca di Osiride, dio degli inferi, veniva portata in processione tra ali di fedeli devoti.
ERANO carichi di offerte di fiori e frutta per ingraziarsi la divinità più importante del vasto pantheon egizio. E non ha più misteri nemmeno il palazzo del potere, sede di governatori e nobili senza scrupoli, favoriti dal faraone stesso. Sofisticate apparecchiature hanno permesso di ridisegnare con sorprendente precisione i viali di sfingi, che portavano a questa specie di reggia, e di ridefinire le stanze delle riunioni e le camere da letto, alcove per amori proibiti tra i governatori e le loro amanti, che, raccontati da fonti dell’epoca, ora trovano conferma.
Ebbene, dalla ricostruzione di Heracleion si ricava la presenza di cinte murarie concentriche, di templi, che potrebbero essere stati a un certo punto dedicati dai commercianti greci a Poseidone e a Zeus, di un palazzo con mura turrite (le cui basi si leggono ancora), un porto protetto su tre lati.
TUTTE caratteristiche molto simili all’Atlantide immaginata da Platone, sicuramente influenzato da modelli reali. E il principale potrebbe essere stato proprio Heracleion, la cui ricchezza è testimoniata dalle centinaia di statue in granito o in calcare di sovrani, regine, divinità, sfingi ritrovate; per non parlare di capitelli e colonne di fine fattura artistica, di rivestimenti in marmo dei palazzi, di centinaia di monete, gioielli, manufatti pregiati, monili preziosi in arrivo su carichi opulenti da tutto il Mediterraneo. «Potrebbe essere davvero Heraclion la fonte di Platone per Atlantide. Tanto più che un modello urbano egizio sarebbe più credibile, vista l’ammirazione del filosofo greco per l’antica civiltà dei faraoni», conclude Goddio.