mercoledì 22 agosto 2018

Rogito, ergo sum. - di Marco Travaglio-sul Fatto Quotidiano del 21 agosto.

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Da quando, perdute rovinosamente le elezioni del 4 marzo, Matteo Renzi giurò che sarebbe scomparso dai radar per dedicarsi umilmente e silenziosamente alla nuova missione di “senatore di Scandicci, Impruneta, Signa e Lastra a Signa”, non passa giorno senza che lui parli di qualcosa o qualcosa parli di lui. Con effetti devastanti non solo per lui (che sarebbe il meno), ma per tutto il Pd (cioè per milioni di persone). 
Quando si imbocca un piano inclinato, non c’è più verso di risalire: la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo. 
E così quello che per quattro anni fu il Gastone della politica, che portava buono a se stesso e jella agli altri, è diventato l’esatto opposto: un incrocio tra Paperino, Fantozzi e Tafazzi che porta jella a se stesso e buono agli altri. 
Provate solo a immaginare quanti consensi in meno avrebbero M5S e Lega se dall’altra parte non ci fosse lui. 
Pare che Di Maio abbia eretto un altarino con la sua effigie (al posto di quella di Fassino) e ogni sera, prima di coricarsi, gli dedichi una preghiera riconoscente. 

L’unica mossa politica di Renzi dopo le elezioni è stata impedire la soluzione di governo più ragionevole per l’Italia e per il Pd: l’accordo fra un centrosinistra rinnovato e il M5S. 
Prima il Tafazzi di Rignano ha spinto i 5Stelle fra le braccia di Salvini (il Corriere raccontò una sua allarmatissima telefonata a Salvini: “Matteo, sono Matteo, ma davvero non ce la fate a fare il governo con i 5Stelle?”). Poi s’è messo a sbraitare contro i 5Stelle che governano con Salvini. 

Per il resto, ogni notizia che lo riguarda sembra fatta apposta per ricordare agli italiani che l’equazione “Pd=establishment” e “giallo-verdi=anti-establishment” non è una fake news made in Putin, ma una triste realtà: appena si parla di Renzi, di riffa o di raffa, saltano fuori i soldi. Cioè gli affari.
Lui denuncia un complotto contro i suoi genitori e quelli vengono imputati per false fatture. Strilla contro la Lega che ruba milioni e maltratta i migranti e le Ong, e suo cognato finisce indagato per aver rubato 6 milioni a un’Ong (l’Unicef) destinati ai bimbi africani, girandone una parte ai soliti genitori. Nega inciuci con B., e si scopre che sta girando un documentario sulle bellezze di Firenze (titolo provvisorio: “Firenzi”) per Mediaset, che per giunta alla fine si sfila perché il costo è troppo esoso (2-3 milioni). Mostra in tv l’estratto conto da nullatenente, poi si scopre che s’è comprato una villa da 1,3 milioni, versando al rogito una caparra di 400mila euro sull’unghia e stipulando il suo quarto mutuo in banca (un mutuo subprime, visto che gli lascia solo 600 euro l’anno per tirare avanti con i suoi cari).
Incolpa i leghisti per il lancio di uova razziste contro un’atleta nera, poi si scopre che il lanciatore è il figlio di un consigliere Pd. 
Chiede ai pm di deporre sui troll e le fake news russe anti-Mattarella, poi si scopre che i social che rilanciarono la campagna del M5S erano italiani e sorprendentemente vicini al M5S. Si danna a dimostrare che lui non è “casta”, diversamente dai giallo-verdi, i quali però desecretano gli atti sull’Air Force Renzi e disdettano il contratto capestro da 150milioni imposto ad Alitalia. Lui allora, per dimostrare che erano soldi ben spesi, giura: “Non ci sono mai salito”, così tutti – anche i suoi – capiscono che erano soldi buttati. Crolla il viadotto di Genova, affidato al controllo (si fa per dire) di Autostrade Spa, regalata da sinistra e destra ai Benetton con una concessione prorogata senza gara, in una notte, da Gentiloni&Delrio. 

Tacere e sperare nella smemoratezza italica sarebbe il minimo, ma i grandi twittatori renziani non resistono: è più forte di loro. Rinfacciano ai 5Stelle il no alla Gronda, presunta “alternativa al ponte Morandi”, ragion per cui Faraone chiede le dimissioni di Toninelli: “Se non se ne va lui, lo cacciamo noi”. Peccato che la Gronda non avrebbe mai sostituito il ponte Morandi, ma l’avrebbe mantenuto in funzione (e, iniziando i lavori adesso, sarebbe pronta nel 2029); se ne parla dagli anni 80, quando Grillo faceva la serate; ed è stata bloccata da giunte e governi di destra e sinistra, mentre il M5S non ha mai governato. 

A questo punto Di Maio fa una gaffe, accusando il Pd di prender soldi da Autostrade, mentre gli ultimi finanziamenti risalgono al 2006 (un anno prima che nascesse il Pd). Ma Renzi&C., disabituati a stare dalla parte della ragione, passano subito da quella del torto annunciando querele e negando che il centrosinistra abbia mai preso un euro: sbugiardati dal video di Report sui 150 mila euro di 12 anni fa.
Completa il quadro la difesa strenua del titolo Atlantia in Borsa (l’unico crollo che li preoccupa) e i timidi pigolii sulle colpe dei Benetton, che intanto festeggiano con grigliate e serate danzanti a Cortina. 
L’ultima tappa dello Sfiga Party è l’intervista di ieri a Repubblica: fra una supercazzola (“il passato non cambierà, cambiamo il futuro”) e una balla (la lista completa è a pag. 8), Renzi dice che revocare la concessione ad Autostrade significa “pagare 20 miliardi di danni”, tesi che ormai si vergognano a sostenere pure i Benetton. E aggiunge giustamente che il selfie di Salvini ai funerali è “squallido ma coerente”. A stretto giro, sul web, salta fuori un selfie del premier Renzi nel 2016 alle esequie di Tina Anselmi. Squallido ma coerente. Viene in mente il film La maledizione dello scorpione di Giada con Woody Allen nei panni dello sfortunatissimo investigatore Briggs, che indaga su una serie di furti e alla fine scopre che il ladro è lui. Però Matteo Tafazzi ci dà anche una good news: “Da qui a Natale nasceranno comitati civici contro questo governo in tutti i comuni”. Il primo sarà Lourdes, dove lui sta per trasferirsi per girare il suo prossimo docufilm. E, già che c’e per farsi un bagno integrale in piscina.[…]

sabato 18 agosto 2018

Genova, Travaglio sui Benetton: ‘Giornali e tg hanno finalmente scoperto il nome del concessionario delle Autostrade’. - Marco Travaglio

Travaglio-Benetton

Ora che, con soli due giorni di ritardo, giornali e tg hanno finalmente scoperto il nome del concessionario delle Autostrade – Benetton – ovviamente per difenderlo dalle proditorie calunnie per il ponte autostradale crollato a Genova, e la casata trevigiana s’è prontamente ricordata dopo appena 48 ore di “esprimere profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e la propria vicinanza ai feriti nel tragico crollo” senza neppure attendere i funerali, dobbiamo confessare il sentimento di ammirazione mista a invidia che abbiamo sempre nutrito per Luciano, Gilberto & F.lli, noti imprenditori a pelo lungo passati dal tosare le pecore al tosare gli italiani.
Dei loro trionfi imprenditoriali, fin da quando trasformavano gli ovini in maglioni, o usavano bimbi bianchi, gialli e neri per ridurre il razzismo e incrementare il fatturato, o si davano alla Formula 1 regalandoci Briatore, capivamo poco.
Ciò che ci lasciava senza fiato erano le loro chiome, soggette a un singolare processo di stagionatura e cromatura. Sulle copertine dei rotocalchi per parrucchieri, che li ritraevano in posa in magioni principesche, sempre molto sorridenti, in smoking, le mani sinistre nelle tasche delle giacche, circondati di marmocchi ma soprattutto cani e gatti (anch’essi a pelo lungo), le loro zazzere non incanutivano con l’età, come per noi comuni mortali: passavano direttamente dal castano all’azzurro metallizzato, per un inspiegabile fenomeno di cui, sempreché si tratti davvero di capelli e non di lane, sono noti due soli precedenti: quello dell’Avvocato Agnelli e quello della Fata Turchina di Pinocchio. Due personaggi che presentano ciascuno un punto comune con i nostri fratellini: il primo, l’abilità nell’accumulare miliardi inversamente proporzionale al numero delle ore lavorate; la seconda, una certa indulgenza verso i bugiardi.
Poi c’è l’alone fiabesco condiviso con la Dinasty trevigiana, sempre indicata col plurale all inclusive, “I Benetton”, senza soverchie distinzioni fra questo e quel membro, nella migliore tradizione del capitalismo famigliare (da Gli Agnelli a Gli Angelucci) o delle serie tv americane: I Simpson, I Jefferson, I Flinstones, I Sopranos.
A un certo punto - era il 1999, in piena età dell’oro del centrosinistra - scoprimmo che i fratelli turchini s’erano aggiudicati la concessione di Autostrade per l’Italia, che gestisce oltre la metà della rete nazionale. Nessuno spiegò perché mai un bene pubblico, costruito con le tasse dei cittadini, dovesse fruttare miliardi a un privato, né cosa c’entrassero col cemento e l’asfalto quei simpatici tosatori di pecore e fabbricanti di maglioni.
Eppure quella “privatizzazione”, come i lettori del Fatto ben sanno, era piuttosto singolare. Immaginate un contadino che, dopo tanti sacrifici, riesce ad acquistare una cascina, la ristruttura a sue spese e va ad abitarci. Un brutto giorno, si ritrova all’ingresso un bel casello con dentro un Gilberto o un Luciano che sbuca dalla finestrella e lo apostrofa:
“Lei dove va?”.
“A casa mia, dove vuole che vada? Lei piuttosto chi è?”.
“Sono Gilberto (o Luciano, ndr), il nuovo concessionario: da oggi casa sua è mia, se vuole entrare mi deve 15 euro”.
“E perché dovrei pagare lei per entrare in casa mia?”.
“Perché l’ha deciso il governo, io sono un imprenditore”.
“Ah sì, e cos’ha fatto per la mia casa?”.
“Beh, incasso il pedaggio e i dividendi in Borsa, le par poco?”.
“Quindi, se si rompe qualcosa, ora ci pensa lei?”.
“Non esageriamo: dipende dagli azionisti e dal titolo in Borsa”.
Il fatto che nel caso Autostrade il contadino fosse lo Stato, cioè milioni e milioni di italiani che per decenni avevano finanziato con le imposte la rete viaria, avrebbe dovuto sollevare qualche obiezione su un’operazione che regalava a un privato una gallina dalle uova d’oro in regime di monopolio e senza rischi d’impresa, mentre privava la collettività di un bene pubblico che non può sottostare alle regole del mercato: perché le autostrade non devono produrre profitti, ma risorse da reinvestire in manutenzione, sicurezza, nuove infrastrutture e, se avanza qualcosa, taglio delle tariffe. Il contrario di quanto accade da 19 anni: sempre meno manutenzione e sicurezza, sempre più utili ai Benetton (nascosti dietro sigle rassicuranti, tipo “Atlantia”, più adatta a un’astronave, o “Sintonia”, che fa pensare a un gruppo rock).
Ma, si sa, alle privatizzazioni non si comanda, e soprattutto non si domanda. Specialmente se i beneficiari elargiscono qualche aiutino per le campagne elettorali dei partiti che, appena vanno a governo, si sdebitano aumentando le tariffe autostradali senza badare troppo a dettagli tipo gl’investimenti previsti dal contratto (peraltro coperto da segreto di Stato). 
E se, dal tavolo dei loro banchetti, ogni tanto cade qualche boccone dritto in gola ai giornaloni e alle tv sotto forma di pubblicità.
Questo forse spiega perché, dopo il crollo epocale di Genova, stampa e tg non riuscivano proprio a ricordare il nome del concessionario che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del Ponte Morandi e che, mentre si cercavano cadaveri, feriti e superstiti fra le macerie, favoleggiava di “costanti monitoraggi”.
Molto meglio puntare il dito contro il fulmine, la pioggia, il traffico, la fatalità, il governo che è lì da due mesi, i 5Stelle che avevano osato fidarsi dei comunicati di Autostrade sulla granitica resistenza del ponte e opporsi al progetto faraonico della “Gronda” (che costerebbe, se va bene, 5 o 6 miliardi e soprattutto non sostituirebbe il Ponte Morandi, fermo restando che l’alternativa a un ponte pericolante è un ponte solido, non una grande opera inutilmente cara).
Ora sono già in lutto alla sola idea che le autostrade dello Stato ritornino allo Stato. Anche perché poi, a Natale, i maglioni tocca comprarli.
Marco Travaglio FQ 17 agosto


United Leccons of Benetton. - Marco Travaglio

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Impreparati come siamo in fatto di modernità, di progresso, ma soprattutto di Stato di diritto, ci eravamo fatti l’idea che il crollo di un ponte notoriamente pericolante fosse responsabilità anzitutto di chi (la società Atlantia della famiglia Benetton) l’aveva in gestione e si faceva pagare profumatamente per tenerlo in piedi ma non aveva fatto nulla; e poi anche di chi (i governi di destra e di sinistra degli ultimi 19 anni) si faceva pagare profumatamente per controllare che ciò avvenisse ma non faceva nulla; e che, dopo 40 morti e rotti, il governo avesse il diritto-dovere di revocare il contratto al concessionario inadempiente.
Ma ieri per fortuna abbiamo letto il Giornalone Unico e scoperto che sbagliavamo di grosso. Attribuire qualsivoglia colpa per il ponte crollato a chi doveva tenerlo in piedi e controllare che fosse tenuto in piedi è sintomo di gravissime patologie: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “No a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale).
Prendiamo nota e ci scusiamo con i Benetton e i loro compari politici se li abbiamo offesi anche solo nominandoli invano o pubblicando loro foto senz’attendere che, fra una quindicina d’anni, la Cassazione si pronunci sui loro eventuali reati. D’ora in avanti, ammaestrati da tanta sapienza giuridica che trasuda da giornaloni, tg e talk show, ci regoleremo di conseguenza nella vita di tutti i giorni.
E invitiamo caldamente i nostri lettori e gli altri italiani contagiati dai suddetti virus, a fare altrettanto. Se, puta caso, acquistate o affittate un appartamento e, dopo qualche settimana sull’intonaco ancora fresco del soffitto compare una simpatica crepa, seguita magari dal gaio precipitare di calcinacci sulla vostra testa, evitate di farvi cogliere dalla classica cultura del sospetto, tipica del peggiore populismo grillino, e di protestare col proprietario o l’amministratore del condominio perché intervenga a riparare. Vi basterà la sua parola rassicurante sul fatto che nelle abitazioni moderne la crepa arreda e non c’è da preoccuparsi, perché la casa è “sotto costante monitoraggio e non presenta alcun pericolo di crollo”.
Nel malaugurato caso in cui la casa dovesse sbriciolarsi e voi doveste sopravvivere, astenetevi dalla classica tentazione giustizialista di rinfacciare a chi di dovere i vostri allarmi inascoltati; o, peggio, di attribuirgli qualsivoglia colpa, cedendo al peggior populismo; o – Dio non voglia: sarebbe giustizia sommaria indegna di uno Stato di diritto – di chiedergli i danni prima che un Tribunale, una Corte d’appello e la Cassazione abbiano confermato irrevocabilmente la sua penale responsabilità.
C’è anche il caso che alcune circostanze infauste (tipo i funerali dei vostri cari o le fratture multiple che vi paralizzano in un letto d’ospedale) vi inducano a cedere all’emotività al punto di pretendere almeno la sostituzione dell’amministratore inadempiente, specie se doveste scoprire che costui (come l’Ad di Atlantia-Autostrade, Castellucci, sotto processo per la strage di Avellino) era già imputato per omicidio colposo plurimo per disastri precedenti: ecco, resistete a questi barbari istinti di giustizia sommaria. E, se vi chiedono ancora l’affitto della casa crollata, tenete a bada le mani e continuate a pagarlo, per non precipitare nel gorgo della cultura anti-impresa che dice “No a tutto” e porta dritto al socialismo reale.
Ci siamo fin qui barcamenati nella metafora della casa per non ricadere nel tragico errore di citare i Benetton e i governi degli ultimi 20 anni, cioè i concessionari e i concessori di Autostrade che credevamo responsabili politico-amministrativi del Ponte Morandi. Ora sappiamo dai giornaloni che essi non solo non vanno incolpati, ma neppure nominati.
Al massimo – ci insegna Ezio Mauro – si può parlare di “una delle più grandi società autostradali private del mondo” che, “in attesa che la magistratura faccia luce”, non può diventare “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”. E guai a dire, come fa Di Maio, “a me Benetton non pagava campagne elettorali”: questo non l’avrebbe detto “nemmeno Perón”, forse perché a Perón i Benetton non pagavano le campagne elettorali, mentre Autostrade le pagò al centrosinistra e al centrodestra almeno nel 2008 (vedi Report).
E guai soprattutto ad annunciare, come fa Conte, “la sospensione della concessione” senza aspettare “i tempi della giustizia”. Chi pensa che ai governi spetti accertare le responsabilità politico-amministrative e ai giudici quelle penali, perché un conto è revocare un contratto e un altro e mettere uno in galera, è un lurido “populista” e “pifferaio della decrescita”.
Se c’è di mezzo Atlantia, che sponsorizza La Repubblica delle Idee e nel cui Cda siede la vice presidente del gruppo Repubblica Monica Mondardini, la responsabilità politico-amministrativa non esiste più: le concessioni si danno subito, anche in una notte, pure senza gara, ma per revocarle bisogna aspettare la Cassazione. Anzi, nemmeno quella, perché la revoca sarebbe - ammonisce Daniele Manca del Corriere - “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”: uno Stato forte viceversa lascia le sue autostrade in mani private, e che mani.
Nemmeno Manca fa nomi, anche se sembra sul punto di farli: quando scrive “chi quelle società guida e controlla…”, par di vederlo mordersi la lingua e torturarsi le dita per impedire loro di scrivere “Benetton”. Poi, per non pensarci più, si scaglia contro i veri colpevoli: “Chi ha alimentato e salvaguardato l’interesse di minoranze a scapito del benessere del Paese, ostacolando nuove opere” (la famigerata “Gronda”, che avrebbe mantenuto in funzione il Ponte Morandi, e ci costerebbe 5-6 miliardi).
Sistemati i veri colpevoli, restano da accertare le vere vittime: provvede Giovanni Orsina su La Stampa, lacrimando inconsolabile per i poveri Benetton (mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”. Roba da “paesi barbari”, soprattutto dinanzi “a una questione complessa come il crollo del Ponte Morandi”.
Talmente complessa che ora Atlantia è pronta a ricostruirlo “in cinque mesi”. Un solo giornalista – il sempre spiritoso Luca Bottura - fa nomi e cognomi, con grave sprezzo del pericolo, su Repubblica: “Bagnai”, “Toninelli”, “i grillini” che “serbano nell’armadio lo scheletro della Gronda che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi” (mai fatta per colpa di chi non ha mai governato) e dicono “No tutto”, perfino al balsamico Tav “tra Torino e Lione” (che non c’entra nulla e infatti Bottura lo cita ma non si “arrischia” a citarlo “per paura di finire nel mirino” dei No Tav padroni di tutti i giornali, compreso il suo), “Salvini”, “Grillo”, la “Casaleggio”, “l’ansia vendicativa del governo… che sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime”, e “soprattutto Di Maio” perché osa attaccare “Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene, ma devono dirlo i giudici)”.
Ecco: per incolpare chi non c’entra nulla basta il Tribunale di Repubblica; ma per incolpare chi c’entra bisogna attendere la Cassazione.
Questi eterni Tartuffe italioti, usi a negare anche l’evidenza, Indro Montanelli li ritraeva con un apologo: “Un gentiluomo austriaco, roso dal sospetto che la moglie lo tradisse, la seguì di nascosto e la vide entrare in un albergo. Salì dietro di lei sino alla camera e dal buco della serratura la osservò spogliarsi e coricarsi insieme a un giovanotto. Ma, rimasto al buio perché i due a questo punto spensero la luce, gemette a bassa voce: ‘Non riuscirò dunque mai a liberarmi da questa tormentosa incertezza?’[...]
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Perché le convenzioni autostradali sono segrete. - Maurizio Caprino

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Qual è la legge che impone allo Stato di tenere segrete le convenzioni con cui assegna le concessioni autostradali? Nessuna: la segretezza è solo una prassi. 
Iniziata già ai tempi in cui gli accordi con i gestori li firmava l’Anas per conto dello Stato e gelosamente conservata quando l’ufficio competente è stato incorporato nel ministero delle Infrastrutture. Dunque, nulla poté nemmeno la furia mostrata nel 2006 da Antonio Di Pietro nei panni di ministro delle Infrastrutture nel fermare la prima operazione Autostrade-Abertis attaccando i privilegi dei concessionari.

All’epoca, Di Pietro creò l’Ivca (l’Ispettorato di vigilanza concessioni autostradali, poi diventato struttura Svca dopo il passaggio al ministero), che fece apparire come un ufficio di superispettori. Ma nell’estate 2013, di fronte alla morte di 40 persone sul bus precipitato da un viadotto dell’A16 presso Avellino, non fece una piega.

Per tutti questi anni qualcuno – anche all’interno del ministero - si è reso conto che rendere pubbliche le convenzioni sarebbe stato opportuno. Ma la risposta era che occorreva tutelare la riservatezza del percorso seguito nella procedura che ha portato ad assegnare le concessioni.
Una motivazione probabilmente in contrasto anche con il principio stabilito dalla Ue, secondo il quale le concessioni vanno assegnate con una gara pubblica, per tutelare la concorrenza. La quale normalmente richiede trasparenza.

Ma tant’è. Né si poteva pretendere la desecretazione in base a una norma specifica. 
Anzi. 
Giuridicamente le convenzioni hanno natura di contratti di diritto privato, tra due parti libere di accordarsi tra loro, tenute a registrare l’accordo dal notaio ma non a renderlo pubblico. Per la legge, poco importa se una di esse è lo Stato e l’altra una società importante.
Le clausole non certo penalizzanti per i concessionari forse spiegano perché si è lasciato che non ci fosse un obbligo di pubblicazione. Ma questa è un’altra storia.


PS.
A luglio del 2016 Di Pietro divenne Presidente della società autostradale Pedemontana.

venerdì 17 agosto 2018

Alcuni degli incredibili acquedotti navigabili.

Gli acquedotti navigabili (a volte chiamati ponti d'acqua) sono strutture di ponti che trasportano canali navigabili su altri fiumi, valli, ferrovie o strade. Si distinguono principalmente per le loro dimensioni, trasportando una sezione più ampia di acqua rispetto alla maggior parte degli acquedotti di approvvigionamento idrico. Sebbene gli acquedotti romani fossero a volte utilizzati per il trasporto, gli acquedotti non erano generalmente utilizzati fino al 17 ° secolo quando i problemi dei canali a livello sommitale erano stati risolti e i moderni sistemi di canali iniziarono ad apparire.
1. Acquedotto di Pontcysyllte, Regno Unito. L'acquedotto di Pontcysyllte è un acquedotto navigabile che trasporta il Canale Llangollen sulla valle del fiume Dee nel distretto di Wrexham nel nord-est del Galles. Completato nel 1805, è l'acquedotto più lungo e più alto della Gran Bretagna, un edificio classificato di I grado e un sito del patrimonio mondiale. Costruito da Thomas Telford e William Jessop, è 307 m. (1,007 piedi) di lunghezza, 3,4 m. (11 piedi) di larghezza e 1,6 m. (5,25 piedi) profondità.
2. Acquedotto di Håverud, Svezia. 
L'Acquedotto di Håverud è considerato uno dei più grandi successi ingegneristici del suo tempo. A metà degli anni Sessanta divenne chiaro che questa sezione del Canale di Dalsland non poteva essere completata usando una serratura tradizionale a causa delle condizioni del suolo locale. Di conseguenza fu costruito uno scivolo di metallo lungo trenta metri che attraversava la cascata di Dalsland.
3. Magdeburg Water Bridge, Germania. 
I tedeschi impiegarono più di 80 anni per costruire questo ponte di 918 m (3.000 piedi) sul fiume Elba vicino alla città di Magdeburgo. Gli ingegneri del canale avevano concepito per la prima volta di unire i due corsi d'acqua già nel 1919, e nel 1938 erano presenti le ancore di sollevamento e di ponti di Rothensee, ma la costruzione fu rinviata durante la seconda guerra mondiale. Dopo che la guerra fredda ha diviso la Germania, il progetto è stato sospeso indefinitamente dal governo della Germania Est.

Con la riunificazione della Germania e l'istituzione di importanti rotte di trasporto dell'acqua, il Ponte sull'Acqua è diventato di nuovo una priorità. I lavori sono iniziati nel 1997, con la costruzione che impiega sei anni e costa € 500 milioni. Il ponte sull'acqua collega ora la rete portuale di Berlino con i porti lungo il fiume Reno. La struttura della depressione dell'acquedotto incorpora 24.000 tonnellate di acciaio e 68.000 metri cubi di calcestruzzo. Il ponte sull'acqua di Magdeburgo è stato inaugurato nel 2003.
4. Acquedotto Ringvaart Haarlemmermeer, Paesi Bassi. 
Vicino a Roelofarendsveen (una città nei Paesi Bassi occidentali), il canale Ringvaart attraversa l'autostrada A4 per mezzo di un acquedotto. Fu costruito nel 1961, rendendolo il più antico acquedotto dei Paesi Bassi. Nel 2006, sono state completate due nuove porzioni: sul lato est per attraversare nuove corsie orientate verso nord per l'autostrada allargata; e sul lato ovest per la nuova ferrovia ad alta velocità HSL-Zuid. Il nuovo acquedotto è lungo 1,8 chilometri (1,1 miglia).
5. Acquedotto di Pont du Sart, Belgio. 
L'acquedotto Pont du Sart è un acquedotto navigabile che trasporta il Centrumkanaal (canale nel Belgio occidentale) all'incrocio tra la strada N55 e N535 vicino alla città di Houdeng-Goegnies. Questo edificio in cemento è lungo 498 metri e lungo 46 metri ( 150 piedi) di larghezza. L'acquedotto di Pont du Sart pesa 65.000 tonnellate ed è sostenuto da 28 colonne di cemento, tre metri (10 piedi) di diametro.
6. Acquedotto Veluwemeer, Paesi Bassi. 
Veluwemeer è acquedotto sulla strada N302 nei pressi della cittadina di Harderwijk nei Paesi Bassi orientali. Si trova sotto una piccola parte del lago Veluwemeer e allo stesso tempo collega la terraferma Paesi Bassi a Flevoland (la più grande isola artificiale del mondo).
7. Acquedotto di Briare, Francia. 
L'acquedotto di Briare porta il Canale d'acqua lungo la Loira sul fiume Loira nel suo viaggio verso la Senna in Francia. Sostituì un passaggio a livello del fiume dal canale per incontrare il canale di Briare che era pericoloso in tempi di inondazione. Tra il 1896 e il 2003 è stato il più lungo acquedotto navigabile del mondo fino all'apertura del Magdeburg Water Bridge. L'acquedotto è costruito su quattordici piloni. Questi pilastri supportano una sola trave in acciaio a supporto di un canale in acciaio che contiene più di 13.000 tonnellate di acqua, 2,2 metri (7 piedi) di profondità e 6 metri (20 piedi) di larghezza che consentono alle imbarcazioni con un pescaggio di 1,8 m di attraversare. La larghezza dell'acquedotto, le alzaie incluse, è di 11,5 metri (38 piedi) e la sua lunghezza è di 662,7 metri (2.175 piedi).

8.Naviduct Krabbersgat, Paesi Bassi. 
Il Krabbersgat- lock in Olanda è il primo "Naviduct" nel mondo. Questo straordinario mega progetto, costituito da un blocco navale con un sottopassaggio per il traffico stradale, è stato concepito per alleviare i colli di bottiglia per il traffico di veicoli e di mare. La struttura massiccia è lunga 125 metri (410 piedi) e larga 25 metri (82 piedi). Sono stati rimossi 1.450 m3 di terra per accogliere 20.000 m3 di calcestruzzo. Questo naviduct in Enkhuizen è stato aperto nel 2003.

9.Edstone Aqueduct, Regno Unito. 
L'acquedotto di Edstone è uno dei tre acquedotti su una lunghezza di 6 miglia (6 km) del canale Stratford-upon-Avon nel Warwickshire. Tutti sono insoliti in quanto le alzaie si trovano al livello del fondo del canale. A 475 piedi (145 m), Edstone è l'acquedotto più lungo d'Inghilterra. Attraversa una strada secondaria, la ferrovia Birmingham e North Warwickshire e anche il tracciato dell'ex Alcester Railway.
10.Apredotto Langdeel, Paesi Bassi. 
L'acquedotto Langdeel si trova sull'autostrada N31, vicino alla città di Leeuwarden, nel nord dei Paesi Bassi. L'acquedotto porta il canale omonimo. La costruzione iniziò nel 2004 e nel 2007 l'acquedotto fu completato e aperto al traffico. L'acquedotto era profondo 2,78 metri, largo 25 metri (82 piedi) e lungo 110 metri (360 piedi). L'acquedotto della scatola di cemento si trova sulle tre file di pilastri di cemento.
11.Ee Acquedotto, Paesi Bassi. 
L'acquedotto Ee si trova nella provincia olandese della Frisia, sulla strada provinciale N928. Questo acquedotto è stato aperto al traffico nel 2007.
(Tradotto con Google traduttore)

Caso Maugeri, via libera al sequestro di pensione e vitalizi di Formigoni: 5 milioni di euro.

Caso Maugeri, via libera al sequestro di pensione e vitalizi di Formigoni: 5 milioni di euro

Il giudice della Corte dei Conti di Milano: "Gravissimo storno di denari pubblici a fini privati".

Per il "gravissimo sistema illecito di storno di denari pubblici a fini privati" che ha trovato "ampi riscontri, oltre ogni ragionevole dubbio" nelle indagini sul caso Maugeri, è stato convalidato il sequestro disposto dalla procura della Corte dei Conti di 5 milioni di euro (compresi vitalizi, pensione, conti correnti e immobili) all'ex governatore lombardo Roberto Formigoni, di 4 milioni a Umberto Maugeri, ex presidente della Fondazione, di 4 milioni all'ex direttore finanziario Costantino Passerino e di 10 milioni a testa al faccendiere Pierangelo Daccò e all'ex assessore regionale Antonio Simone.

A dare l'ok è stato il giudice Vito Tenore con un provvedimento depositato la vigilia di Ferragosto e nel quale si accoglie la ricostruzione dei pm Antonino Grasso e Alessandro Napoli, guidati da Salvatore Pilato, che hanno contestato ai principali protagonisti della vicenda giudiziaria un danno erariale di circa 60 milioni di euro e, di conseguenza, hanno firmato provvedimenti cautelari bloccando le quote del presunto profitto realizzate da ciascuno per un totale di 30 milioni.

In sede penale per la stessa vicenda che riguarda le tangenti nella sanità, Formigoni è già stato condannato a sei anni in primo grado, il prossimo 19 settembre è attesa la sentenza d'Appello. Quando nel mese di giugno uscì la notizia del sequestro preventivo, l'ex governatore, interpellato dai giornalisti, definì la notizia una 'fake news': "Nulla posseggo - disse all'epoca - tutto quanto possedevo (poco in realtà) mi è stato già sequestrato da anni, per ordine della magistratura".

Come si legge nel provvedimento di convalida del sequestro conservativo milionario, si legge che c'è un "numero poderoso di riscontri probatori" che testimoniano un "danno erariale" dato dai "plurimi fatti corruttivi posti in essere dal 2006 al 2011 dai vertici della fondazione Maugeri (...) nei confronti di Formigoni", tramite Daccò e Simone, "per ottenere, con interferenze nel procedimento decisorio, più rilevanti finanziamenti pubblici regionali (rispetto a quelli dovuti per servizi innegabilmente resi dalla clinica Maugeri come riconosciuto anche in sede penale) e sviando inoltre poderose somme di denari pubblici - prosegue il giudice in un passaggio dell'atto datato 14 agosto - destinati ai fini di rilevante e basilare interesse sociale (cure mediche)".

Il giudice, che sposa in pieno la ricostruzione delle sentenze penali, ha ribadito che Formigoni, indicato come "pubblico ufficiale corrotto", avrebbe percepito "rilevantissime utilità, per oltre 5 milioni di euro", in viaggi, vacanze, ristoranti, alberghi, l'uso della villa in Costa Smeralda e così via, in cambio di interventi e atti amministrativi regionali "ispirati a una logica di evidente favoritismo" nei confronti della fondazione con sede a Pavia. Vicende queste che "non sono state plausibilmente smentite dal Formigoni fornendo spiegazioni alternative (...) ai fatti, specie con riguardo alle enormi ed anomale utilità ricevute".


http://milano.repubblica.it/cronaca/2018/08/16/news/maugeri_corte_conti_sequestro_5_milioni_formigoni_vitalizi_e_pensione_convalida-204256191/

La pietra di Ingà e la distruzione di Atlantide



La “Pedra do Ingá” è un monumento archeologico nello stato nordorientale di Paraíba, in Brasile, posto nel mezzo del fiume Ingá. Si tratta di una composizione di pietre di basalto che formano una superficie di circa 250 m² completamente ricoperta di simboli non ancora decifrati. La maggior parte dei glifi sembrano rappresentare animali, frutta, esseri umani, costellazioni e galassie, mentre altri simboli sono del tutto irriconoscibili. Chi ha inciso la Pietra di Ingá? Perchè? Ma, soprattutto, cosa rappresentano quei simboli?

È un lungo masso orizzontale ricoperto di misteriosi simboli e notevoli formazioni geometriche.

Gli indigeni Tupi che vivevano in questa zona la chiamavano “Itacoatiara”, che nella loro lingua significava semplicemente “la pietra”.

È lunga 26 metri e alta 4 e si trova nel bel mezzo del fiume Ingá, nei pressi dell’omonima cittadina a circa 96 km da João Pessoa, nello stato di Paraíba, a nordest del Brasile.

Il monolite di Ingá è completamente inciso con simboli e figure in bassorilievo che sembrano rappresentare animali, frutta, esseri umani e costellazioni come Orione e galassie come la Via Lattea. Altri simboli, invece, sono del tutto irriconoscibili.

Chi ha scolpito questo antico monolite ? Cosa voleva descrivere o significare? E’ possibile che i glifi incisi sulla roccia rappresentano un’antica lingua terrestre sconosciuta? Nonostante l’interessamento degli archeologi, ad oggi la Pietra di Ingá rimane ancora un enigma. Sono state avanzate molte teorie sull’origine e il significato dei misteriosi simboli, ma finora nessuno studioso è stato in grado di risolvere il mistero di Ingá.

Alcuni studiosi credono che si tratta di antichi simboli sacri scolpiti da antiche culture sudamericane; altri hanno ipotizzato che rappresenti la scrittura utilizzata da una antica civiltà sconosciuta che ha abitato la regione; altri, infine, spingendosi in ipotesi più eretiche, propongono addirittura che si tratti di un messaggio in codice lasciato da una civiltà extraterrestre.

In totale, la roccia conta circa 450 glifi. La questione è capire se quanto inciso sul monolite sia un’antica lingua. La maggior parte delle figure, infatti, sembra a prima vista astratta, ma i ricercatori ritengono che la Pietra di Ingá nasconda un antico messaggio cifrato. Il problema principale è che mancano paralleli su cui operare un confronto ed eventualmente tentare una traduzione.



Il ricercatore italo-brasiliano Gabriele D’Annunzio Baraldi, grande studioso di lingue antiche che ha trascorso buona parte della sua vita allo studio della Pietra di Ingá, sostiene che i glifi di Ingá sono simili in forma e dimensione a quelli delle culture mesopotamiche primordiali.

Per di più, a suo parere, la lingua Tupi – Guarani, parlata da molti gruppi etnici sudamericani, sembra avere una lontana origine comune con la lingua ittita, antico popolo indoeuropeo fiorito in Anatolia 3800 anni fa.

Come è possibile che due culture tanto lontane possano aver condiviso la comune origine del linguaggio e della scrittura? Baraldi trova in questa comunanza una prova dell’esistenza di una grande civiltà globale esistita più di 10 mila anni, nota più comunemente con il nome di Atlantide.

D’annunzio Baraldi, ricercatore indipendente e esploratore, è infatti considerato uno degli ultimi grandi atlantologi. Nella sua visione, alcuni gruppi umani originari del mitico continente sarebbero sopravvissuti alla catastrofico cataclisma avvenuto nel 9500 a.C., dirigendosi verso est, in Europa, e verso sud-ovest, in Brasile. Baraldi sostiene che i glifi della Pietra di Ingá raccontino proprio della grande catastrofe globale che causo la distruzione della civiltà atlantidea.

Se la tesi di Baraldi è corretta, significa che la Pietra di Ingá rappresenta un messaggio che gli antichi superstiti di Atlantide vollero lasciare ai posteri, come memoria del passato e come monito per il futuro. E ciò significa che non possono essere stati i nativi americani ad incidere i glifi sul monolite. 

La scrittura dell’Isola di Pasqua.
A sostegno dell’ipotesi atlantidea ci sarebbe la somiglianza dei glifi della Pietra di Ingá con la scrittura utilizzata dagli antichi abitanti della remota Isola di Pasqua, il Rongorongo. L’Isola di Pasqua (in lingua nativa Rapa Nui, letteralmente “grande isola/roccia”) si trova nell’Oceano Pacifico meridionale.

Si tratta di una scrittura con andamento bustrofedico e che, al momento, è stata solo parzialmente decifrata. L’isola di Pasqua è l’unica nell’area del Sud Pacifico ad aver sviluppato nella propria storia una scrittura propria. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare non si tratta di una scrittura che utilizza geroglifici. La scrittura rongorongo non fu mai decifrata completamente e per molti decenni rimase incompresa.

Fu quindi solo grazie agli studi condotti dal tedesco Thomas Barthel e alla scoperta di una tavoletta che riportava un calendario lunare (oggi conservata nell’archivio dei SS Cuori a Grottaferrata nei pressi di Roma), la cosiddetta tavoletta Mamari, che si poté parzialmente decifrare alcuni simboli. Al momento (2009) in tutto il mondo esistono soltanto 26 tavolette, in buone condizioni ed autentiche al di là di ogni dubbio, scritte in rongorongo.



Alcuni intravedono una forte somiglianza tra l’alfabeto rongorongo e i simboli della Pietra di Ingá. È possibile che questa somiglianza avvalori l’ipotesi che gli abitanti primordiali del Brasile, della Mesopotamia e dell’Isola di Rapa Nui discendessero tutti da un’unica cultura globale spazzata via da un cataclisma?

La Pietra di Ingá rimane uno dei reperti archeologici più importanti degli ultimi tempi e il suo studio, e la sua eventuale traduzione, potrebbero svelare un passato molto diverso del nostro pianeta, raccontandoci di un tempo in cui i nostri antenati vivevano in un grande villaggio globale chiamato Atlantide.



https://camminanelsole.com/la-pietra-di-inga-e-la-distruzione-di-atlantide/