giovedì 7 marzo 2019

Panorama: “Casa Renzi nel vortice degli affari”. - Antonio Rossitto

Quarant’anni di vorticosa carriera imprenditoriale. Quindici aziende avviate: amministrate, cessate, liquidate o fallite. E almeno altre tre che, per i magistrati fiorentini, venivano controllate indirettamente. Un fittissimo reticolo di società, decimate nel tempo da un’incessante morìa imprenditoriale. Sullo sfondo, qualche briga giudiziaria. Fino al rovinoso inciampo. Diciotto febbraio 2018: Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo, finiscono agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta e false fatture. Il gip di Firenze, Angela Fantechi, li ritiene il perno di un sistema di fatture inesistenti e operazioni gonfiate riconducibili alla Marmodiv: un «giro» da 725 mila euro. Anche le casse di Delivery ed Europe service, poi fallite, sarebbero state svuotate. Le cooperative avrebbero fornito manodopera in saldo, senza oneri previdenziali ed erariali, alla Eventi 6, società di famiglia sopravvissuta alla falcidia camerale. Buona sorte che accompagna anche una sua controllata, nata a giugno 2017: la Vip, Very important products.
La ditta, che commercia e promuove cibi e bevande, è amministrata da Matilde Renzi, figlia di Tiziano: coinvolta nelle attività di famiglia assieme al fratello Samuele e la sorella Benedetta. A differenza invece di Matteo, che ha lavorato per il padre solo fino al suo esordio in politica, nel 2004, quando viene eletto presidente della provincia di Firenze. Ma la sua ascesa politica ha portato comunque fortuna ai conti della Eventi 6. Nei suoi due anni al governo, dal 2014 al 2016, il fatturato cresce del 265 per cento. Mentre i ricavi passano da 698 a 114.765 euro. Speculare sobbalzo hanno i redditi di Babbo Tiziano: a fine 2013 dichiara «zero carbonella». L’anno dopo, con il figliolo a Palazzo Chigi, il suo reddito lievita a 51.901 euro.
Partiamo dall’inizio, però. Dai registri delle imprese si scopre che le avventure aziendali di Tiziano Renzi cominciano quarant’anni fa, il 9 gennaio del 1978, nella natia Rignano sull’Arno, paesello a una ventina di chilometri dalla città dei Medici. Il padre dell’ex presidente del Consiglio, 26 anni, fonda la sua ditta individuale: Renzi Tiziano. L’attività è: agenti di prodotti farmaceutici e di erboristeria per uso medico. Dieci anni dopo, a giugno del 1985, termina la sua corsa. Ma a febbraio 1998 ritorna in pista un’altra Renzi Tiziano: una partita Iva nuova di zecca per «attività di rappresentanza».
Seguono 24 anni di onorata fatturazione, fino a gennaio del 2012. Pure stavolta si tratta di un arresto temporaneo. A luglio del 2013 l’omonima ditta viene rifondata. Una settimana fa però la società è nuovamente cancellata. La visura camerale dettaglia: 20 febbraio 2019, due giorni dopo gli arresti ordinati dalla procura di Firenze. Mentre una settimana prima, il 13 febbraio 2019, veniva registrata la chiusura di Sfera, l’ennesima srl di famiglia. Eppure era nata poco più di due anni fa: a ottobre del 2016. I soci erano i tre figli: Samuele, pediatra emigrato in Canada, aveva il 50 per cento delle quote. Il resto era diviso tra le due sorelle: Matilde e Benedetta. Oggetto sociale: organizzazione e gestione di centri di fisioterapia e riabilitazione. Per i Renzi, un’attività abbastanza inusuale. A meno che lo scopo non fosse spendere le competenze mediche del figlio, già azionista di maggioranza. Il capitale era il minimo indispensabile: 10 mila euro. Ma i denari effettivamente versati sono stati solo quelli esiziali: 2.500 euro. Una prassi che può rivelare scarsa liquidità o breve vita aziendale. E che ricorre spesso nella galassia dei Renzi. Comunque sia, Sfera è solo l’ultima trapassata. L’elenco delle imprese nell’orbita renziana, sorte e poi sepolte, è fitto.
Torniamo a quei meravigliosi anni Ottanta. A luglio 1984, nella solita Rignano, viene costituita la Speedy. Capitale: 10.400 euro. Alla società si affianca la Speedy promozioni, con sede a Roma. L’amministratore unico, fino al maggio 2002, è Laura Bovoli. Le due ditte si occupano soprattutto della vendita per strada della Nazione, il quotidiano fiorentino. Per la distribuzione vengono assoldati ragazzi in cerca di qualche extra. Niente contratti né contributi. Almeno a sentire l’Inps. Che, come rivelato da Panorama, il 25 maggio 1998, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil, altra società di famiglia nata intanto nel 1993, per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni.
Il 5 febbraio 1999 la Speedy, «rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi», e la Chil, «nella persona dell’amministratore Laura Bovoli», ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire per le spese processuali. Sentenza confermata dalla Cassazione il 28 settembre 2004: ricorso è privo di fondamento. Pochi mesi dopo, il 3 febbraio 2005, la Speedy finisce al macero. I conti sono asfittici: zero fatturato e una perdita di 4.428 euro.
In quegli anni l’azienda di famiglia più importante è la Chil. Il ramo è lo stesso: marketing e distribuzione di giornali. Agli inizi del 2000, comincia a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Tiziano è amministratore unico dal febbraio 1999. Carica che mantiene per dieci anni. Nella società lavora anche il figlio Matteo, futuro premier. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: «Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia».
E qui bisogna aprire l’ennesima, e poco edificante, parentesi. L’ex presidente del Consiglio rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi più tardi, il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil. Ma comunque Renzi avrebbe già messo da parte, alle spalle dello scassatissimo sistema previdenziale italiano, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica.
Torniamo però agli affari di famiglia. Anche la Chil, alla fine, non resiste alle intemperie finanziarie. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne cede la parte più profittevole, per soli 3.878 euro, alla sua Eventi 6, nata ad agosto 2007: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passa a Gianfranco Massone: suo figlio Mariano, vicepresidente della Delivery, è stato arrestato una settimana fa assieme ai Renzi. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi fallisce. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. Renzi senior, a settembre 2014, viene indagato dalla Procura di Genova per bancarotta fraudolenta. Un’indagine che, adesso, sembra il prologo di quella fiorentina. Ma a luglio 2016 l’inchiesta è archiviata. Babbo Renzi non ha avuto nessuna responsabilità nel crac.
Alle sue spalle, intanto, le chiusure aziendali si affastellano. Nel lontano 1988 Tiziano apre con l’amico Andrea Bacci, l’immobiliare Raska. Ma la società viene chiusa già nel 1993, cinque anni dopo. Ancor più fuggevole l’esistenza di Uno comunicazione, nata nel 2002 per l’ideazione di campagne pubblicitarie. Babbo Renzi ha il 43,50 delle quote. Capitale minimo: 10 mila euro. Euro versati: solo tremila. Tre anni dopo, l’impresa è già defunta.
La girandola non si ferma. Il 5 febbraio 2003, sempre a Rignano sull’Arno, nasce una la Arturo. Renzi senior ha il 90 delle quote. Il resto è in mano alla sorella, Tiziana. Una srl dall’oggetto apparentemente stravagante: produzione di pane e prodotti di panetteria freschi. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come rivelato da Panorama nel 2014 e raccontato dalle Iene un mese fa, la società il 20 settembre 2011 viene condannata dal Tribunale di Genova a pagare quasi 90 mila euro a Evans Omoigui, un vecchio dipendente, per il suo licenziamento illegittimo nell’aprile 2007. Quei soldi, però, l’ex strillone non li vedrà mai. La vita imprenditoriale della Arturo è infatti breve. Alla fine del 2007, il fatturato è di 954 mila euro. Ma le perdite raggiungono i 124 mila euro. Così il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore. Smessi i panni di socio, è sempre lui: Tiziano Renzi. Che nel mentre, a maggio 2004 compra il 60 per cento della Mail service, con sede ad Alessandria dal solito Gianfranco Massone, già coinvolto nella vendita della Chil post. Come spiegato su La Verità da Giacomo Amadori – che da anni racconta con scoop e retroscena le rocambolesche vicissitudini di Casa Renzi – 28 mesi dopo, nel settembre 2006, Renzi senior vende la sua quota per 120 mila euro all’immobiliare alessandrina A.M.S, destinata a fallire nel 2013. La stesso epilogo avrà Mail service, travolta dai debiti.
Vite brevi e intense, quelle delle società renziane. Sahara, di cui Tiziano ha il 33 per cento, nasce a settembre 2003, sempre con tremila euro di capitale versati su 10 mila. E tira le cuoia a febbraio 2005. Esistenza ancor più fugace ha Bagheera: agenzia di distribuzione di libri, giornali e riviste. Vede la luce ad agosto 2007 nella campagna di Reggello: capitale di 10 mila euro, versati solo 2.500. Tiziano Renzi ha il 90 per cento delle quote. Poco più di un anno dopo è però già nel cimitero delle imprese. A dicembre 2008 viene chiusa. L’ultimo bilancio, a fine 2007, annota: fatturato di 126.598 euro, perdite per 9.915 euro.
Sempre in quel di Reggello, a ottobre 2014 nasce Party: Tiziano Renzi ha il 40 per cento. Mentre amministratore unico è Bovoli. Il resto è di Nikila Invest Srl, amministrata da Ilaria Niccolai, moglie dell’imprenditore Luigi D’Agostino, noto come il re degli outlet. Come The Mall, proprio a Reggello, poco distante da casa Renzi.
D’Agostino, a giugno 2018, viene però arrestato per un giro di fatturazioni gonfiate. La stessa accusa che ha portato ai domiciliari i Renzi. E nell’inchiesta fiorentina appare anche la Party: avrebbe emesso, a giugno 2015, due fatture false per quasi 200 mila euro. Comunque sia, la srl finisce in liquidazione già a febbraio 2016: dopo poco più di un anno di attività. E Bovoli lascia la carica di amministratore unico.
Sette mesi più tardi, a ottobre 2016, è creata Sfera. I soci sono i tre figli di Renzi. Doveva occuparsi di strutture per la fisioterapia. Ma due settimane fa la società è stata definitivamente cancellata. E insomma, un trapasso dopo l’altro, s’arriva mestamente a oggi. L’ultima nata, a giugno del 2017, è Vip, roboante acronimo di un più giocoso «Very important products». Amministratore unico è Benedetta Renzi. Azionista di minoranza, con il 3 per cento, è Angelo Di Cesare, ex manager del Messaggero. La società è invece controllata al 97 per cento dalla Eventi 6, finita nell’inchiesta della Procura di Firenze.
L’ultimo bilancio dell’azienda dei Renzi è stato approvato il 23 marzo 2018, a Rignano sull’Arno: 6,2 milioni di ricavi e 135 mila euro di utili. Anche se sull’impresa pesano 2,8 milioni di debiti (di cui 1,1 milioni da rimborsare entro il 2018): quasi raddoppiati rispetto a due anni prima, quando si contenevano a 1,5 milioni. Ma tra le considerazioni finali della nota integrativa al bilancio si legge: «La società ha resistito grazie agli investimenti degli anni precedenti, nonostante il reiterato attacco mediatico verso alcuni membri della famiglia, che si è esteso nel disegno premeditato di minare la credibilità dell’azienda, sebbene la stessa operi sul mercato da quasi 35 anni ed abbia un ottimo rating bancario». Firmato: il presidente del consiglio d’amministrazione, signora Laura Bovoli.
Eppure, a leggere gli ultimi bilanci della sua impresa, sembrerebbe che l’esposizione mediatica e politica non sia stata devastante. Tutt’altro. A fine 2013 fatturava meno di 2 milioni di euro, segnando un utile irrisorio. Due mesi dopo, il figlio Matteo si issa alla presidenza del Consiglio. E, proprio nel 2014, Eventi 6 riesce a raddoppiare i propri ricavi: 4,3 milioni. L’anno successivo s’impennano ancora: 5,6 milioni. Per arrivare, nel dicembre 2016, mese della caduta del governo Renzi, a quasi 7,3 milioni di euro: un aumento del 265 per cento, rispetto al 2013. Nello stesso periodo gli utili salivano da 698 a 114.765 euro: un incremento del 16.341 per cento.
Intanto, anche l’Irpef di Tiziano Renzi lievitava. Nel 2013 il suo reddito segna zero. L’anno seguente si gonfia, fino a raggiungere i 51.901 euro. Exploit che pochi possono vantare. E proprio mentre il figliolo guida il Paese. Coincidenze, certo. Che però non legittimano le geremiadi scritte a bilancio da Laura Bovoli. Adesso è ai domiciliari assieme al marito, che su Facebook s’è sfogato: «La verità verrà fuori». Ma il lieto fine, per i magistrati, non sarebbe quello auspicato da Babbo Tiziano.
https://infosannio.wordpress.com/2019/03/05/panorama-casa-renzi-nel-vortice-degli-affari/?fbclid=IwAR2vVNLx0QAFLhI3Se6lWDJUm2PsfhaybrtTJsYPf6W0Z-YkzOqxOmpjc9g
Panorama: “Renzi, tutti i guai con la Giustizia delle società di famiglia”.


Il clamoroso arresto ai domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie, Laura Bovoli, sono solo uno degli episodi di una lista di problemi con la giustizia che hanno coinvolto i genitori di Matteo Renzi e le loro società.
Oggi il gup della Procura di Cuneo, Emanuela Dufour ha rinviato a giudizio Laura Bovoli, la madre dell’ex premier Matteo Renzi. La donna è accusata dal pm Gianattilio Stea di concorso in bancarotta documentale per i rapporti che la società Eventi6 di Rignano sull’Arno, di cui era amministratrice, aveva con la ditta di volantinaggio cuneese Direkta fallita nel 2014. Al centro dell’inchiesta un presunto giro di fatture fittizie create, secondo la procura, a tavolino per un ammontare vicino agli 80 mila euro.

Arresti DomiciliariDue settimane fa a finire al centro del mirino della Procura sono stati i fallimenti di due cooperative, la Marmodiv e Delivery, i cui amministratori di fatto, secondo gli inquirenti sono i genitori del premier. Fallimenti che, stando all’accusa sarebbero stati provocati volontariamente dopo averne svuotato le casse.

L’inchiesta è partita a Cuneo, dove la procura stava indagando sui conti, i fallimenti ed alcune fatture sospette della “Delivery service”. Dal Piemonte le carte erano poi state trasferite a Firenze per competenza. Da qui il lavoro dei magistrati ha portato alla richiesta di arresto per i due e per un terzo uomo, Mariano Massone, già indagato con Tiziano Renzi in un altro procedimento a Genova.
Perché i problemi con la giustizia dei genitori dell’ex Presidente del Consiglio sono cominciati anni fa.
Tiziano Renzi, il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno, che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito.
Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil post, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere.
Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: “Finalmente mi hanno beccato!”. Ha poi vergato una nota: “Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…”. In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta.
I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio, appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: “Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia”. Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.
Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati.
Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, “rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi”, e la Chil, “nella persona dell’amministratore Laura Bovoli”, cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: “Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata”. A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: “Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante”.
Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: “Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia” dettaglia il giudice Bronzini. “Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi”. I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori.
Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: “Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo” ricorda con Panorama. “Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto”. Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. “La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente” sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.
Le grane genovesi. A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006.
Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della Mail service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati. Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. Una catena che ricorda il fallimento della Chil post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo.
I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per “differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi”. Assicurando “di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato”. Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero. Perché, spiega il giudice, «l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato». Chil post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr.
Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con una nuova pena inflitta alla Chil post: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista “l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici”.
La causa per licenziamento illegittimo. La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil post. La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi.
L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo: “Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso” scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il “comportamento processuale” della Arturo e della Eukos: “I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione” sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: “Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio”. Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.
Quel prestito da mezzo milione di euro. I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta.
Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di credito cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio. Un debito che la Chil post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dalla proroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio. (ha collaborato Duccio Tronci)
https://infosannio.wordpress.com/2019/02/28/panorama-renzi-tutti-i-guai-con-la-giustizia-delle-societa-di-famiglia/

mercoledì 6 marzo 2019

Russia al NWO: allora, volete un cambio di regime in Venezuela?

Un manifestante con la bandiera del Venezuela

"Gli Stati Uniti vogliono il petrolio del Venezuela e sono disposti a fare la guerra per quel petrolio. Stanno cercando di fabbricare una crisi per giustificare l’escalation politica e un intervento militare in Venezuela".
Se avete prestato attenzione a ciò che il Nuovo Ordine Mondiale ha perpetuato negli ultimi due mesi in Venezuela, potresti pensare che Vladimir Putin o la Russia siano responsabili della debacle stessa. "The Economist" ha pubblicato un articolo risibile dal titolo: "In Venezuela, Putin combatte per il suo futuro."
Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. L' Economist e altri punti di contatto del NWO non hanno potuto fare i conti con il fatto che numerosi leader mondiali sono malati e stanchi di guerre perpetue e conflitti perpetui nel nome della democrazia e della libertà. Il mondo ne ha semplicemente avuto abbastanza. La Russia in particolare ha dovuto fermare l'assalto che gli agenti del Nuovo Ordine Mondiale stavano avanzando in luoghi come la Siria. Quindi gli agenti della NWO sono pazzi, fanatici e vogliono essere di nuovo guerrafondai.
In che modo questi agenti tentarono di rovesciare un presidente eletto democraticamente in Siria? Bene, hanno usato la stessa vecchia e noiosa strategia: Assad è malvagio; Assad stava uccidendo la sua stessa gente; Assad ha usato armi chimiche; Assad è anti-democrazia, ecc. Russia e Iran non demordono. L'ultima volta che ho controllato, Assad è ancora al potere. Ma questo non significa che gli agenti NWO abbiano improvvisamente rinunciato. Ci stanno ancora provando.
Inoltre, gli agenti NWO hanno cambiato marcia negli ultimi mesi. Si stanno spostando per destabilizzare un altro paese, cioè il Venezuela. La cosa interessante è che stanno usando la stessa monotona ideologia: il Venezuela manca di "democrazia" e "libertà", quindi è loro dovere dire al presidente Maduro che il suo tempo è stato numerato.
Come ha detto lo stesso Segretario di Stato Mike Pompeo, i paesi della regione devono "allinearsi con la democrazia" per estromettere Nicolás Maduro.
"La tirannia di Maduro", continua Pompeo, non può più essere tollerata. "Il suo regime è moralmente in bancarotta, è economicamente incompetente ed è profondamente corrotto. È antidemocratico fino al midollo".
Dal momento che Maduro è corrotto, gli Stati Uniti devono offrire un sostegno finanziario. Come ha riferito lo stesso New York Times:
"Gli Stati Uniti hanno anche offerto 20 milioni di dollari in aiuti d'emergenza alla parte di Guaidó…" Perché milioni di dollari? Bene, come ha affermato Trump, una "opzione militare" è del tutto possibile perché la democrazia deve essere ripristinata nella regione. Il defunto storico William Blum ha dimostrato in modo convincente che l'arma più mortale del Nuovo Ordine Mondiale è "democrazia".
Bene, questa forma di democrazia occidentale ha avuto tempi duri nel corso degli anni, perché molti paesi non la stanno più accettando. C'è del marcio al centro. Quindi la Russia essenzialmente ha detto ai rappresentanti americani di stare lontani dal Venezuela. In effetti, è stato riferito che i consulenti militari russi erano e forse sono ancora in Venezuela. Secondo il capo dello staff russo Valery Gerasimov, gli Stati Uniti stanno cercando di ripetere la storia.
"Era stato così in Iraq, in Libia e in Ucraina", ha detto Gerasimov. "Attività simili sono ora viste in Venezuela."
Gli agenti dell'NWO sanno che la Russia non sta giocando, quindi hanno cambiato un po ‘il loro piano malvagio. Il fiammeggiante Neocon Elliott Abrams ha recentemente dichiarato che gli Stati Uniti non sono realmente interessati a uno scontro militare in Venezuela, ma che sono necessarie "azioni appropriate". Abrams ha aggiunto:
"Le dittature finiscono. Alcune durano a lungo, altre un tempo molto più breve. Anche questo in Venezuela finirà. Speriamo che giunga alla fine in modo rapido e pacifico".
Questo è davvero divertente perché Abrams era lo stesso personaggio che sostenne regimi dittatoriali in El Salvador e Guatemala negli anni '80. Il medesimo Abrams fu in gran parte responsabile del massacro di El Mozote in El Salvador, avvenuto nel dicembre del 1981. Abrams, che era un alto funzionario del Dipartimento di Stato nell'amministrazione Reagan, inviò il sostegno militare e finanziario al Salvador per sconfiggere la cosiddetta infiltrazione comunista o socialista nella regione. Raymond Donner, autore di Weakness and Deceit: America e El Salvador's Dirty War, scrive nella sua inchiesta:
"Più di 900 contadini furono assassinati in ed intorno a diversi villaggi nella provincia orientale di Morazán. La maggior parte erano vecchi, donne e bambini. Nella chiesa cattolica romana di El Mozote, i soldati separarono gli uomini dalle loro famiglie, li portarono via e li uccisero. Hanno radunato madri e bambini nel convento. Mettendo i loro fucili M-16 forniti dagli americani in automatico, i soldati aprirono il fuoco. Poi hanno bruciato il convento. Circa 140 bambini sono stati uccisi, compresi i bambini più piccoli. Età media: 6…
"In El Salvador, l'amministrazione Reagan, con Abrams come uomo di punta, difendeva regolarmente il governo salvadoregno di fronte alle prove che il suo esercito regolare e gli squadroni della morte alleati operassero impunemente, uccidendo contadini, studenti, dirigenti sindacali e chiunque fosse considerato antigovernativo o pro-guerrigliero. Abrams arrivò al punto di difendere uno dei leader più famosi della squadra della morte, Roberto D'Aubuisson, responsabile dell'omicidio dell'arcivescovo Óscar Romero mentre stava celebrando la messa, nel marzo 1980.
"È stato l'assassinio di Romero a scatenare una guerra civile in El Salvador — un'alleanza tra militari e oligarchi, che aveva governato per decenni con il sostegno degli Stati Uniti, contro un'insurrezione di stampo marxista. La maggior parte del sostegno alla rivoluzione proveniva dai contadini del Salvador, che avevano poco da perdere nel cercare di rovesciare un governo che aveva fatto ricorso a una repressione brutale per tenerli in miserabile povertà.
"Per prosciugare il mare contadino in cui nuotavano i guerriglieri, prendere in prestito da Mao, il Battaglione Atlacatl, i cui ufficiali avevano recentemente completato l'addestramento controinsurrezionale negli Stati Uniti, lanciò un'operazione" terra bruciata "a Morazán, una regione montagnosa dove i contadini semilavorati lavoravano i loro piccoli appezzamenti di sisal e mais. "
Tieni presente che El Salvador è un paese piccolo, paragonabile allo stato del New Jersey. La sua popolazione è inferiore a cinque milioni. Quindi uccidere 900 persone a sangue freddo è una cifra abbastanza alta. Inoltre, lo stupro delle donne di chiesa cattolica era anche parte del regime brutale che Abrams e l'amministrazione Reagan inavvertitamente lo sostenevano in El Salvador. Il brutale regime violentò anche le adolescenti e le uccise. "Un testimone ha descritto un soldato che lanciava un bambino di 3 anni in aria e lo impalava con la sua baionetta."
Anche New World Order come Newsweek concordano che Abrams "era stato precedentemente incriminato e perdonato per aver mentito al Congresso sul suo ruolo nell'Aran-Contra Affair degli anni '80, con il quale membri dell'amministrazione del presidente Ronald Reagan vendevano illegalmente armi all'Iran e usato i fondi sostenere le milizie anticomuniste in Nicaragua (Contras), un episodio della storia pluridecennale degli sforzi degli Stati Uniti per sconfiggere le forze di sinistra in tutta l'America latina. " 

Questi fatti, purtroppo, si succedono frequentemente in ogni angolo della terra. Lo strapotere di chi comanda domina il globo terracqueo e viene attratto costantemente dalle ricchezze che produce per aumentare a dismisura, costantemente la propria ricchezza. 
by cetta

Quasi 2 milioni di italiani col Pd, rimasto all’Età della Pietra. - Giorgio Cattaneo

Nicola Zingaretti 43b6a

Favoloso Pd: dopo Renzi e l'avatar Martina, ecco Zingaretti (il nulla), vittorioso su Giachetti (altro nulla) e sullo stesso Martina (idem). Il nulla è il contenuto politico dei tre alfieri delle primarie 2019, che avrebbero mobilitato 1,7 milioni di italiani: impegnatissimi a discettare, appunto, sul vuoto cosmico che il partito ha prodotto, dopo la bruciante sconfitta dello scorso anno. Non una parola sulle cause della disfatta, che ha inevitabilmente portato a Palazzo Chigi i velleitari gialloverdi, cioè gli “incompetenti” 5 Stelle e il “razzista” Salvini. 
Non finisce di stupire, la base del Pd: se i dirigenti non rappresentano più una sorpresa per nessuno, avendo ampiamente dato spettacolo di sé in termini di mediocrità assoluta, stupisce la tenacia di militanti ed elettori, probabilmente convogliati verso i gazebo soprattutto grazie alla martellante campagna mediatica contro l'orco leghista, ben orchestrata anche dalla manifestazione oceanica pro-migranti organizzata alla vigilia del 3 marzo dal milanese Sala per contestare i tanti aspetti inaccettabili del decreto-sicurezza. 
A parte questo, però, il Pd – inteso come corpo politico-sociale – sembra rimasto all'età della pietra, prigioniero di un'altra epoca, ancora ipnotizzato dall'illusione ottica dell'Unione Europea come superpotere illuminato, apolitico e neutrale nonché necessariamente non-italiano, viste le storiche colpe del Belpaese-cicala, gravato dal suo vergognoso debito pubblico.

Per il Pd, la storia è ferma al 1992, all'europeismo bancario e tecnocratico di Ciampi, tuttalpiù alla super-bufala ulivista dell'oligarca Prodi, asceso al cielo solo grazie alla guerra psicologica contro l'Uomo Nero. Sono passati 25 anni, e sembra che gli elettori Pd non abbiano ancora capito che il vero pericolo per l'Italia non era Berlusconi,
ma i poteri oligarchici eurocratici che proprio nel centrosinistra hanno incessamente reclutato alleati docili e servizievoli, da D'Alema e Renzi, cui affidare lo smantellamento progressivo del welfare, la super-tassazione inferta alle aziende, la disoccupazione-choc e la chemio-economy eseguita dal duo tragico Monti-Fornero, cioè i mercenari che – attraverso Napolitano – hanno deformato la Costituzione, sfigurandola  con l'inserimento proditorio del pareggio di bilancio approvato senza fiatare dall'infimo Bersani. Nulla di tutto ciò traspare, nemmeno in lontananza, dall'analisi post-sconfitta esalata a mezza voce dal Pd già renziano. Niente di vagamente paragonabile alle riflessioni prodotte in Francia dal gauchista Mélenchon, o in Gran Bretagna dal laburista Corbyn. La cosiddetta sinistra (nominale) italiana non va oltre Zingaretti, Giachetti e Martina. L'altra notizia è che la disfida, interamente disputata a colpi di sbadigli, ha attratto quasi due milioni di elettori sani di mente.


Dov'era, in questi anni, il popolo del Pd? Dove si è informato? Cosa ha letto? Chi ha ascoltato? Non c'è stato un dirigente del partito – non uno – capace di indicare le cause del doloroso divorzio tra il Pd e gli italiani, messi in ginocchio da un'euro-crisi sapientemente pilotata grazie all'occhiuta regia di micidiali strateghi come Mario Draghi. Zero assoluto, dal Pd, sul rapporto con Bruxelles: la recessione è accettata come normalità fisiologica, la sottomissione viene subita come destino (anche quando Germania e Francia annunciano ad Aquisgrana il ritorno persino formale al Sacro Romano Impero). Facile, sparare su Di Maio e Toninelli. Comodo, prendersela con lo sgradevole Salvini. Ma se tornasse a Palazzo Chigi, il Pd cosa farebbe? Probabilmente, le stesse cose che ne hanno causato lo sfratto nel 2018. Cos'è cambiato, nell'ultimo anno? Niente. Basta ascoltare Zingaretti, Martina e Giachetti. I buoni sono all'opposizione perché i cattivi sono al governo. E i cattivi sono al governo perché evidentemente gli italiani sono cretini, oltre che un po' fascisti e xenofobi. Le parole democrazia, sovranità e trasparenza non dicono niente, allo pseudo-europeismo del Pd, ancora e sempre a disposizione dei neoliberisti, i grandi privatizzatori universali. Pazienza per i nano-dirigenti, usi a obbedir tacendo, ma è decisamente sconcertante constatare come, in quel nulla, ripongano ancora una certa fiducia quasi due milioni di elettori italiani.

https://comedonchisciotte.org/quasi-2-milioni-di-italiani-col-pd-rimasto-alleta-della-pietra/




Decisamente sconcertante, come dice l'articolo.

Stato mafia: le rivelazioni di Ingroia su Prodi, Napolitano, Mauro. E non solo. - Lorenzo Lamperti - 4 luglio 2018

Stato mafia: le rivelazioni di Ingroia su Prodi, Napolitano, Mauro. E non solo

Antonio Ingroia parla in un'intervista a tutto campo ad Affaritaliani.it dei contenuti del suo libro "Le trattative". E non solo...


Antonio Ingroia, partiamo dal titolo del suo libro: "Le trattative". Come mai questo titolo? Significa che di trattative ce ne sono state più di una?
Certamente. Ho scelto intenzionalmente questo titolo proprio per spiegare che di trattative ce ne sono state tante e che quella famigerata trattativa Stato-mafia oggetto del processo che è arrivato recentemente alla sentenza di primo grado a Palermo è certamente la più famosa e terribile, ma non la sola. 
Che cosa risponde a chi sostiene che la trattativa fu portata avanti per evitare delle vittime?
Rispondo che non è così. La trattativa ha fatto tutto il contrario, accelerando le stragi e causando altre vittime. E io ho voluto racconta che questo purtroppo non è stato un episodio accidentale. Lo Stato italiano è stato raramente intransigente con i poteri criminali e la mafia in particolare, il cui potere è cresciuto proprio grazie alle trattative e alla legittimazione da esse derivanti. Nella storia ci sono state diverse trattative, come quella in occasione dello sbarco degli alleati in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale, per poi arrivare a quella oggetto del processo di Palermo che vide protagonisti carabinieri, Vito Ciancimino, Riina e il papello. Ma poi ci fu un'altra trattativa con Provenzano, quella portata avanti da un uomo border line tra servizi segreti ed eversione nera come Paolo Bellini e quella con Dell'Utri nel 1994.
Lei nel libro fa riferimento anche a una trattativa nella quale Dell'Utri e Berlusconi avrebbero dovuto essere i tramiti per arrivare a Craxi. Può dirci qualcosa in più?
Dell'Utri è sempre stato uno dei principali artefici delle trattative, lo si potrebbe definire "il principe delle trattative". Inizia negli anni '70 quando mette piede nell'impero Fininvest con l'approdo di Mangano alla villa di Arcore. Porta la mafia in casa di Berlusconi, che in quel momento era sotto minaccia. Viveva nel pericolo di un sequestro suo o dei suoi famigliari e invece di rivolgersi alle autorità si rivolse a Dell'Utri. Ma Dell'Utri non è stato solo il tramite tra mafia e imprenditoria ma anche tra mafia e politica. A un certo punto Cosa Nostra sentì usurarsi il rapporto con la Democrazia Cristiana e in particolare con la corrente andreottiana e per questo decise di provare a raggiungere Craxi, visto che il Partito Socialista aveva raggiunto un ruolo centrale nello scenario politico italiano. Sapendo dei suoi ottimi rapporti con Craxi, si pensò di utilizzare Berlusconi per arrivare a lui. Un progetto poi abortito perché anche il Psi non fu più ritenuto un interlocutore affidabile dopo che l'allora ministro Martelli chiamò Falcone al ministero. Dopo di che ci furono gli anni del conflitto con la Dc e l'omicidio di Salvo Lima che portò poi alla trattativa.
In tutta questa vicenda Berlusconi è stato più vittima o più carnefice?
Io ho sempre detto che sul piano penale non c'è nulla di ascrivibile a Silvio Berlusconi. Qualcuno mi accusa di aver cambiato versione ma non è così, anche nel processo Dell'Utri dissi che dal punto di vista penale non avevamo elementi per accusare Berlusconi. E difatti io stesso archiviai la sua posizione e lui non è mai stato portato a processo dalla procura di Palermo. Io lo considero un terminale di pressioni alle quali si è piegato prima da imprenditore e poi da politico. Lo si può definire una vittima sui generis.
Lei sostiene che, dopo la Dc, Cosa Nostra individuò in Forza Italia il successivo interlocutore politico. Seguendo il suo ragionamento, ora che Forza Italia ha perso gran parte del suo potere politico la mafia sta cercando nuovi interlocutori politici?
Questo è evidente. Nel piano politico nazionale il potere di Forza Italia si è andato sgretolando negli ultimi anni. Va però detto che nel tempo Cosa Nostra ha probabilmente modificato il proprio approccio alla politica. Nella Prima Repubblica c'era una "democrazia bloccata" e un quadro politico stagnante dove l'attore principale, la Dc, restava sempre al governo e al massimo cambiavano i suoi partner. Durante la Seconda Repubblica, anche se al governo ci sono state forze diverse, l'egemonia politica o comunque mediatica e culturale è sempre stata in mano a Forza Italia. Oggi siamo invece in una fase di grande dinamismo e mutevolezza, con forze politiche come il Pd che in poco tempo passano dal 40 al 20 per cento e altre che fanno il percorso opposto. Oggi ritengo dunque che non ci sia un interlocutore affidabile di lunga scadenza per la mafia. Se si considera poi che la mafia stessa è mutata, passando da un'organizzazione gerarchica e monolitica a una più eterogenea e frammentata, la conseguenza ovvia è che più che sui gruppi politici Cosa Nostra lavori a sui rapporti interpersonali e sui singoli nomi.
Nel suo libro parla di numerosi "sabotaggi" o comunque di "attacchi" alle indagini della procura di Palermo. Qual è stato l'attacco che meno si sarebbe aspettato?
A livello personale devo dire che non mi sarei aspettato di venire attaccato da quella che possiamo definire "sinistra al potere". La prima grande sorpresa è arrivata con il primo governo Prodi, che si era insediato con grandi aspettative in una fase in cui la lotta alla mafia era in grande spolvero. Ci si aspettava sostegno e supporto all'azione giudiziaria perché sembrava davvero che potessimo dare il colpo definitivo a Cosa Nostra. 
E invece?
Invece c'è stato un evidente disimpegno del governo Prodi (1), in particolare in seguito alla nomina dei ministri Flick Napolitano. Il governo fece scelte non dico di ostacolo ma comunque di non supporto alla nostra azione. Si passò dalle promesse alla freddezza e poi all'aperta ostilità. Il clou si è però verificato negli scorsi anni, quando gli attacchi e le delegittimazioni sono arrivate anche dall'interno della magistratura e dall'informazione cosiddetta "progressista".
A chi fa riferimento?
Faccio riferimento per esempio agli editoriali di Eugenio Scalfari su Repubblica, schierati in maniera netta con Napolitano sulla questione del conflitto di attribuzione e decisamente ostili all'indagine sulla trattativa che oggi è stata consacrata da una sentenza.
Lei fa riferimento alla famosa telefonata tra Napolitano e Mancino che poi la Consulta ha ordinato di distruggere su richiesta del Quirinale stesso. A proposito, lei nel libro parla del fatto che l'allora direttore di Repubblica Ezio Mauro si fece da intermediario tra la procura e il Colle a riguardo. Come andarono le cose?
Ho voluto raccontare questo episodio per dimostrare che, contrariamente all'immagine che si preferisce diffondere della procura di Palermo, da parte nostra non c'era nessuna pretestuosa contrapposizione nei confronti del Quirinale. Appena è arrivato un segnale per evitare il conflitto di attribuzione io mi mostrai disponibile a raccoglierlo, anche perché ho sempre stimato Ezio Mauro. Poi però si è tutto interrotto e non c'è stato più nessun passo dal Quirinale o dagli ambasciatori o ambasciatrici scelti dal Colle. Qualcuno ha fatto un gioco strano.
A che cosa allude?
Ritengo che qualcuno, non so dire chi, abbia preferito ostacolare il dialogo tra procura di Palermo e Quirinale alimentando la contrapposizione, sapendo che un'azione diretta del Colle avrebbe avuto come effetto quello di bloccare l'indagine, cosa poi effettivamente avvenuta.
Ma che cosa rappresentava quella celeberrima telefonata ai fini dell'indagine?
Guardi, le faccio un paragone. Nel processo Andreotti si finì per parlare solo del presunto bacio tra Andreotti e Riina. Passò il messaggio che Andreotti era innocente se il bacio non c'era stato. Ma l'indagine era basata su ben altri elementi. La stessa cosa con la telefonata Napolitano-Mancino. Insomma, la regola in entrambi i casi era quella di parlare d'altro per non parlare del terribile merito dei processi.
Si può dire che lei ha lasciato la magistratura a causa dello scontro istituzionale con Napolitano?
Certo che si può dire, è così. Io cominciai quell'indagine nella notte del 19 luglio 1992, poche ore dopo l'omicidio di Paolo Borsellino. La mia storia professionale è tutta legata alla figura di Borsellino. In quei 20 anni ho cercato in tutti i modi di dare un contributo alla scoperta della verità, anche se la sede competente per le indagini su via D'Amelio era Caltanissetta. Con il processo trattativa mi sentivo di essere arrivato vicino, ritengo che eravamo con la verità a portata di mano. Avremmo potuto proseguire con nuove prove e acquisizioni e invece quel conflitto di attribuzioni è stata la saracinesca che ci ha sbarrato la strada. A quel punto non ci è rimasto altro da fare che mettere a frutto anni di indagini e formulare le richieste di rinvio a giudizio. In quel momento ho sentito esaurito il mio compito, perché sapevo che non avrei potuto più andare avanti nella ricerca della verità. 
Il passaggio in politica non è stato molto fortunato.
Nel 2013 ero convinto di poter portare in parlamento la mia battaglia per la verità. Non è andata bene ma io continuo a lottare per la verità. Lo sto facendo anche in questi giorni, con la proposta di una commissione parlamentare d'inchiesta. E credo di poterlo fare anche con maggiore libertà rispetto ai vincoli della toga. Per questo continuo a lottare nelle vesti di avvocato, cittadino e, in questo caso, scrivendo libri.
Secondo quanto ha detto la conclusione sembra che la verità completa sia impossibile da raggiungere, nonostante la sentenza di Palermo. E' così?
L'indagine di Palermo la definisco una bellissima opera incompiuta. E' un processo che ha consentito una sentenza senza precedenti: per la prima volta i vertici della mafia sono stati condannati insieme agli apparati istituzionali con membri delle forze di polizia speciali e il fondatore di un partito che è stato a lungo quello di maggioranza relativa. Ma non tutti i responsabili sono stati puniti e non tutti i punti oscuri sono venuti alla luce.
Dica la verità: ci credeva davvero nella sentenza di condanna dello scorso aprile?
Credevo nella validità del lavoro dei magistrati e nella professionalità e dirittura morale dei giudici della corte d'assise. Allo stesso tempo però avevo in mente sentenze sconcertanti che negli ultimi anni avevano mostra l'attitudine della magistratura di essere spesso doppiopesista nel giudicare uomini dello Stato e imputati ordinari. Come diceva Sciascia, "lo Stato non può mai processare se stesso". Dunque per questo un po' sono stato positivamente sorpreso dalla sentenza di Palermo.
Quando parla di "sentenze sconcertanti" fa riferimento anche a quella della Consulta sulla telefonata tra Mancino e Napolitano?
Quella sentenza è un emblema.
Che cosa ne pensa del governo M5s-Lega? Può ottenere buoni risultati in materia di lotta alla criminalità organizzata e ricerca della verità?
Sono in una fase di sospensione di giudizio. Certo potrei cavarmela dicendo che sarà difficile possano fare peggio dei governi precedenti. Non so se questo sarà un governo del cambiamento nei fatti, per ora lo è nelle parole e nelle facce. Lo stesso Salvini, a modo suo, ha detto cose dure sulla mafia. Per essere davvero il governo del cambiamento non possono passare inosservate le sentenze di Palermo sulla trattativa e quella sul Borsellino quater che parla di depistaggi nell'indagine su via D'Amelio. Per questo ho proposto una commissione parlamentare d'inchiesta. Vedremo, io piuttosto che criticare preventivamente preferisco stimolare e pungolare per ottenere un vero cambiamento.

Legittima difesa, Di Maio: “E’ legge della Lega. Non entusiasma, ma siamo leali. Più armi? Non è mio modello di Paese”.

Legittima difesa, Di Maio: “E’ legge della Lega. Non entusiasma, ma siamo leali. Più armi? Non è mio modello di Paese”

Il vicepremier, intervistato da Rtl 102.5, ha riconosciuto per la prima volta che ci sono malumori dentro il Movimento sul provvedimento bandiera del Carroccio: "I cittadini devono essere difesi in primo luogo dallo Stato e dalle forze dell’ordine". Sull'Alta velocità: "Mi fido di Conte. Uno Stato responsabile deve dire si o no, non in base alle ideologie, ma in base al fatto che dobbiamo amministrare lo Stato come un buon padre di famiglia". E ha smentito che al vertice si sia discusso delle dimissioni di Toninelli. 


“Non c’è tutto questo entusiasmo nel M5s sulla legittima difesa, ma noi siamo leali”. E pure: “Se approvando questa legge si dice che si possono utilizzare di più le armi, questo non è il mio modello di Paese”. Perché, “i cittadini devono essere difesi in primo luogo dallo Stato e dalle forze dell’ordine”. Luigi Di Maio, intervistato da Rtl 102.5 a “No stop news”, ha riconosciuto per la prima volta che il provvedimento bandiera del Carroccio in discussione in queste ore a Montecitorio crea malumori dentro il Movimento. E soprattutto, nella visione generale, non piace neppure al capo politico M5s. Non per questo però verrà ostacolato, perché è parte del contratto. “Sicuramente questa è una legge della Lega”, ha detto. “Come quando si è votata la legge contro la corruzione voluta dal M5s non è che ci fosse tutto questo entusiasmo nella Lega. Allo stesso modo, quando si vota la legge sulla legittima difesa, che è una legge che sta nel contratto e che per questo porteremo avanti perché noi siamo leali, non è che ci sia tutto questo entusiasmo nel M5s”. E ha continuato: “Non è che ci sia tutto questo entusiasmo, ma credo sia anche normale, è la stessa cosa avvenuta per Quota 100 e il Reddito di cittadinanza”.
Legittima difesa, Di Maio: "È legge della Lega, non ci entusiasma"
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Di Maio ha poi parlato anche di Tav: “Una decisione”, ha detto, “sarà presa entro venerdì perché la società Telt deve scegliere se dare l’avvio ai bandi. Se qualcuno crede che su questo possa cadere il governo si sbaglia. Mi fido di Conte che farà la sintesi delle posizioni”. Il leader M5s ha difeso il metodo usato per fare l’analisi costi benefici e spiegato che per il movimento l’obiettivo è fare le opere e non “fare le opere per spendere più soldi”: “La nostra posizione è chiara e richiede una sintesi. Io penso che il governo non sia a rischio, ma la soluzione che vogliamo approvare per soddisfare pienamente quello che è il nostro orientamento. La decisione non deve essere ideologica. Noi come governo abbiamo commissionato uno studio che dice agli italiani: state spendendo soldi per un’opera che porta meno benefici dei soldi di tasse che ci mettiamo”. E ha ribadito: “Come dice Conte è una questione di metodo, se c’è uno studio che dice che quell’opera non sta in piedi, la discutiamo e la affrontiamo, facciamo uno stress test: poi uno Stato responsabile deve dire si o no, non in base alle ideologie, ma in base al fatto che dobbiamo amministrare lo Stato come un buon padre di famiglia, che non spenderebbe soldi per una cosa che porta meno soldi di quelli che ci ha messo dentro”. All’intervistatore che contestava la metodologia usata per l’analisi costi-benefici, il leader M5s ha sostenuto che è stato usato “un metodo europeo, che viene utilizzato negli studi anche dalla Banca Mondiale” e che “anche senza considerare i minori incassi delle accise sul carburante (dovuto al calo di traffico autostradale ndr) l’ipotesi rimane negativa”. “Quello che non torna – ha ironizzato – è che lo studio lo ha fatto M5s! – ha aggiunto – La Tav non ci ha fatto niente, ma tutte le opere in cui buttiamo i soldi degli italiani non sono opere che sono sostenibili”.

Il capo politico dei 5 stelle ha anche smentito che Danilo Toninelli abbia ipotizzato di lasciare l’incarico: “Non c’era nessun bisogno di minacciare dimissioni”, ha detto. Di Maio ha anche aggiunto che “durante tutti gli incontri di governo che si sono avuti finora non c’è mai stata alcuna discussione ma solo un confronto leale”.

Quello che apprezzo in Di Maio è la sua lealtà. Se ha preso un impegno con noi che gli abbiamo dato fiducia, sono sicura che lo manterrà, costi quel che costi. Poco alla volta, con pazienza e tenacia porterà avanti i nostri progetti. E gli rendo il merito di aver realizzato buona parte degli obiettivi che ci eravamo proposti.
Sono soddisfatta e orgogliosa di aver dato fiducia ad un movimento nel quale mi immedesimo per tutti gli ideali che hanno fatto e fanno ancora parte delle mie ataviche convinzioni.
Con il movimento sento rinascere nuovamente l'ideologia socialista, comunista.
Con loro mi sento a casa, protetta.
Grazie m5s.
bycetta