martedì 5 novembre 2019

Arcelor/Mittal lascia Ilva. 5 Stelle capro espiatorio. - Roberta Labonia



Strano Paese l’Italia. Tutti pensano di poter fare il cavolo che gli pare. Il Paese del Bengodi fu per i Riva, i precedenti titolari dell’Ilva di Taranto, l’Italia. Prima di venire arrestati per disastro ambientale ed altre amenità, fecero in tempo a provocare la morte di oltre 11mila tarantini per tumori da diossina e patologie neurologiche. Ora la nuova proprietà, la franco indiana ArcelorMittal, subentrata dopo un periodo di commissariamento dell’azienda, pretende di portare avanti il piano di risanamento ambientale sottoscritto con lo Stato Italiano, protetta da uno scudo penale che la metta al riparo da ogni bega giudiziaria per tutta la sua durata. E gioca sporco. Neanche il tempo, giusto il 2 novembre scorso, che Mattarella promulgasse la legge di conversione del DL Imprese che ne ha sancito l’annullamento (lo scudo era stato reintrodotto, pur con delle limitazioni, agli sgoccioli del governo giallo verde), che sul tavolo del Mise Patuanelli, l’attuale Ministro 5 Stelle, si è ritrovato una nota di recesso, indirizzata dall’ArcelorMittal ai Commissari, dal contratto d’affitto d’azienda. Un ricatto bello e buono perché sono in gioco quasi 11mila posti di lavoro.

Si ripropone in tutta la sua tragicità l’eterno conflitto mai risolto dai diversi Governi italiani, quello di dover scegliere fra la salute dei suoi cittadini tarantini e il loro lavoro. Come non fossero due diritti, entrambi, garantiti dalla nostra carta costituzionale. Eppure questi signori, questi francoindiani, che hanno il loro quartier generale nel paradiso fiscale del Lussemburgo, oggi pretendono di avere indietro la “licenza di uccidere” altrimenti se ne vanno. Una clausola inesistente in ogni angolo d’Europa e che, ne sono sicura, prima o poi la nostra Consulta dichiarerà incostituzionale.

Può anche darsi, come ventila il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che questa mossa in realtà nasconda altri obiettivi dei manager aziendali: spararla grossa per poi, magari, ottenere il via libera ad un corposo taglio dei livelli occupazionali e/o dei livelli di produzione, il che tradirebbe l’inefficienza dell’attuale board a capo dell’ex Ilva, incapace di tenere fede agli impegni assunti con il Governo italiano neanche 18 mesi fa. Motivo in più oggi, per recriminare sul fatto che il precedente Governo, nella persona dell’allora ministro Calenda (ministro volutamente minuscolo), non avesse voluto prendere in considerazione l’altra cordata di imprenditori, con a capo Cassa Depositi e Prestiti, interessata a rilevare L’Ilva di Taranto. Una scelta che avrebbe garantito la presenza dello Stato a presidio degli interessi di tutta la comunità tarantina. Trovo infatti intollerabile che uno Stato sovrano possa ritrovarsi nelle condizioni di essere ricattato da un soggetto privato. C’è qualcosa di profondamente marcio in un sistema che consente si possano generare certi paradossi, come è stato quello di Autostrade del resto. Aziende di natura strategica come è L’ex Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, per l’Italia, non possono sottostare alla sola logica del profitto, non possono e non devono poter dettare legge, ripeto, ad uno Stato sovrano.

Questi sono, lo dico a posteriori, gli effetti nefasti, le distorsioni, che ha portato con sé un’economia ispirata al liberismo puro, dove l’unico motore ad agire è quello del capitale e della sua remunerazione e in nome delle cui logiche sono stati calpestati i diritti e le tutele di intere generazioni di lavoratori, di intere comunità, come, in questo caso, quella tarantina. E ciò che più mi disgusta in queste ore, è il sentir levarsi le voci indignate di più parti sociali del Paese che, anziché parlare con un unica voce di biasimo a questi capitani di ventura senza scrupoli, dando manforte all’operato del Governo, si schierano dalla loro parte e  attaccano il Governo, reo evidentemente ai loro occhi, di avere ristabilito la supremazia della legge, davanti alla quale ogni soggetto deve essere uguale.

Ho assistito al levarsi di scudi unanime contro il Governo di Confindustria, il che non mi sorprende, fra cani non si mordono, ma anche dei Sindacati, quelli che, per definizione, dovrebbero in primis tutelare la salute e il lavoro dei loro iscritti. Hanno fatto la loro scelta mandando il loro ultimatum al Governo: mantenere i posti di lavoro a tutti i costi, ridiamo lo scudo ad Arcelor e fanculo alle tutele ambientali. Ed infine, ma anche questo non mi sorprende, ho ascoltato tutta una corte di nani e ballerine dire la loro. Uno come Calenda, quello che da pavido ministro aveva firmato per lo Stato un contratto capestro a tutto vantaggio di Arcelor Mittal, spargere fango su Luigi Di Maio (che quel contratto l’aveva fatto modificare in extremis a tutela dei lavoratori) e, addirittura, ricevere il plauso di uno scribacchino servo di Berlusconi come Sallusti e della Gruber, quella di casa al Bilderberg. Poteva un ex bibitaro come Di Maio, essere all’altezza del suo ruolo? Le colpe sono tutte le sue, hanno sentenziato trionfi della loro boria. Cose che voi umani…

Ho ascoltato Renzi (quello che lo scudo penale l’aveva introdotto nel 2015, quando era primo ministro), oggi attaccare il suo stesso governo per averlo tolto, dimenticandosi che solo pochi giorni prima l’annullamento dello scudo l’aveva votato anche lui.

Ho letto nelle facce di Salvini e Meloni la malcelata contentezza di vedere una tegola così grossa cadere sul Conte II. Tifano, questi personaggi, perché su Ilva il Governo finalmente cada per mettersi loro ai posti di comando e poi, magari, continuare ad avallare altre schifezze come il TAV o come il Mose, che fu l’orgia dei tangentari.

Ho ascoltato mezze calzette tipo la Gelmini, la Bernini, dire le loro scempie banalità per guadagnarsi il loro pezzetto di scena, perché non se le caga più nessuno.

Ognuno di questi soggetti ha i suoi buoni motivi personali o di bottega per remare contro questo Governo e, da bravi amici del giaguaro, sostengono le pretese di soggetti che pretendono di dettare legge in casa nostra. E in tutto questo vociare confuso sto qui, seduta, a chiedermi a chi interessa veramente del destino di Taranto e dei tarantini. Forse ai 5 Stelle? Credo di sì, ma temo di non sbagliare se dico che saranno proprio loro a pagarne lo scotto più alto.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/05/arcelor-mittal-lascia-ilva-5-stelle-capro-espiatorio/

Senza filtro - Marco Travaglio - IFQ - 5 NOVEMBRE 2019



Il boss latitante Matteo Messina Denaro, per lui, è “il primo ministro”. Invece i giudici Falcone e Borsellino sono morti in “un incidente sul lavoro” e dedicare loro l’aeroporto di Palermo è rimestare “sempre la stessa merda”. La reazione più comoda alle allucinanti intercettazioni alla base dell’arresto per mafia di Antonello Nicosia, dirigente radicale e portaborse della deputata Pina Occhionero (appena passata da LeU a Italia Viva), è quella di prendersela con lui. Ma l’indirizzo è sbagliato: questo bel soggettino ha già scontato una condanna definitiva a 10 anni e 6 mesi per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e ora è indagato per associazione mafiosa, avendo usato visite e ispezioni nelle carceri accanto alla Occhionero per fare il postino dei messaggi tra i boss in cella (anche al 41-bis) e quelli fuori. Se è vero, come dicono gl’inquirenti, che è un mafioso doc, non c’è nulla di scandaloso se considera Messina Denaro il suo premier e Falcone e Borsellino due rompicoglioni che se la sono cercata.
I mafiosi fanno il loro mestiere e lui lo faceva benissimo: sedeva nel Comitato nazionale dei Radicali italiani (i fedelissimi di Emma Bonino e Riccardo Magi usciti dal Partito radicale pannelliano di Rita Bernardini); teneva in una rubrica tv contro le “torture” inflitte ai poveri mafiosi; e si era infiltrato nelle istituzioni grazie a una parlamentare voltagabbana, che usava come un taxi per entrare e uscire dalle patrie galere e confabulare coi boss: la Occhionero, eletta nel partito più di sinistra e approdata in 18 mesi al renzismo, dopo aver persino progettato di passare a FI (anche lei fatica a distinguerla da Iv) e dopo aver rotto con Nicosia. Chi non fa il suo mestiere, almeno quello che si richiede in un Paese decente, sono i partiti senza filtro. Anzitutto LeU: possibile che quello fondato dall’ex procuratore antimafia Grasso non si sia accorto che la sua deputata si portava dietro come assistente parlamentare un pregiudicato per traffico di droga? La risposta è sì: è possibile. Perché la bella abitudine di chiedere il casellario giudiziale e l’esistenza di indagini a carico ai candidati e ai collaboratori ce l’hanno solo i famigerati 5Stelle. Gli altri no, per scansare i sospetti di “giustizialismo”. Ora vedremo se Renzi la metterà alla porta o se la terrà stretta. Dovrebbe bastargli il dialogo fra la cosiddetta onorevole e Nicosia, che la informa di aver scritto a un mafioso detenuto un messaggio su “un blocchetto di carta intestata della Camera”, per evitare che gli inquirenti lo controllino. E lei, anzichè denunciarlo e cacciarlo, gli dice “bravo!” e gli domanda se la carta intestata “gli è piaciuta”.
Però, in un comunicato tragicomico, la Occhionero spiega di aver ingaggiato Nicosia “in virtù del suo curriculum”, ma di avere rotto dopo “solo quattro mesi” perché “si spacciava per docente universitario e studioso dei diritti dei detenuti” e non era vero. Non certo perché fosse un ex detenuto per traffico di droga e la accompagnasse nei pellegrinaggi carcerari. Così lui – scrivono i pm – “sfruttando il baluardo dell’appartenenza politica, ha portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il 41-bis o favorire la chiusura di istituti penitenziari giudicati inidonei a garantire un trattamento dignitoso ai reclusi”. Quanto ai radicali, per loro i precedenti penali han sempre fatto curriculum: non solo accettano, ma sollecitano l’iscrizione di detenuti, preferibilmente boss e terroristi al 41-bis. Tengono i congressi nei migliori penitenziari. Regalano pulpiti a sanguinari come Fioravanti e Mambro o a pregiudicati per mafia come Dell’Utri e Contrada. E, se qualcuno chiede che almeno paghino queste campagne invereconde coi loro soldi anziché con i nostri succhiati da Radio Radicale, è un attentato alla libertà di stampa.
Ieri Marco Lillo ha chiamato la Bonino per sapere se intenda espellere dal Comitato nazionale il prode Nicosia e altri due illustri membri, Alessio Di Carlo che ascoltava i suoi insulti a Falcone e Borsellino senza fare un plissé, e Michele Capano, avvocato di boss a lui legato. Ma la madre della patria ha risposto che i radicali non espellono nessuno. Appunto. Lungi da noi sostenere che chi – i radicali, pezzi di sinistra e di destra – è contro il 41-bis, l’ergastolo, i pentiti e le altre armi anti-mafia è complice delle cosche. Ma spesso, dietro il “garantismo” all’italiana, si celano collusioni. Chi si presenta alle elezioni con lo stesso programma di Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra, sa benissimo che riceverà i loro voti e i loro infiltrati. E, se vorrà evitarli, dovrà mettere all’ingresso delle sedi robusti buttafuori per selezionare attentamente i nuovi arrivi. Nel 1987, dopo 40 anni di appoggio incondizionato alla Dc, Cosa Nostra decise di punirla per non aver fermato il maxiprocesso istruito dal pool di Falcone, Borsellino &C. Infatti Totò Riina ordinò ai suoi di votare radicali e socialisti, che avevano appena promosso lo sciagurato referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Poi, dal ’94, Cosa Nostra sostenne FI, avendo in comune il fondatore Dell’Utri e il programma sulla giustizia. Nel 2013 Pannella raccolse le firme (compresa quella del neopregiudicato B.) per abolire – fra l’altro – l’ergastolo, rendere ancor più intimidatoria la responsabilità civile delle toghe e limitare vieppiù la custodia cautelare: Giuseppe Graviano, in carcere, esultò per l’ideona e per la firma di B. Oggi, crollata FI, i clan si guardano intorno a caccia di chi lanci segnali d’apertura alle loro esigenze. Per esempio, chi plaude (o tace) alle scandalose sentenze anti-ergastolo ostativo della Cedu e della Consulta. Posizione legittima, ci mancherebbe, purché chi la tiene apra gli occhi sui voti e gli infiltrati mafiosi in arrivo. Non sollecitarli o rifiutarli (a parole) non basta: bisognerebbe proprio non meritarli.

Berlusconi e la mafia, per Forza Italia è vietato citare le sentenze in tv. Tutti contro Di Matteo che parla di Dell’Utri e i boss: “Mitomane”.

Berlusconi e la mafia, per Forza Italia è vietato citare le sentenze in tv. Tutti contro Di Matteo che parla di Dell’Utri e i boss: “Mitomane”

Il membro del Csm ed ex pm della trattativa Stato-mafia ricorda il patto del Cavaliere con le famiglie mafiose durato almeno fino al 1992, di cui parla la sentenza di condanna del suo braccio destro. E il partito di Arcore perde la testa: "Fa schifo", "Delirio", "Propaganda vergognosa".
Ricordare in tv le sentenze sulla trattativa tra Marcello Dell’Utri e la mafia? Per Forza Italia è vietato. Il partito che solo qualche giorno fa gridava alla limitazione della libertà d’espressione per la nascita della commissione Segre contro l’antisemitismo, oggi si scaglia contro il magistrato Nino Di Matteo. La colpa? Aver ricordato in diretta televisiva su Rai3 il patto tra le famiglie mafiose e Silvio Berlusconi, durato almeno fino al 1992 e al centro di una sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato il braccio destro del Cavaliere e fondatore Fi per concorso esterno in associazione mafiosa. Tanto è bastato per far perdere la testa ai parlamentari berlusconiani che, pur di difendere il leader, hanno diffuso ai giornalisti note allarmate su presunte violazioni commesse dal magistrato solo per aver ricordato la verità dei fatti. “Contro l’ex Cavaliere un vaniloquio da mitomane“, ha detto il deputato Fi e membro della Vigilanza Rai Andrea Ruggieri. “Vergognosa propaganda senza contraddittorio”, ha rilanciato il senatore Fi Maurizio Gasparri. Per la senatrice azzurra Alessandra Gallone, che evidentemente dimentica processi e sentenze, siamo di fronte “ad accuse infondate” e a una “delle più brutte pagine” della Rai. Per il portavoce dei gruppi parlamentari Giorgio Mulè siamo addirittura “all’anarchia informativa“.
Di Matteo su Rai3: “L’Italia ha un deficit di memoria sui fatti”. E ricorda le sentenze sul patto tra “le famiglie mafiose e Berlusconi”A scatenare le polemiche di Forza Italia sono state le frasi del magistrato, ora membro del Csm ed ex pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, sulle stragi di mafia del ’92-94 (Capaci, Via d’Amelio, Georgofili, Via Palestro, le bombe a Roma e il fallito attentato all’Olimpico). “Deve essere approfondita”, ha detto intervistato da Lucia Annunziata a “In mezz’ora in più” su Rai3, “la possibilità che ci sia la responsabilità di ambienti e persone che non sono mafiosi. Il Paese deve avere la volontà di approfondire. Perché sulle stragi si sa molto, ma non si sa tutto. Questo Paese sconta un deficit di conoscenza e memoria su certi fatti”. Di Matteo, sollecitato dalla Annunziata, ha replicato a chi (come Matteo Renzi e Matteo Salviniha detto che le indagini della procura di Firenze a Silvio Berlusconi per le stragi ’92/’93 e l’attentato a Maurizio Costanzo sono “accuse senza uno straccio di prove”: “Voglio riferirmi solo a sentenze definitive: la condanna del senatore Dell’Utri per associazione mafiosa. In quella sentenza viene sancito un fatto”, che “venne stipulato un patto tra le famiglie mafiose con Silvio Berlusconi. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel fatto almeno fino al 1992. C’è una sentenza di primo grado che dice che Dell’Utri l’intermediario lo ha svolto anche nel 1994 quando Berlusconi era premier e continuava a versare centinaia di milioni a Cosa Nostra”.
“Questo elemento”, ha proseguito Di Matteo quindi riferendosi alle dichiarazioni di fine settembre di Salvini e Renzi, “viene continuamente ignorato” dalla “gran parte dell’opinione pubblica e anche da una parte della politica. Quando si parla di ‘accuse senza straccio di prova’, c’è una base di sentenze che viene dimenticata. Le indagini sono doverose”. Secondo l’ex pm antimafia, “è un po’ calata l’attenzione sulla necessità di approfondire tutte le piste investigative secondo le quali insieme a Cosa Nostra altri abbiano responsabilità. Quelle del 1993 sono stragi anomale, che non sono state fatte per mera vendetta. La storia di Cosa Nostra ci insegna che loro hanno cambiato strategia a seconda dei momenti. Sono sempre pronti a riorganizzarsi”. Cinque anni fa – è stato ricordato durante l’intervista – è stato sventato il piano della mafia di far saltare per aria Di Matteo con 200 chili di tritolo.
Forza Italia contro Di Matteo: “Sproloquio di un mitomane”. Ma il magistrato ha solo ricordato le sentenze.
Il primo a parlare è stato il deputato di Forza Italia e membro dello commissione di Vigilanza Rai Andrea Ruggieri: “Ringrazio Lucia Annunziata per averci mostrato oggi come un magistrato possa squalificare, col suo delirio da aspirante politico, un’intero ordine come la magistratura”. E ancora: “Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l’ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole -a che titolo, non si sa- della presunta superficialità degli italiani”. Per Ruggieri Di Matteo avrebbe ricordato le sentenze solo “per protagonismo politico“: “Non solo inventano processi ridicoli e squalificanti, ma pretendano pure che diventino, per tutti gli italiani, unico elemento di discriminazione politica verso chi, evidentemente, qualificano loro avversario politico”. Proprio Di Matteo, nel corso dell’intervista, ha ricordato di non aver mai ricevuto incarichi politici a tutela della sua autonomia e indipendenza.
Non fa più bella figura il senatore Fi Maurizio Gasparri che addirittura si lamenta di un presunto mancato contraddittorio, quando si parla di sentenze passate in giudicato: “Vergognosa propaganda contro Berlusconi su Rai3 dalla Annunziata”, ha detto. Con “Di Matteo, ospitato per rinnovare accuse e polemiche senza alcun fondamento”. E anzi ha cambiato discorso tirando in ballo la vicenda Scarantino: “Non gli è stata fatta una domanda sul suo ruolo nelle indagini riguardanti Scarantino, del quale anche lui si occupò. Agli immemori ricordiamo che Scarantino fu condannato per la strage di via d’Amelio, in cui furono uccisi Borsellino e la sua scorta. Ma poi Scarantino si rivelò estraneo a quella vicenda. Anche Di Matteo svolse un ruolo investigativo. E ricordiamo che su questa vicenda ci sono delle indagini in corso a carico di alcuni magistrati, mentre Di Matteo ha trovato posto al Csm”. E ancora: “C’è molto da chiarire nelle vicende siciliane. E su Di Matteo ci sarebbe molto da dire. Ma in Rai queste domande non gliele fanno mentre gli si lascia spazio per fare le sue affermazioni senza un contraddittorio”.
Disconosce addirittura le sentenze il portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato Giorgio Mulé: “Oramai in Rai siamo all’anarchia informativa: oggi pomeriggio è stato il turno di Rai Tre di incaricarsi di lordare impunemente Silvio Berlusconi. Accostare il presidente Berlusconi e Forza Italia addirittura alle stragi di Cosa Nostra degli anni Novanta merita solo un’espressione: fa schifo. Perché significa bestemmiare la storia e l’impegno di Berlusconi, dei governi a sua guida e di Forza Italia per fare in modo di arrestare i boss e far pagare ai mafiosi in carcere ogni loro responsabilità. Un impegno straordinario che oggi non ha trovato spazio in Rai, neanche sotto forma di dubbio, durante l’inginocchiamento davanti al magistrato intervistato”.
In difesa dell’ex Cavaliere interviene anche il senatore Fi Renato Schifani, anche lui gridando a presunte “imparzialità”: “Quando la Rai la smetterà di consentire accuse senza contraddittorio nei confronti di Berlusconi per ricondurre l’informazione a principi di imparzialità e rispetto della verità?”.
Stesso ritornello per Alessandra Gallone, vicepresidente dei senatori Fi e membro della Vigilanza Rai, “oggi su Rai Tre è andata in onda una delle più brutte pagine di becera propaganda anti berlusconiana che francamente speravamo di esserci lasciati alle spalle”. E anche lei, dimenticando le sentenze, reinterpreta la storia a modo suo: “E invece, in spregio alla storia e alla verità, nel programma In Mezz’ora ancora spazio esclusivo per rinnovare accuse assolutamente infondate contro Berlusconi, usando il servizio pubblico come un pulpito. Siamo veramente stufi di questo uso spregiudicato dell’azienda pubblica radiotelevisiva, in cui si concedono spazi senza contraddittorio per fini politici come se la Rai fosse una cosa propria e non la tv pubblica. È tempo che la Commissione parlamentare di Vigilanza affronti la brutta deriva antidemocratica che si sta registrando”.

Nino Di Matteo a Mezz'ora in Più: "O cambiamo noi magistrati o saremo normalizzati".


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Il magistrato ricorda: "Ci sono sentenze definitive sul patto tra mafia e Silvio Berlusconi".


“O cambiamo noi, o ci cambiano altri, magari a colpi di riforme con lo scopo di normalizzare la magistratura”. Lo ha detto il consigliere del Consiglio Superiore della magistratura Nino Di Matteo, ospite di Mezz’ora in Più su Rai Tre.  L’inchiesta di Perugia “ci deve indignare ma non sorprendere, soprattutto non piegare. Non dobbiamo rassegnarci all’idea di una magistratura malata. La magistratura italiana ha scritto pagine altissime nella nostra storia”. “Sono certo che sotto la guida del presidente Mattarella il Csm saprà emendarsi per le cose passate. Dobbiamo reagire e impegnarci per recuperare. Nel momento in cui avevano perso prestigio è prevalsa in me la volontà di dare una mano e un contributo al recupero dell’autorevolezza” ha aggiunto.
“Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l’allora imprenditore Berlusconi””, ha poi ricordato Di Matteo.
“Sulle stragi del ’92 e ’93, e anche sul fallito attentato allo stadio Olimpico del ’94, si sa molto ma non si sa tutto”, ha detto.
“L’ergastolo è l’unica vera pena detentiva a spaventare i capimafia. Riina diceva ai suoi, ci dobbiamo giocare i denti per evitare l’ergastolo. Secondo il mio parere il legislatore deve stabilire che tipo di prova ci vuole per far accedere anche gli ergastolani ai premi, come l’assenza di rapporti con con i clan. Non può dipendere solo dal comportamento perché è noto che i capimafia normalmente in carcere si comportano meglio di tutti gli altri”, ha detto Di Matteo a proposito delle sentenze Cedu e Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.
Di Matteo ha poi aggiunto di essere favorevole alla legge che blocca la prescrizione che entrerà in vigore a gennaio, mentre è contrario a qualsiasi intervento in tema di intercettazioni, come la legge Orlando che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2020. Infine, sulla liberalizzazione delle droghe leggere, il magistrato si è detto contrario.

lunedì 4 novembre 2019

Arrestato il radicale Antonello Nicosia, ritenuto "messaggero dei boss mafiosi".

Nicosia

Assistente della deputata Occhionero (IV), secondo la Procura faceva da tramite fra capimafia in carcere e i clan. intercettato, insultava Falcone ed elogiava Messina Denaro. In manette anche il capomafia di Sciacca Accursio Dimino.


La Procura di Palermo ha fermato 4 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa e favoreggiamento. In carcere, tra gli altri, sono finiti il capomafia di Sciacca Accursio Dimino e Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, per anni impegnato in battaglie per i diritti dei detenuti. Insieme a una parlamentare di cui si sarebbe detto collaboratore ha incontrato diversi boss detenuti. Secondo la Procura avrebbe fatto da tramite tra capimafia, alcuni dei quali al 41 bis, e i clan, portando all’esterno messaggi e ordini.

Intercettato, Nicosia insultava Giovanni Falcone e di Matteo Messina Denaro diceva: ”È il nostro premier”. 

L’audio choc: “Falcone vittima di un incidente sul lavoro”


La parlamentare al cui seguito Nicosia è entrato in istituti di pena di alta sicurezza è Giuseppina Occhionero, 41 anni, avvocato, molisana, eletta alle ultime elezioni politiche nelle liste di Leu e recentemente passata a Italia Viva, il partito di Matteo Renzi. La deputata non è al momento indagata, ma sarà sentita dai pm di Palermo come testimone. Sostenendo di essere collaboratore della donna, Nicosia poteva avere incontri con padrini mafiosi. Nelle conversazioni intercettate, l’esponente Radicale sottolineava il vantaggio di entrare negli istituti di pena insieme alla deputata in quanto questo genere di visite non erano soggette a permessi. Nicosia, secondo i magistrati, non si sarebbe limitato a fare da tramite tra i detenuti e le cosche, ma avrebbe gestito business in società col boss di Sciacca Dimino, con cui si incontrava abitualmente, fatto affari coi clan americani e riciclato denaro sporco.

Da alcune intercettazioni emergerebbero anche progetti di omicidi. L’inchiesta, condotta da Ros e Gico, è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara e Francesca Dessì.

Da Nicosia insulti a Falcone, Messina Denaro è “il nostro premier”. Insulti pesantissimi a Giovanni Falcone che, la cui morte viene definita “incidente sul lavoro” e che “da quando era andato al ministero della Giustizia più che il magistrato faceva il politico”. Un linguaggio volgare quello usato da Antonello Nicosia, intercettato per mesi dal Ros e dal Gico della Finanza. Sprezzanti i giudizi sul giudice ucciso dalla mafia a Capaci nel 1992. “All’aeroporto bisogna cambiare il nome... Non va bene Falcone e Borsellino... Perché dobbiamo arriminare (girare, ndr) sempre la stessa merda... Sono vittime di un incidente sul lavoro, no?”. Definiva inoltre il boss Matteo Messina Denaro “il nostro primo ministro”. Non sapendo di essere intercettato, Antonello Nicosia parlava così della Primula rossa di Cosa nostra. Al telefono discuteva animatamente del padrino di Castelvetrano. E invitava il suo interlocutore parlare con cautela di Messina Denaro. “Non devi parlare a matula (a vanvera, ndr)”, diceva.

Chi è Antonello Nicosia. Direttore dell’Osservatorio Internazionale dei diritti umani (Oidu), pedagogista, laureato in Scienze della Formazione multimediale con una tesi sul “Trattamento penitenziario, ascoltare e progettare per rieducare sorvegliare e rieducare, l’esperienza carcere”, Antonello Nicosia, originario di Sciacca, fermato oggi per associazione mafiosa insieme al boss di Sciacca Accursio Dimino, è stato eletto per due anni (2017-2018) come componente del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani. Per i pm sarebbe vicino all’ala di Cosa nostra che fa riferimento al boss latitante Matteo Messina Denaro. Nel curriculum allegato al sito dell’Oidu elenca esperienze nella formazione professionale in particolare nella progettazione di corsi per svantaggiati sociali e disoccupati. Sempre nel curriculum si dice “assistente parlamentare” e “docente a contratto nella scuola pubblica come esperto nei corsi PON”. Nel 2011 è stato coordinatore del progetto “La Tavola Multiculturale” attività a favore della formazione e dell’integrazione degli immigrati. Nicosia indica tra i suoi titoli quello di ricercatore presso l’Invalsi, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, e quello di insegnante di Storia della mafia nell’Università della California. Per i pm, oltre a portare all’esterno i messaggi dei mafiosi che incontrava durante le sue visite in carcere, avrebbe gestito gli affari del clan in America e riciclato denaro sporco.

Gigi Proietti parla un napoletano inventato

Il governo non si tiri indietro su tasse “verdi” e virtuose. - Luisella Costamagna

Il governo non si tiri indietro su tasse “verdi” e virtuose.

Al netto del balletto quotidiano, insopportabile, di quello che entra e di quello che esce dalla manovra, dell’approccio un po’ democristiano di voler accontentare tutti – con tanti piccoli provvedimenti poco incisivi (tipo una rivalutazione delle pensioni che porterà in saccoccia ben 3 euro l’anno e manco per tutti i pensionati, da scialare…) – col rischio di non accontentare nessuno, e al netto del racconto strumentale su presunte stangate, il primo dato di fatto su cui bisogna insistere per difendersi dalla propaganda è che la Legge di Bilancio, che arriva in Parlamento la prossima settimana, toglie 26 miliardi di tasse pronte a scattare (23 solo di Iva) e ne mette 5. Toglie, non mette. Il secondo dato di fatto è che è ispirata a principi di coerenza ed equità, che il nostro Paese attendeva da tempo: intanto mantenere le promesse e le cose (buone) già fatte, perché la parola e le persone contano e non si può giocare sulla loro pelle (in questo senso vanno il sospirato disinnesco dell’aumento Iva nel 2020 e la conferma del Reddito di Cittadinanza, Quota 100 e Flat Tax sulle partite Iva); poi aiutare i lavoratori, prima delle imprese (taglio del cuneo fiscale, per rimpolpare buste paga tra le più basse d’Europa); aiutare le famiglie e i redditi più bassi (gratuità degli asili nido, abolizione del superticket, taglio delle detrazioni per redditi più alti, fondi per scuola e ricerca); tutelare l’ambiente e la salute, perché non ci si può riempire la bocca di peana per Greta e insieme ingolfarsi di zucchero, plastica e petrolio (Sugar Tax sulle bevande zuccherate, come hanno paesi civili come Francia, Danimarca, Irlanda, Regno Unito, la Norvegia addirittura dal 1922 e come impone il triste record italiano in Europa di bambini obesi o sovrappeso, uno su tre nella fascia 6-9 anni; Plastic Tax, come stanno facendo tutti i Paesi europei per adeguarsi alla direttiva Ue che, a partire dal 2021, metterà al bando prodotti di plastica monouso; bonus/malus per chi lascia/usa auto e scooter inquinanti); combattere seriamente l’evasione fiscale, abbassando la soglia sull’uso del contante e prevedendo premi per i contribuenti onesti e chi usa pagamenti tracciabili (cashback e lotteria degli scontrini) e punizioni per chi non usa il Pos (non prima di aver tagliato le commissioni delle banche) e per i grandi evasori (inasprimento delle pene e carcere per reati fiscali come dichiarazioni fraudolente), invece del classico ritornello nostrano dei premi per gli evasori (con condoni, scudi, voluntary disclosure, paci fiscali…).
Il terzo e ultimo dato di fatto è la retorica dominante che accompagna queste misure e che negli anni ha soffocato qualunque tentativo di cambiamento verso la civiltà nel nostro Paese: si ripete ossessivamente che è una “manovra delle tasse” di un “governo delle tasse”, che “si usano le imposte come strumento di indirizzo al Paese, persino per agevolare comportamenti virtuosi”, “una strada punitiva” e via a sostenere i soliti grumi di interesse, che sono “sul piede di guerra” e pretendono “una marcia indietro del governo”. E negli anni l’hanno sempre ottenuta, usando il ricatto del rifarsi sui cittadini.
Mi auguro che il governo, per una volta, dica basta e vada a avanti lo stesso. Anche con le tasse, ebbene sì. Se un principio è giusto, è giusto. Se un comportamento è virtuoso, è virtuoso. Punto. Gli imprenditori aumenteranno i prezzi dei prodotti? Prendiamocela con chi lo fa, tuteliamo i consumatori e le imprese serie, non smontiamo una rivoluzione possibile. In un Paese incancrenito come il nostro – lo sappiamo bene – non si riescono a cambiare le cose con le buone. Chi ci ha provato ha fallito. Per un ambiente, un lavoro, una società, un fisco, una vita e un futuro sostenibili, in Italia – ormai è chiaro – ci vogliono (anche) le cattive.