giovedì 14 novembre 2019

Le città che possono insegnare a Venezia come difendersi dall'acqua. - Veronique Viriglio

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Oosterscheldekering - barriera di sbarramento - Olanda

L'Olanda, la Russia, la Gran Bretagna e gli Usa possono ispirare la futura difesa della città lagunare attraverso modelli virtuosi e funzionanti. 

Dighe, polder, dune, sbarramenti: sono tanti gli impianti in servizio nel mondo per proteggere città e intere regioni da un eventuale innalzamento del livello delle acque, che in questi giorni infligge danni incalcolabili a Venezia: dall'Olanda, modello in questo settore, alla Gran Bretagna passando per Russia e Stati Uniti.

Olanda.
Con un territorio per il 40% sotto il livello del mare, senza i suoi 18 mila chilometri di dighe, dune e sbarramenti l'Olanda sarebbe solo una grande palude e non la quinta economia dell'Eurozona. Da decenni non solo si sta proteggendo da un potenziale innalzamento del livello delle acque del Mare del Nord ma sta anche esportando le sue soluzioni in tutto il mondo, con 7 miliardi di fatturato annuo.

Nei Paesi Bassi, dopo la grande inondazione della Zelanda nel 1953, è stato realizzato il mega progetto del Piano Delta, andato avanti tra il 1954 e il 1997. Si tratta del più grande sistema al mondo di protezione dal mare a tutela della zona densamente popolata della foce del Reno, della Mosa e della Schelda. Il Piano Delta è costituito da 13 opere idrauliche diverse e innovative: 3 chiuse, 6 dighe e 4 barriere anti mareggiata. Sono tutt'ora una grande attrattiva e caratteristica dell'Olanda, oltre a collegare tra loro in maniera innovativa le isole.

Uno degli impianti più noti è la grande diga di sbarramento Oosterscheldekering, la barriera della Schelda orientale, situata nella provincia occidentale dello Zeeland, costruita tra il 1976 e il 1986, che protegge Amsterdam. Il progetto costò l'equivalente di 2,5 miliardi di euro, vale a dire circa due terzi del costo dell'intero Piano Delta.

La diga anti mareggiata, lunga 9 chilometri - la più estesa nel Paese - è formata da 65 piloni e 62 paratie scorrevoli alte dai 6 ai 12 metri, che si alzano verso l'alto e il basso, azionate dalla J.W. Topshuis, che si trova sull'isola di Neeltje Jans. Le paratie vengono chiuse in media una volta all'anno quando si prevede un innalzamento del livello dell'acqua di tre metri rispetto al NAP, ovvero il "Livello Normale di Amsterdam", utilizzato da secoli in Olanda come punto di riferimento per tutte le misurazioni del livello del suolo.
In 75 minuti le paratie vengono chiuse completamente, proteggendo quindi il paese da eventuali inondazioni dal Mare del Nord. Il progetto iniziale prevedeva la costruzione di una diga chiusa ma poi, grazie alla collaborazione di ambientalisti, pescatori e ostricoltori, e' stato modificato in una diga semi aperta per evitare la scomparsa della flora e fauna marina.
I marinai possono ancora raggiungere il mare aperto attraverso la barriera passando per la chiusa Roompotsluis, quindi andare a pescare le aragoste della Schelda orientale oltre a pesce prelibato mentre vengono sempre coltivate le ostriche della Zelanda. Inoltre la barriera collega anche le isole di Schouwen-Duiveland e Noord-Beveland nella provincia dello Zeeland. L'intera area, importante attrazione turistica, è stata dichiarata parco nazionale con il nome di "Parco nazionale della Schelda orientale".

A proteggere dalle inondazioni costiere Rotterdam e il suo porto è la barriera della Meslant (Maeslantkering) nella provincia Zuid-Holland, localizzata all'imboccatura del Nieuwe Waterweg nel Mare del Nord, realizzata tra il 1991 e il 1997, opera conclusiva del Piano Delta. E' costituita da due paratoie rotanti in acciaio alte 22 metri e lunghe ciascuna 210 metri, azionate da un sistema automatico che si attiva all'innalzamento del livello delle acque. Vengono chiuse annualmente per verificarne il funzionamento e l'intero processo necessita di circa quattro ore, due per la chiusura e due per l'apertura.

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La diga di Maeslantkering

L'8 novembre 2007 le paratoie furono chiuse per affrontare l'emergenza derivata dalla tempesta "Tilo", causa di onde alte a 3 metri di altezza. Negli ultimi anni la città di Rotterdam sta affrontando il problema dell'innalzamento del livello del mare con soluzioni innovative e green: un giardino pensile che può diventare uno Smart Roof per prevedere le precipitazioni e conservare l'acqua piovana e una fattoria galleggiante di 35 mucche che forniscono alla gente del posto la loro pinta di latte fresco al giorno.

Gran Bretagna.
Il Tamigi è traversato da una barriera, la Thames Barrier, alta come un edificio di sei piani che chiude i portelloni quando il mare minaccia di allagare l'entroterra. Situata a Woolwich Reach, a sud dell'abitato di Londra, il suo scopo è quello di prevenire eccezionali ondate di alta marea. La struttura di regolazione del flusso del fiume omonimo e' stata costruita tra il 1974 e il 1984 ed è costata circa 623 milioni di euro.

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Thames Barrier.

È costituita da nove piloni di calcestruzzo e due spalle sulle rive del fiume, suddividendo la larghezza del fiume in quattro canali larghi 60 metri, due più piccoli da 30 metri, tutti navigabili, ed altri quattro larghi 30 metri non navigabili. Comprende paratie costruite in acciaio che ruotano su se stesse per chiudere i varchi in caso di necessità. Sono vuote all'interno e possono essere riempite d'acqua in caso di necessità, divenendo operative e chiuse in soli 15 minuti dalla loro messa in funzione.

Prima del 1990, il sistema era entrato in funzione da una a due volte l'anno in media. Dal 1990 il numero delle chiusure è aumentato a quattro per anno e nel 2003 vennero chiuse per ben 14 maree consecutive. Le barriere vennero chiuse due volte il 9 novembre 2007 per far fronte ad una tempesta sul mare del Nord simile a quella del 1953. Nell'inverno 2013-2014 le paratie sono state chiuse per ben 28 volte, stabilendo un record.

Russia.
Nel 2011 a San Pietroburgo è stata inaugurata una diga colossale per proteggere la città dalle piene del fiume Neva, separandolo dal resto del Golfo di Finlandia. Il dispositivo lungo 25 chilometri, più imponente opera pubblica costruita in Russia negli ultimi anni, costata l'equivalente di 2,7 miliardi di euro, può resistere a piene di oltre 5 metri.

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Diga di San Pietroburgo

La sua costruzione è cominciata nel 1971 e dopo alcuni anni di fermo, negli anni 90 e 2000, il cantiere è stato riaperto dal presidente Vladimir Putin, originario di San Pietroburgo, con l'aiuto di esperti olandesi e grazie al sostegno della Banca europea per gli investimenti. Concepita dal britannico Halcrow Group, la diga è lunga 25,4 km e alta 8 metri.

L'opera di protezione con argini estesi su 23 km è sormontata da un'autostrada a sei corsie e comprende opere idrauliche oltre a due passaggi navigabili da grandi imbarcazione e sei passaggi larghi 300 metri che lasciano transitare l'acqua liberamente. In caso di allerta sportelli e valvole vengono chiusi per formare una barriera totalmente ermetica. La diga è oggetto di critiche da parte degli ambientalisti.

Stati Uniti.
Il 23 agosto 2005 l'uragano Katrina ha sommerso l'80% della città di New Orleans: gli argini dei numerosi canali che la attraversano non hanno retto. In difesa di New Orleans è stato costruito un nuovo anello di dighe, barriere, chiuse e pompe collegate tra loro, lungo 560 chilometri. La città della Louisiana è all'80% sotto il livello del mare.  


https://www.agi.it/estero/difesa_acqua_alta_olanda_russia_londra-6544471/news/2019-11-14/?fbclid=IwAR282egZerBjauuB_uP2sHEIRotympt_HA2w-8Eim9eYHAvMaNzjD4cAFTc

ANSA.it Lombardia Tangenti: Gdf arresta Lara Comi Tangenti: Gdf arresta Lara Comi.



Ai domiciliari come ad supermercati Tigros. In carcere dg Afol.


Il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, coi colleghi di Busto Arsizio, ha arrestato l'ex eurodeputata di FI Lara Comi, l'ad dei supermercati Tigros Paolo Orrigoni, entrambi ai domiciliari, e il dg di Afol Metropolitana Giuseppe Zingale (in carcere). In un filone dell'indagine 'Mensa dei Poveri' l'ordinanza è stata firmata dal gip Raffaella Mascarino e chiesta dai pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri per accuse, a vario titolo, di corruzione, finanziamento illecito e truffa.

"Nonostante la giovane età, Lara Comi ha mostrato nei fatti una non comune esperienza nel fare ricorso ai diversi, collaudati schemi criminosi volti a fornire una parvenza legale al pagamento di tangenti, alla sottrazione fraudolenta di risorse pubbliche e all'incameramento di finanziamento illeciti". E' scritto nel'ordinanza di custodia cautelare che ha portato l'ex europarlamentare agli arresti domiciliari.

"Dall'esame degli elementi indiziari (...) emerge la peculiare abilità che l'indagata Comi ha mostrato di aver acquisito nello sfruttare al meglio la sua rete di conoscenze al fine di trarre" dal ruolo pubblico "di cui era investita per espressione della volontà popolare il massimo vantaggio in termini economici e di ampliamento della propria sfera di visibilità". Lo scrive il gip di Milan Raffaella Mascarino nell'ordinanza di arresto per l'ex europarlamentare e altri due.

Intercettazioni in cui Nino Caianiello, presunto "burattinaio" del sistema di mazzette, finanziamenti illeciti, nomine e appalti pilotati, la insultava anche dandole della "cretina" e poi verbali di indagati, tra cui anche quello del suo ex addetto stampa, che la tiravano in ballo. C'era già questo ed altro su Lara Comi negli atti della maxi inchiesta milanese 'Mensa dei poveri' che oggi, con nuovi sviluppi anche basati proprio sui verbali del "grande manovratore" che da tempo sta collaborando coi pm, hanno portato all'arresto dell'ormai ex eurodeputata, oltre a quello dell'ad di Tigros Paolo Orrigoni e del dg di Afol Giuseppe Zingale. "Veniamo sulle due cose, uno questa cretina della Lara a che punto stiamo? (Lara Comi, ndr) perché io la vedo stasera, così gli faccio lo shampoo", diceva Caianiello, intercettato il 29 novembre 2018, parlando con Zingale che gli rispondeva: "il 17 già liquidato, 21 gli ho fatto il contratto".

L'operazione è un nuovo filone della maxi indagine che il 7 maggio portò a 43 misure cautelari eseguite, tra gli altri, nei confronti dell'ex coordinatore di Forza Italia a Varese Nino Caianiello, del consigliere lombardo 'azzurro' Fabio Altitonante e dell'allora candidato alle Europee e consigliere comunale in quota FI Pietro Tatarella. Sono state proprio le dichiarazioni ai pm di Caianiello, presunto "burattinaio" del sistema e interrogato molte volte nei mesi scorsi, a confermare un quadro accusatorio già emerso dai primi racconti di imprenditori e indagati in Procura dopo il blitz. Lara Comi risponde di tre vicende. La prima riguarda due contratti di consulenza ricevuti dalla sua società, la Premium Consulting Srl, con sede a Pietra Ligure (Savona), da parte di Afol e, in particolare, dal dg Zingale, "dietro promessa di retrocessione di una quota parte agli stessi Caianiello e Zingale", come riportato negli atti depositati nella tranche principale. Circostanza messa a verbale da Maria Teresa Bergamaschi, avvocato e stretta collaboratrice dell'ex eurodeputata in un interrogatorio del 14 maggio: "Il 15 dicembre 2018 mi arrivò un messaggio di Lara Comi (...) mi scriveva 'Zingale vorrà un regalo di Natale'". E aggiunse : "Mi parlò della necessità di pagare in vista dell'estensione dell'incarico una cifra di 10 mila euro a Zingale". L'esponente di FI è accusata anche di aver ricevuto un finanziamento illecito da 31 mila euro dall'industriale bresciano titolare della Omr holding e presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti. Il versamento sarebbe stato effettuato in vista delle ultime elezioni europee e per una consulenza basata su una tesi di laurea scaricabile dal web dal titolo "Made in Italy: un brand da valorizzare e da internazionalizzare per aumentare la competitività delle piccole aziende di torrefazione di caffè". Nel terzo episodio (truffa aggravata al Parlamento europeo) è coinvolto anche il giornalista Andrea Aliverti, che collaborava con Comi come addetto stampa, con compenso di mille euro al mese, rimborsati dall'Europarlamento. Interrogato dai pm ha dichiarato di avere ricevuto un aumento a tremila euro, con l'obbligo di restituirne duemila a FI per pagare le spese della sede che Comi non pagava. Di Orrigoni, infine, ex candidato sindaco di Varese, ha invece parlato l'imprenditore Pietro Tonetti. Ha raccontato che, d'intesa con lui, Orrigoni avrebbe versato l'anticipo di 50mila euro della presunta tangente, mascherata sotto forma di incarico a uno studio di ingegneristica, per ottenere la variante di destinazione d'uso di un terreno a Gallarate su cui aprire un nuovo punto vendita Tigros.

Mose, cronistoria dell’opera che dovrebbe separare le acque: dal via libera di Berlusconi, 18 anni tra tangenti, lavori rinviati e ruggine. - Daniele Fiori

Mose, cronistoria dell’opera che dovrebbe separare le acque: dal via libera di Berlusconi, 18 anni tra tangenti, lavori rinviati e ruggine

Da un'alluvione all'altra: il grande bluff del sistema pensato per proteggere Venezia dalle maree. L'idea nacque dopo il 1966, negli Anni 80 furono presentati i primi progetti. Poi il via libera con la legge obiettivo del 2001, i cantieri aperti nel 2003, gli arresti per le mazzette tra 2013 e 2014. Oggi il Mose è costato quasi 6 miliardi di euro e non è ancora pronto - TUTTE LE TAPPE.

Sono passati 53 anni dalla prima alluvione. 16 dall’inizio dei lavori. Altri 8 dalla prima data fissata per l’inaugurazione dell’opera. Eppure ancora oggi, mentre Venezia è stata sommersa da una marea che ha portato l’acqua fino a 187 centimetri d’altezza, nessuno sa con certezza se e quando il Mose riuscirà a separare le acque e difendere la laguna dalla forza del mare. Di un’opera che proteggesse la Basilica di San Marco e la città si iniziò a parlare proprio dopo gli enormi danni provocati dall’alluvione del 1966. Il governo Berlusconi nel 2001 stanziò i primi soldi per il “progettone“, nel frattempo diventato noto proprio con il nome di Mo.s.e. (Modulo sperimentale elettromeccanico): in pratica, delle dighe mobili che chiudano le tre bocche di porto quando la marea supera i 110 centimetri, proprio come successo martedì sera. Costo: 5,493 miliardi di euro. I lavori cominciarono nel 2003 ma il vero spartiacque, è il caso di dire, furono gli arresti che tra 2013 e 2014 scoperchiarono il sistema di tangenti, colpendo imprenditori, politici e vertici del concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova. Dopo lo scandalo, sono sorti i problemi di natura tecnica: la paratie sono risultate inceppate dalla sabbia che si deposita sui fondali, le cerniere in acciaio – fondamentali per far funzionare il meccanismo – si stanno arrugginendo. Intanto, il prezzo continua a lievitare verso i 6 miliardi di euro, che diventano 8 se si considerano anche le altre opere per la salvaguardia della laguna dalle maree.
Dall’alluvione del 1966 a quella odierna, ecco la cronistoria del Mose, al momento fermo sott’acqua come la città che dovrebbe proteggere.
1966 – Durante l’alluvione del 4 novembre di 53 anni fa Venezia e i centri della laguna vengono sommersi da 194 centimetri d’acqua: un record solo sfiorato dalla marea di martedì notte che è arrivata fino a 187 cm. Proprio dopo quel disastro si fa largo l’idea di proteggere la città dal mare. Inizia così un lungo iter legislativo e tecnico.
1975 – Il ministero dei Lavori pubblici indice un appalto concorso per realizzare un efficace sistema di difesa dal mare della laguna. Nessuna ipotesi risulta adeguata alle esigenze richieste
1981 – Gli elaborati del concorso del 1975 vengono affidati a un gruppo di esperti al fine di elaborare un progetto definitivo, diventato noto come il “Progettone“.
1984 – Una legge speciale istituisce il Comitato di indirizzo, coordinamento e controllo degli interventi di salvaguardia (il cosiddetto “Comitatone”) e ne affida la progettazione e l’esecuzione ad un unico soggetto, il Consorzio Venezia Nuova.
1992 – Viene ultimato il progetto delle opere mobili alle bocche di porte per il controllo della marea, dopo varie sperimentazione condotte fin dal 1988 su un prototipo di paratoia noto come Mo.s.e. (Modulo sperimentale elettromeccanico): è il nome che poi viene dato all’intera opera.
1994 – Arriva il primo via libera dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: per difendere Venezia dalla maree verranno costruite quattro dighe mobile alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia
2001 – La famosa legge obiettivo del governo Berlusconi comincia a stanziare i primi soldi per la realizzazione del Mose (subito 5,2 miliardi di euro sui 5,4 necessari) e fissa anche una data per il completamente dell’opera: il 2011.
2003 – Il progetto definitivo viene presentato nel 2002, un anno dopo vengono aperti i cantieri alle tre bocche di porto di Lido (dove sono previste due schiere di paratoie mobili, la Lido Treporti con 21 e la Lido San Nicolò con 20), Malamocco (19 barriere) e Chioggia (18 paratoie). Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi inaugura i lavori.
Febbraio 2013 – Mentre la prima data di consegna è già stata sforata di due anni, arriva la prima ondata di arresti che comincia a colpire il sistema di corruzione nato intorno all’opera. Il primo a finire in carcere a febbraio è il manager di Mantovani, Piergiorgio Baita, rivelando molto di quello che sarebbe poi diventato lo scandalo Mose. Gli inquirenti il 12 luglio dispongono gli arresti domiciliari per Giovanni Mazzacurati, direttore generale del Consorzio Venezia Nuova, con l’accusa di turbativa d’asta.
Ottobre 2013 – Si alza la prima paratoia alla bocca di porto di Lido-Treporti: presenti ed entusiasti il ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi, il governatore del Veneto Luca Zaia e il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni.
Giugno 2014 – La seconda ondata di arresti svela il sistema di tangenti distribuite per oliare il meccanismo dei finanziamenti: secondo gli inquirenti, 33 milioni di euro di fatture false. Il 4 giugno vengono arrestate 35 persone, un centinaio gli indagati. Ci sono imprenditori e politici che negli anni sono entrati nel libro paga di Giovanni Mazzacurati, tra cui l’ex governatore leghista Giancarlo Galan.
Novembre 2014 – Il presidente del Consiglio Matteo Renzi propone il commissariamento del Consorzio. Vengono nominati Giuseppe FiengoFrancesco Ossola e Luigi Magistro, poi dimessosi. Il commissariamento è ancora in atto.
2015 – Si scopre che i lavori alla barriera di Lido Treporti – che in teoria dovevano terminare a fine 2014 – sono rimasti bloccati per otto mesi. La possibile messa in funzione del Mose viene ancora fatta slittare al 2018.
2017 – Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio fissa per dicembre 2018 il termine dei lavori e la consegna dell’opera definitiva al 31 dicembre 2021. Nel Consorzio Venezia Nuova emerge la consapevolezza dei problemi che umidità e infiltrazioni stanno causando su paratie e cerniere.
Gennaio 2018 – Il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Roberto Linetti, annuncia che sarà difficile rispettare la scadenza di fine 2018. Svela anche che il Mose costerà 80 milioni di euro all’anno per restare in attività e per essere mantenuto in buono stato di funzionamento.
Dicembre 2018 – Vengono messe in acqua le ultime paratoie alla bocca di San Nicolò, al Lido Sud. Alla bocca di Chioggia ne erano state collocate 18 nel 2017. Nello stesso anno erano state messe le 19 di Malamocco. In precedenza le 21 di Treporti. Nel frattempo si sono già manifestati i primi fenomeni di ruggine.
Luglio 2019 – Il Fatto Quotidiano rivela che le 156 cerniere del Mose, progettate per durare 100 anni, hanno in realtà una vita che in alcuni casi e per alcune componenti arriva a 13 anni. Sono consumate dalla ruggine e per questo il Consorzio Venezia Nuova ha deciso di correre ai ripari con una gara internazionale per lo studio degli interventi, dei materiali più adatti, delle tecniche di protezione e, ove necessario, della sostituzione delle cerniere.
Novembre 2019 – La prova delle 19 paratoie mobili alla bocca di porto di Malamocco prevista per il 4 novembre, anniversario dell’alluvione del 1966, viene annullata. Alcuni tubi che immettono aria e acqua per consentire l’innalzamento e l’abbassamento dei portelloni hanno manifestato vibrazioni anomale. Una settimana dopo la marea torna a colpire Venezia: l’acqua arriva a 187 centimetri, ci sono danni alla Basilica di San Marco e nel centro storico, decine di gondole e barche vanno distrutte.
Il futuro – Una data possibile per il termine dei lavori è la fine del 2021. Una data più plausibile il 2022. Intanto, il prezzo fissato a 5 miliardi e 493 miloni di euro viaggia verso i sei miliardi. Senza considerare le altre opere per la salvaguardia della laguna: in quel caso il conto arriva a 8 miliardi di euro. Senza sapere se il Mose riuscirà mai a separare le acque.

Forza Ladri Vivi - di Marco Travaglio

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Il problema è sempre un altro. Sull’evasione, una delle migliori trovate dei benaltristi è che limitare il contante non serve perché i “grandi evasori” se ne infischiano se la soglia del cash scende da 3 mila euro a mille. Peccato che l’evasione di 110-130 miliardi l’anno sia la somma delle grandi, medie e piccole evasioni; e quelle medie e piccole sono in gran parte di criminali che incassano in contanti dal pizzo, dallo spaccio, dalla prostituzione e devono riciclare il bottino con pagamenti legali per non destare sospetti. A questo punto il benaltrista ha pronto il piano B: le manette non servono, perché è molto più utile “incrociare i dati”. Peccato che i dati siano tutti lì a disposizione, ormai anche dai paradisi fiscali, infatti siamo pieni di organismi che li incrociano; il guaio è che, una volta scovati, gli evasori non vengono neppure indagati perché, per commettere reato, dovrebbero superare soglie così alte che non riuscirebbero a valicarle neppure se s’impegnano. E comunque la prescrizione è assicurata: l’accertamento arriva 3-4 anni dopo la dichiarazione infedele o fraudolenta, quando non c’è più tempo per fare indagini, udienza preliminare e tre gradi di giudizio. E, anche se si fa in tempo, le pene sono così irrisorie da diventare non un freno, ma un incentivo a evadere e frodare.

Ma ecco pronto il benaltrista col piano C: il carcere non serve perché è meglio “confiscare il maltolto”. Ora, a parte che l’una cosa non esclude l’altra, anzi vanno di pari passo, oggi lo Stato riesce a recuperare meno del 5% dell’evasione che accerta. E, se quasi tutte le evasioni restano sotto le soglie di non punibilità, le indagini non partono proprio, dunque non scatta neppure il sequestro preventivo, figurarsi la confisca finale. In ogni caso, anche se si arriva alla confisca, l’evasore può fingersi nullatenente e, se ha un’azienda, simulare perdite e bisogna ricominciare da capo per dimostrare che i soldi li nasconde, e poi scovarli. Tantopiù che, per i reati fiscali, le società non sono soggette alla legge 231 sulla responsabilità penale delle persone giuridiche. E non si rischia il sequestro “per sproporzione” (fra beni posseduti e redditi dichiarati). Ora, per la prima volta nella storia, il governo Conte rimedia a tutti questi buchi con un ventaglio di norme di raro buonsenso ed efficacia. I pagamenti cash consentiti passano da 3 mila a 2 mila euro nel 2020 e a mille nel 2021. Le soglie di impunità scendono. I massimi e i minimi di pena aumentano, così per i casi più gravi si va in galera sia prima (custodia cautelare) sia dopo la sentenza (espiazione pena) e, in più, si può intercettare.

La 231 si applica alle società anche per reati fiscali (con pene pecuniarie fino a 500 “quote”). E il sequestro per sproporzione vale anche per evasori e frodatori. In più, con la Spazzacorrotti in vigore da un anno, per tutti i reati (non solo fiscali) commessi dal 1° gennaio 2020 la prescrizione si bloccherà alla sentenza di primo grado: fra 3-4 anni, quando arriveranno i primi verdetti, nessuno avrà più speranza di farla franca allungando i tempi in appello e in Cassazione. Le anime in pena che, a corto di argomenti, vanno cercando l’“anima” del Conte 2 dovrebbe riconoscere che è una rivoluzione copernicana: morale (basta con l’iniquità di un sistema che costringe i poveri e gli onesti a mantenere con tasse altissime i ricchi e i ladri che non le pagano), sociale (si redistribuisce più equamente la ricchezza) e finanziaria (si recuperano risorse per le riforme sempre rinviate per mancanza di fondi). Infatti il Partito Trasversale degli Evasori (il primo in Italia: 11 milioni di elettori) sta scatenando i suoi partiti – centrodestra e Italia Viva – e giornaloni con raffiche di emendamenti e fake news.


Forza Italia Viva non si premura neppure di dare un minimo di coerenza alle balle che racconta. Ettore Rosato, già celebre per aver dato i natali alla peggior legge elettorale della storia, riesce a sostenere restando serio che, nell’ordine: “le manette non sono strumenti per combattere l’evasione” (peccato che siano in vigore in tutto il mondo fuorché in Italia); “servono solo a spaventare chi vuole investire in Italia” (Rosato è convinto che chi investe in Italia lo faccia per evadere il fisco e si spaventi se anche l’Italia mette in carcere gli evasori come il suo paese d’origine); “siamo il partito no tax” (quindi incostituzionale ed eversivo, visto che l’art. 53 della Costituzione recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”); “le manette per chi ruba ci sono già” (falso: in Italia i detenuti per reati fiscali sono poche decine, contro i 7 mila della Germania e le decine di migliaia degli Usa); “siamo contrari alle manette per chi commette degli errori” (siccome il carcere è previsto per chi occulta 200 mila euro all’anno evadendone almeno 100 mila, per Rosato chi nasconde al fisco fino a 199.999 euro e ne evade fino a 99.999 è uno sbadato). Finora i renziani dicevano: “Le manette non servono, servono multe salate e sequestri e confische dal maltolto”. Ma ora casca l’asino: vogliono cancellare dalla legge di Bilancio sia le manette agli evasori (cioè le pene più alte e le soglie più basse), sia la confisca dei beni per sproporzione, sia le multe alle società frodatrici. Cioè tornare alle norme attuali, quelle che garantiscono ogni anno il saccheggio legalizzato di 110-130 miliardi. Negli anni 80, un deputato attaccò in aula un pippone su una fumosissima riforma del Codice penale, finché il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro lo fulminò: “Onorevole, se ci dice quale processo vuole aggiustare e quale amico vuole salvare, facciamo prima”. Oggi, a questi manigoldi, non c’è neppure bisogno di domandarlo: lo sappiamo benissimo.


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ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa: il colosso dell’acciaio è in fuga non solo da Taranto. “Il mercato si deteriora”.

ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa: il colosso dell’acciaio è in fuga non solo da Taranto. “Il mercato si deteriora”

La multinazionale dà seguito a quanto detto durante la presentazione della trimestrale, quando il presidente e ceo Lakshmi Mittal aveva spiegato che di fronte alla contrazione della domanda il colosso sarebbe rimasto "concentrato sulle nostre iniziative per migliorare le prestazioni e la nostra priorità è ridurre i costi". Dal 23 novembre stop a tre altoforni tra Cracovia e Dabrowa Gornicza, spenta anche una fornace vicino a Chicago e addio all'acciaieria di baia di Saldanha.
Liquidazione in Sudafrica, stop alla produzione in Polonia e negli Stati UnitiArcelorMittal è in fuga non solo da Taranto, ma anche da Cracovia Dabrowa GorniczaIndiana Harbor e baia di Saldanha. Una raffica di chiusure e spegnimenti di altoforni è stata annunciata dal colosso dell’acciaio negli ultimi giorni. Dando seguito a quanto detto durante la presentazione della trimestrale, quando il presidente e ceo Lakshmi Mittal aveva spiegato che di fronte alla contrazione della domanda la multinazionale sarebbe rimasta “concentrata sulle nostre iniziative per migliorare le prestazioni e la nostra priorità è ridurre i costi, adattare la produzione e concentrarci per garantire che il flusso di cassa rimanga positivo”. Tradotto: fermare la produzione in diverse parti del mondo, dopo un primo rallentamento in primavera, e l’addio all’ex Ilva, una ‘zavorra’ sui conti secondo Moody’s che ha avvisato ArcelorMittal del rating a rischio se non si perseguirà, velocemente, all’addio all’acciaieria italiana.
Così nel giro di pochi giorni sono arrivate tre mosse, oltre a quella su Taranto, per passare dalle parole ai fatti. In Polonia l’azienda ha bloccato la produzione nei tre altoforni a Cracovia e Dabrowa Gornicza, dando seguito a quanto aveva già previsto in primavera quando alla fine vennero fermati gli altoforni nelle Asturie. La multinazionale si è detta “costretta a interrompere temporaneamente le operazioni primarie” dal 23 novembre. Un blocco a tempo indeterminato: si ripartirà “quando le condizioni del mercato miglioreranno” a sufficienza.
“Le nostre tre fornaci – ha spiegato l’ad di ArcelorMittal Polonia, Geert Verbeeck – stanno al momento lavorando al loro minimo tecnico, quindi non possiamo ridurre ulteriormente i volumi di produzione. Dal momento che la situazione del mercato dell’acciaio continua a deteriorarsi e le previsioni restano cupe, purtroppo non abbiamo altra scelta”. La sovrapproduzione mondiale si attesta attorno alle 400 milioni di tonnellate e, secondo Eurofer, la domanda di acciaio in Europa è attesa in calo del 3,1% nel 2019, contro le previsioni precedenti di una flessione dello 0,4%. Tutto a causa di dazi e crisi del settore automotive. Le rassicurazioni di Verbeeck sull’occupazione non hanno convinto i sindacati polacchi. Per Krzysztof Wójcik, leader di Nszz, si tratta del “martedì nero del nostro centro siderurgico” e ha quindi lanciato un appello al premier Mateusz Morawiecki, nonché alle autorità regionali, per salvaguardare gli 800 posti di lavoro e i livelli salariali.
Se in Polonia, almeno nelle intenzioni, ArcelorMittal parla di una fermata legato ai cicli del mercato, in Sudafrica ha invece deciso di liquidare il suo stabilimento nella baia di Saldanha entro il primo trimestre del 2020. Con un comunicato stampa diffuso dai media locali, la compagnia ha dichiarato che l’acciaieria “sta subendo gravi perdite finanziarie che si prevede continueranno per il prossimo futuro”, perciò intraprende “una liquidazione condotta a condizioni normali delle attività commerciali legate alle operazioni siderurgiche”. Secondo ArcelorMittal, il siderurgico – nel quale sono occupate circa 1.000 persone – “ha perso il proprio vantaggio strutturale in termini di costi per competere efficacemente sul mercato di esportazione” a causa, in primis, “della materia prima e dei prezzi regolamentati”.
Ma i tagli della famiglia Mittal toccano anche il mercato statunitense. La multinazionale ha deciso di spegnere uno dei tre altoforni nell’impianto di Indiana Harbour, vicino a Chicago., zona già colpita dalla chiusura di un altoforno di US Steel all’inizio del 2019. La decisione di ArcelorMittal, a sentire l’azienda, non comporterà licenziamenti, ma è dettata dalla fine del ciclo di vita della fornace che avrebbe bisogno di “investimenti significativi” per la ristrutturazione. L’ipotesi di ammodernamento verrà presa in considerazione solo nel caso in cui la domanda dovesse essere tale da richiedere un intervento.

Il silenzio è d’oro - Marco Travaglio

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Si sperava che sedersi allo stesso posto di Tommaso Buscetta, che al maxiprocesso, nell’aula bunker dell’Ucciardone, svelò tutti i segreti di Cosa Nostra, gli sciogliesse la lingua. Invece l’altroieri il teste assistito Berlusconi Silvio, chiamato a deporre dai difensori di Marcello Dell’Utri al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia come indagato (con l’amico) di reato connesso a Firenze per le stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma e per i falliti attentati a Maurizio Costanzo a Roma, ai carabinieri fuori dallo stadio Olimpico della Capitale e al pentito Totuccio Contorno a Formello, s’è cucito la bocca “su indicazione dei miei legali”. Poi è tornato a Roma, sul luogo del delitto, anzi della strage – il teatro Parioli – per un’imperdibile puntata del Costanzo Show (la n. 4.445). E lì se n’è uscito con una raggelante battutona delle sue: “Ma è vero che questa puntata è la numero 4.445? Non ci sono riuscito a far smettere Costanzo. Ho anche organizzato un attentato, con una bomba. Ma niente, non ce l’ho fatta a farlo scappare…”. Chissà le risate del giornalista, scampato per miracolo all’autobomba il 14 maggio ’93 che i pm di Firenze collegano alla nascita di Forza Italia, allora contrastata da Costanzo. E figurarsi se, anziché in tv, B. l’avesse fatta nell’aula bunker dell’Ucciardone. Per questo, saggiamente, i suoi legali gli hanno suggerito il silenzio: conoscendolo, mancava solo che gli scappasse detta la verità in forma di freddura.
Cosa Nostra, ai picciotti e agli amici che parlano, di solito riserva una brutta fine. E B. l’ha già irritata abbastanza, a giudicare dagli sfoghi furibondi contro di lui del boss Giuseppe Graviano, captati in carcere qualche anno fa dalle microspie della Procura di Palermo. Non che si sia risparmiato, nei nove anni dei suoi tre governi: di leggi pro mafia ne ha fatte varie e tentate altre, per non parlare dei messaggi amichevoli inviati: continui attacchi ai pentiti, al 41-bis, al 416-bis, all’ergastolo ostativo, panegirici a Vittorio Mangano (“un eroe” perché non aveva parlato), campagne denigratorie contro magistrati, investigatori, giornalisti, scrittori, programmi tv antimafia (“Basta con questa Piovra”). Ma le attese dei mafiosi per le promesse fatte da lui o chi per lui erano ben più ambiziose dei risultati ottenuti. Meglio non farli incazzare vieppiù, non si sa mai. E poi mettetevi nei suoi panni: un conto è raccontare frottole giocando in casa, nei propri studi tv davanti ai propri impiegati. Un altro è raccontarle ai giudici togati e popolari di una Corte di assise d’appello, ai Pg e agli avvocati. Quelli dei boss e dei carabinieri che condussero la Trattativa.
E quelli dell’amico Marcello, condannato a 7 anni definitivi per concorso esterno e ad altri 12 in primo grado per “violenza o minaccia a corpo politico”. Cioè al primo governo B.. In pratica Dell’Utri, se la condanna fosse confermata anche in appello e in Cassazione, tornerebbe in galera per altri 12 anni per aver aiutato la mafia a minacciare il primo governo B. a suon di stragi. Dunque B. è vittima della joint venture Dell’Utri-Cosa Nostra, anche se non s’è mai costituito parte civile, né mai lo farà: altrimenti Dell’Utri potrebbe incazzarsi ancor più di quanto già non lo sia dopo la scena muta. I suoi legali hanno anche tentato di far proiettare in aula un’intervista dell’amico Silvio sulla sentenza Trattativa: quella in cui B. assicura che “non abbiamo ricevuto nel ’94 né successivamente nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti”. Ma i giudici si sono accontentati della trascrizione, per quel che vale la parola di un bugiardo matricolato, anzi abituale. Nei processi, purtroppo, funziona così: se un teste racconta balle, si assume tutti i rischi penali del caso, ma soprattutto magistrati e avvocati possono fargli contro-domande per sbugiardarlo. E, fra domande e contro-domande, a B. non sarebbe bastato un mese di udienze.
Chi era per lui Mangano: uno stalliere o un mafioso? No, perché negli anni 70 e 80, ogni volta che subiva un attentato, B. lo attribuiva a Mangano, mostrando di sapere benissimo chi fosse. E allora perché s’è tenuto accanto per 45 anni Dell’Utri, prima in azienda e poi in Parlamento, visto che era stato proprio lui a raccomandargli e a mettergli in casa fra il 1974 e il ’76 quel bocciolo di rosa? Perché, ogni volta che sospettava di un delitto di Mangano, non lo denunciava ai carabinieri? Perché dal 1974 al 1994 (quand’era già premier) – come si legge nella sentenza Trattativa (ma anche, fino al ’92, in quella definitiva della Cassazione su Dell’Utri) – pagò semestralmente fior di milioni a Cosa Nostra, sempre tramite Marcello? Perché nel ’94 il suo primo decreto, firmato dal ministro Biondi e passato alla storia come “Salvaladri”, conteneva una norma che aboliva l’arresto obbligatorio per i mafiosi e una che obbligava i pm a svelare agli avvocati dei mafiosi se i loro clienti erano indagati? Chi le infilò in quel decreto? Fu per caso Dell’Utri a suggerirle, visto che – in base alle sue agende e alla sentenza Trattativa – fra il ’93 e il ’94 incontrò spesso il vecchio Mangano (nel frattempo condannato per mafia e droga al maxiprocesso) fra Milano e Como? Ecco: provate voi a rispondere a domande del genere e a continuare a fare politica: potrebbe essere impossibile persino in Italia. Meglio tacere e sperare in bene. Nel 2002 i pm del processo per mafia a Marcello andarono a Palazzo Chigi per interrogare B. che, già allora, si avvalse della facoltà di non rispondere. E Dell’Utri si beccò 7 anni di galera. Ora, onde evitare di tornarci per altri 12, gli ha chiesto lui di testimoniare: altra scena muta. Manca solo che si incazzi Dell’Utri e parli, o faccia parlare qualche compare. Non l’augureremmo neppure al nostro peggior nemico. 
Figurarsi a un amico come Silvio.