martedì 3 dicembre 2019

DAL DISCORSO DI OGGI DI CONTE CONTRO SALVINI E SUL MES. - Viviana Vivarelli

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Da alcune settimane i massimi esponenti di alcune forze di opposizione hanno condotto una insistita, capillare campagna mediatica, accusandomi di avere adottato, nel corso di questo negoziato con le Istituzioni europee, condotte talmente improprie e illegittime da essermi reso responsabile di “alto tradimento”.
Sarei, quindi, uno spergiuro. Questo perché sarei venuto meno al vincolo, assunto al momento in cui mi è stato conferito l’incarico di Presidente del Consiglio, di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione.
Si è perfino adombrato che avrei tenuto questa condotta per biechi interessi personali, anteposti al dovere di tutelare l’interesse nazionale.
Questa accusa, possiamo convenirne tutti, non rientra nell’ambito della ordinaria polemica politica.
Quando sono venuto dinanzi a Voi per chiederVi la fiducia ho invocato, per questa nuova stagione politica, un “linguaggio mite”, ho auspicato che la Politica, con la P maiuscola, potesse riporre una particolare attenzione alla “cura delle parole”.
Le accuse che mi sono state rivolte, tuttavia, trascendono ampiamente i più accesi toni e le più aspre contestazioni che caratterizzano l’odierna dialettica politica, già di per sé ben poco incline alla “cura delle parole”.
Siamo al cospetto di un’accusa gravissima.
Se si arriva ad accusare apertamente e ripetutamente, in tutte le trasmissioni televisive e in tutti i canali social, il Presidente del Consiglio di avere tradito il mandato di difendere l’“interesse nazionale” e di avere agito per tutelare non si sa quale interesse personale, allora il piano delle valutazioni che siamo sollecitati a compiere è completamente diverso.
Se queste accuse avessero un fondamento, saremmo di fronte alla massima ferita, al più grave vulnus inferto alla credibilità dell’Autorità di Governo, con la conseguenza che chi vi parla non potrebbe esitare un attimo a trarne tutte le conseguenze: senza neppure attendere che mi venisse chiesto da chicchessia, sarei costretto a rassegnare all’istante le dimissioni da Presidente del Consiglio.
Se però queste accuse non avessero fondamento e anzi fosse dimostrato che chi le ha mosse era ben consapevole della loro falsità, avremmo la prova che chi ora è all’opposizione e si è candidato a governare il Paese con pieni poteri, sta dando prova, e purtroppo non sarebbe la prima volta, di scarsa cultura delle regole e della più assoluta mancanza di rispetto delle istituzioni. Se questo fosse il caso, infatti, saremmo di fronte a un comportamento fortemente irresponsabile, perché una falsa accusa di alto tradimento della Costituzione è questione differente dall’accusa di avere commesso errori politici o di avere fatto cattive riforme: è un’accusa che non si limita solo a inquinare il dibattito pubblico e a disorientare i cittadini, è indice della forma più grave di spregiudicatezza perché pur di lucrare un qualche effimero vantaggio finisce per minare alle basi la credibilità delle istituzioni democratiche e la fiducia che i cittadini ripongono in esse.
Pur di attaccare la mia persona e il Governo non ci si è fatti scrupolo (e mi sono sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, la cui “disinvoltura” a restituire la verità e la cui “resistenza” a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni) di diffondere notizie allarmistiche, palesemente false, che hanno destato preoccupazione nei cittadini e, in particolare, nei risparmiatori: è stato detto che sarebbe prevista la “confisca dei conti correnti dei risparmiatori” e, più in generale, che “tutti i nostri risparmi verrebbero posti a rischio”; è stato detto che il Mes servirebbe solo a beneficiare le banche altrui e non le nostre.
E’ stato anche detto che il Mes sarebbe stato già firmato, e per giunta di notte.


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L’Eurocazzaro - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 3 Dicembre.

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Ce ne vorrebbe uno al giorno, di confronto Conte-Salvini in Parlamento, per far capire agli italiani da chi sono governati oggi e da chi rischiano di esserlo domani. Da una parte una persona seria e competente. Dall’altro un caso umano in stato confusionale. Ieri, alla Camera e al Senato, si è visto un premier che sa ciò che dice e conosce le materie che tratta. E un aspirante successore che palesemente denota “disinvoltura a restituire la verità e resistenza a studiare i dossier”. Conte ha puntualmente ricostruito l’iter del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), il costante coinvolgimento del Parlamento e dei ministri dei suoi due governi fin da quando, il 27 giugno 2018, appena arrivato, il premier riferì le proposte della Commissione europea. E nessuno fece una piega. Due giorni dopo, al vertice Ue, Conte propose modifiche alla bozza del Mes e l’11 dicembre tornò a riferirne alle Camere: nessun’obiezione neppure allora. Ne riparlò al Parlamento il 19 marzo, vigilia del Consiglio europeo. E di nuovo il 19 giugno, prima dell’Eurosummit decisivo. Lì perfino il leghista No Euro Alberto Bagnai gli fece i complimenti: “Mi permetta, signor Presidente del Consiglio, di ringraziarla per il fatto che lei, in applicazione di questa norma e in completa coerenza con quel principio di centralità del Parlamento, fin dal primo giorno, affermò in questa sede di voler rispettare, sia venuto ad annunciarci che questo approfondimento tecnico ci sarà”.

Intanto anche i ministri direttamente interessati, da Tria a Savona, riferivano infinite volte in Parlamento, in aula e nelle commissioni (a partire da quelle presiedute dai leghisti anti-Ue Borghi & Bagnai). E anche lì tutti muti. Per non parlare dei sette fra vertici di maggioranza e riunioni tecnico-politiche e dei cinque Consigli dei ministri convocati da Conte sul Mes o su vari temi fra cui il Mes: lì c’erano sempre il vicepremier Salvini e i suoi ministri, viceministri e sottosegretari: gli stessi che accusano il premier di aver fatto tutto di nascosto, di notte, a loro insaputa. Che facevano? Pensavano che il Mes fosse un vermouth? Dormivano? Si facevano piedino? Twittavano? Postavano su Facebook e su Instagram? Giocavano con l’iPhone? Guardavano porno sull’iPad? Se questi cialtroni straparlassero al bar o al Papeete, poco male: nessuno ne pagherebbe le conseguenze. Invece parlano ai media e in Parlamento: sono settimane che chiedono le dimissioni del premier (Salvini, già che c’è, anche l’“arresto per alto tradimento”, reato che può commettere solo il presidente della Repubblica) e scatenano risse e gazzarre in Parlamento.


Così quelle immagini e quegli sproloqui fanno il giro del mondo, screditano l’Italia e contribuiscono al rialzo dello spread, dopo mesi di bonaccia. E le conseguenze le paghiamo tutti noi. Questo è il vero, unico alto tradimento. O aggiotaggio, come suggerisce Monti. Quando Conte ha concluso il suo intervento ha parlato - anzi, ha ruttato - Salvini. Ci si attendeva che estraesse un formidabile asso dalla manica per inchiodare definitivamente il premier al suo alto tradimento e condurlo dritto e filato a Regina Coeli. Invece, come il 20 agosto - nel dibattito sulla crisi del mojito, come sempre - non aveva nulla di nulla. Nè nella manica, né nella testa.


Dopo aver calunniato Conte per giorni e giorni e mentre gli intimava di “vergognarsi” non si sa per cosa, il Cazzaro Verde si è travestito da linosotis simbolo di “umiltà” che cita Confucio senza sapere chi sia e – bontà sua – “non replica agli insulti” e “non fa querele” (solo a noi, nove in tre anni: tutte perse) perchè uso a “rispondere col lavoro”. Non avendo mai lavorato un minuto in vita sua. Si vedeva chiaramente che non ha la più pallida idea del Mes. Infatti ha attaccato un comiziaccio da bar sull’Ilva e l’Alitalia, che non c'entrano una mazza e che la Lega ha sul groppone per i suoi 10 anni al governo su 25 (il quintuplo di Conte). Poi è passato alle barzellette. Tipo questa: “Le banche in difficoltà sono in Germania, non in Italia” (ciao, core). O quella sulla raccolta firme di domenica prossima in “mille piazze d’Italia” (e perchè non centomila?) per “abrogare il Mes” (che non è stato ancora firmato e comunque non può essere abrogato) e “denunciare i papà e le mamme del trattato” (fra gli applausi dei suoi giannizzeri beotamente ghignanti, anch’essi padri e madri del Mes a loro insaputa).


In un paese normale, un politico ridotto a una figura tanto barbina si scaverebbe una fossa, ci si ficcherebbe dentro, chiuderebbe il tombino e ne uscirebbe fra quattro o cinque anni, sperando nella memoria corta della gente. Invece siamo in Italia, dunque il Cazzaro e i suoi simili continueranno a blaterare come se fossero dei politici, e non dei soggetti inabili al governo e anche al lavoro. Come quando Salvini accusò Conte di conflitto d'interessi sul caso Fiber 4.0-Retelit, poi si scoprì che il premier s'era astenuto e aveva deciso Salvini. O quando intimò al sottosegretario Spadafora di “rendere più veloci le adozioni”, poi Conte gli svelò che la delega sulle adozioni l'aveva il suo ministro Fontana. O quando accusò i giallo-rosa di aver bocciato un emendamento leghista al decreto Fiscale che prorogava le esenzioni dall’Imu agli immobili inagibili per il terremoto, poi si scoprì che era nel decreto Sisma appena approvato alla Camera. O quando strillò contro il Conte2 che imponeva ai sindaci di pignorare il conto in banca a chi “non riesce a pagare una multa”, poi si scoprì che era una balla. In questi casi, si dice che uno non c’era o, se c’era, dormiva. Il guaio di Salvini è che c’è quasi sempre, e bello sveglio. Ma purtroppo non studia, o non capisce. Dargli del cazzaro non è un insulto: è pura cronaca.


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lunedì 2 dicembre 2019

Posti incantevoli

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Noam Chomsky e Pepe Mujica insieme in un documentario che lancia un messaggio importante alle nuove generazioni. - Francesca Biagioli

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Uno speciale incontro tra Noam Chomsky, noto linguista, filosofo e attivista politico, e Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay, è già stato registrato nei giorni scorsi e a breve diventerà un documentario, a patto di trovare i finanziamenti necessari al post-produzione.
Due “giganti” della cultura e della politica di oggi a livello mondiale si sono incontrati per discutere di società, cultura e politica. Parliamo di Noam Chomsky che, secondo il New York Times, è “il più importante intellettuale oggi vivente” e di José “Pepe” Mujica, l’amatissimo ex presidente dell’Uruguay di cui anche noi più volte vi abbiamo parlato.
Il primo è un filosofo americano e uno dei più iconici attivisti politici dei nostri tempi, conosciuto anche per i suoi importanti contributi nel campo della linguistica,  mentre Mujica faceva parte del movimento Tupamaros in Uruguay a cui si unì negli anni sessanta durante la dittatura uruguaiana, trascorse quasi 15 anni in prigione e dal 2010 al 2015 divenne presidente dell’Uruguay.
A filmare il loro incontro è stato il giovane regista messicano Saúl Alvídrez, che ha avuto la brillante idea di far trascorre ai due intellettuali un fine settimana insieme in modo da realizzare un documentario. L’obiettivo era parlare dell’attuale e non certo rosea situazione mondiale conoscendo il parere e le possibili soluzioni di Chomsky & Mujica (così si intitola il documentario).
L’incontro si è svolto a Montevideo, sia il linguista e filosofo americano che l’ex presidente dell’Uruguay hanno partecipato con le loro mogli, Valeria e Lucia, e hanno trascorso l’intero fine settimana a chiacchierare mentre le telecamere li filmavano.
Nonostante la loro età (Chomsky ha 90 anni e Mujica, 84) il documentario è molto attuale ed è destinato in particolare ai giovani.
Come ha dichiarato il regista:
”È un messaggio bellissimo e urgente per l’umanità. Esplora l’amore, la vita, la libertà, il potere e le principali sfide del 21° secolo insieme a due personaggi straordinari che non si erano mai incontrati prima. Le giovani generazioni hanno ereditato il più grave pericolo e la responsabilità di tutta la storia umana. Oggi, il collasso ecologico, economico, politico e sociale della nostra insostenibile civiltà sembra imminente. Pertanto, le nuove generazioni devono realizzare un cambiamento globale radicale nei prossimi decenni; ma come? Questo progetto cerca di rispondere a questa domanda, semplicemente perché è la domanda più importante del momento”
Questo speciale incontro si appresta dunque a diventare un documentario a tutti gli effetti pieno di riflessioni e conversazioni molto profonde ma per il post produzione sono necessari molti fondi e per ottenerli è stata aperta una raccolta su una piattaforma di crowdfunding, Kickstarter dove è disponibile anche l’anteprima video.
Per poter coprire le spese di post-produzione del documentario è necessario raccogliere circa 17mila dollari (obiettivo già raggiunto) ma meglio 30mila dollari in modo da poterlo far uscire entro maggio 2020 e, ancora meglio, 38 mila dollari, in modo da coprire anche i costi per la distribuzione del documentario nei festival.
Deve essere stato davvero un incontro senza precedenti e pieno di saggezza. Siamo molto curiosi di conoscere tutti i dettagli del loro speciale finesettimana!

La “belle époque” del renzismo. - Alessandro Da Rold e Simone Di Meo (La Verità)



La belle époque del renzismo, tra il 2014 e il 2016, aveva contagiato davvero un po’ tutti. Capitani d’ industria, professionisti, manager e stakeholder (formula inglese che copre il nostro brutale «portatore d’ interessi») che videro nel sindaco di Firenze il nuovo corso del centrosinistra in Italia. E, con la partecipazione, arrivarono anche i finanziamenti. Proporzionali alla caratura del donante e alla sua fiducia in Matteo. In totale, la fondazione Open – finita sotto inchiesta a Firenze con il suo ex presidente, Alberto Bianchi, accusato di traffico di influenze illecite e finanziamento illecito ai partiti – ha raccolto complessivamente oltre 6,7 milioni di euro.

LA RAI.
Molti sostenitori di Open sono stati poi nominati in aziende pubbliche o hanno ottenuto incarichi in orbita governativa, quando a Palazzo Chigi c’ erano Matteo Renzi o il suo successore. Uno dei più famosi è Antonio Campo Dall’ Orto (contributo di appena 250 euro) che nel 2014 diventa prima consigliere d’ amministrazione di Poste e poi direttore generale della Rai.

 Del 2014 è anche la nomina, nel board di Leonardo Finmeccanica, del manager Fabrizio Landi (10.000 euro). Nella lista dei sostenitori troviamo pure il giornalista Erasmo D’ Angelis (6.400 euro), designato alla direzione generale della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico di Palazzo Chigi dal 2014 al 2015 e successivamente (2017, Gentiloni premier) segretario generale dell’ autorità di distretto idrografico dell’ Italia centrale. Fra il 2015 e il 2016 è andato a fare il direttore dell’ Unità.

A Palazzo Chigi ha lavorato anche Vincenzo Manes (62.000 euro). È stato «consigliere del presidente del Consiglio Renzi per il terzo settore e lo sviluppo dell’ economia sociale» («pro bono», specifica).

A quota 30.400 euro (la metà circa di quanto versato da Manes) troviamo un volto noto: quello di Alberto Bianchi, l’ avvocato amministrativista di Firenze che nel 2014 diventa consigliere di amministrazione di Enel, oggi indagato e perquisito due volte dalla Finanza su ordine dei pm che sospettano che la Open abbia operato come «articolazione di partito», nascondendo rapporti opachi tra politica e affari. A pari merito l’ imprenditore calzaturiero Gabriele Beni (25.000 euro a titolo personale più 5.000 euro con la sua società Calzaturificio Gabriele) che, nell’ ottobre 2014, è stato nominato prima consigliere e poi vicepresidente in carica di Ismea, Spa controllata dal ministero dell’ Agricoltura.

La lista del 2014 riserva ancora qualche spunto. Jacopo Mazzei (8.000 euro) è nel cda di Toscana Aeroporti, di cui è presidente un big renziano come Marco Carrai, indagato nell’ inchiesta Open per finanziamento illecito. Il 5% delle azioni della società appartiene alla Regione Toscana. Gabriele De Giorgi (1.050 euro versati nel 2014), figlio dell’ ex capo di Stato maggiore della Marina militare Giuseppe, è stato assistente del sottosegretario Domenico Manzione.

Fuori quota ci imbattiamo, invece, in Marco Seracini: commercialista di Renzi e ideatore della fondazione Noi link (antesignana della Open), diventato nel 2014 sindaco revisore di Eni. Diverso il discorso per Federico Lovadina, fondatore con Francesco Bonifazi dello studio Bl (Bonifazi e Lovadina) di cui è socio anche Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena. Risultano finanziamenti di Bonifazi (sotto inchiesta per finanziamento illecito alla fondazione Eyu, di cui era presidente) a Open per 12.800 euro, e di Emanuele Boschi a Eyu nel 2017 per 40.000 euro.

Lovadina entra nel 2014 nel cda di Trenitalia, poi in Prelios, e ora è in Sia, controllata Cdp. Infine ci sono i maxi-finanziamenti dell’ ex Pd (oggi Italia viva) Gianfranco Librandi , che tra il febbraio 2017 e il giugno 2018 ha versato ad Open circa 800.000 euro, e della famiglia Maestrelli (300.000 euro), la stessa che nel 2018 ha prestato a Renzi 700.000 euro per l’ acquisto della supervilla di Firenze.

Ma oltre ai singoli finanziatori ci sono anche diverse aziende private che spesso lavorano o hanno avuto a che fare con il settore pubblico. A parte l’ immobiliarista Luca Parnasi, anche lui sotto inchiesta per il finanziamento a Eyu, c’ è il caso dei fratelli Orsero, tra i leader mondiali nella produzione e distribuzione di frutta.

Nelle casse di Open, prima Big Bang, il marchio di Albenga ha versato 20.000 euro nel 2013, in uscita dalla controllata Blue meer, e poi altri 50.000 nel 2014 dalla cassaforte Gf group. In quegli anni il gruppo è in difficoltà economiche. Proprio nel 2014 l’ autorità portuale di Savona, con Renzi premier e Delrio ministro delle Infrastrutture, rileverà con 24 milioni di fondi pubblici il 64% delle quote dell’ interporto di Vado (Vio), di proprietà degli Orsero.

MOBILI DI LUSSO.
Altro finanziatore è stata la Uno spa, azienda produttrice di mobili di lusso che ha stanziato 50.000 euro nel 2014 per gli esponenti del Giglio magico. Nel 2015 la Uno sarà celebrata sui quotidiani per una commessa a Dubai da 4 milioni di euro e un accordo con Fincantieri per gli arredi delle navi. C’ è poi il caso della Sinelec (25.000 euro nel 2014), azienda tecnologica del gruppo Astm group, secondo gestore al mondo di reti autostradali a pedaggio in concessione.

Nel cda della controllante siede – oltre ai fratelli Gavio, già finanziatori di Renzi – Arabella Caporello, ex direttore generale del Comune di Milano (giunta di Giuseppe Sala) e fondatrice del renzianissimo circolo della Pallacorda nel capoluogo lombardo. A finanziare negli ultimi anni la fondazione Open c’ è stata anche la Intesa aretina scarl (15.000 euro), consorzio che raduna i soci privati di Nuove acque, società a partecipazione pubblica che si occupa del servizio idrico in diversi Comuni toscani: tra i soci privati ci sono Suez Italia, Acea, Mps, Ubi banca e in passato anche Banca Etruria. Anche due aziende che hanno lavorato in Expo 2015 hanno versato soldi.

La Nacost navarra costruzioni del gruppo Navarra (30.000 euro tra il 2016 e il 2017), si occupò del Padiglione Italia e ora è ancora impegnata nel dopo Expo. E la Sicuritalia group service, con altri 30.000 euro sempre tra il 2016 e il 2017: durante l’ esposizione universale vinse con altre aziende il bando per la gestione della sicurezza.

Infine, a lato degli intrecci italiani, una curiosità internazionale. In Fondazione Eyu compare un bonifico da 87.000 euro di The tides foundation, collegata alla Open society di George Soros, tra i finanziatori di Greta Thunberg, la giovane che si batte per l’ ambiente. Forse l’ unica non renziana dell’ articolo.

https://infosannio.wordpress.com/2019/12/01/la-belle-epoque-del-renzismo/?fbclid=IwAR3EsIRQjIQMY6xagh2cXRCUwTzSbXYMEgRz_UxwIJNAQe86mawHI5-2xTw#jp-carousel-352321

Prestito per villa di Renzi, sotto la lente anche un bonifico di Serra. - Ivan Cimmarusti e Sara Monaci




Non c’è solo il finanziamento per l’acquisto della casa da parte di Matteo Renzi sotto la lente degli inquirenti fiorentini. Ci sarebbe anche la modalità di restituzione del denaro a Anna Picchioni, madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, da cui l’ex premier ha ricevuto un prestito di 700mila euro.

Non c’è solo il finanziamento per l’acquisto della casa da parte di Matteo Renzi sotto la lente degli inquirenti fiorentini. Ci sarebbe anche la modalità di restituzione del denaro a Anna Picchioni, madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, da cui l’ex premier ha ricevuto un prestito di 700mila euro tramite bonifico per comprare la sua villa a Firenze. In particolare, le verifiche si concentrano su una dazione giunta dal finanziere Davide Serra e utilizzata da Renzi, assieme ad altre somme, per saldare quel debito.

Il prestito è stato in effetti restituito dopo quattro mesi. La storia però sembrerebbe più complicata. O meglio, potrebbe avere qualche aspetto ulteriore da approfondire.

Sulla base di una segnalazione di operazione sospetta (Sos) arrivata al Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Firenze, al comando del colonnello Luca Levanti, nel 2018 dal nucleo Valutario della Gdf si chiede un approfondimento ulteriore rispetto a una precedente Sos che riguardava proprio la signora Picchioni, nell’ambito di un fascicolo di un caso di bancarotta di un piccolo imprenditore fiorentino.

Si spiega dunque che Picchioni aveva ricevuto un finanziamento da parte di suoi familiari (i figli) per 700mila euro, finalizzato a effettuare un prestito ai coniugi Matteo Renzi e Agnese Landini per l’acquisto di un immobile valutato complessivamente 1,4 milioni di euro. Successivamente, nel giugno 2018, la cifra è stata restituita con un versamento dal conto corrente dei coniugi a favore di Anna Picchioni a titolo di «restituzione prestito».

La provvista per la restituzione del denaro che parte dal conto personale di Renzi, ora sotto la lente degli inquirenti, era di 500mila euro, presso la Bnl (filiale di Roma). Dall’analisi dell’estratto conto emerge che il senatore ha ricevuto 119mila euro da Celebrity speakers e Mind Agency per attività di conferenziere e 454mila euro dalla Arcobaleno 3 srl per la sua attività di personaggio televisivo; il resto dal fondo Algebris Uk, riconducibili a Davide Serra.
L’inchiesta è in una fase preliminare, dunque ancora tutta da verificare. Ruota attorno alla Fondazione Open, l’ente creato nel 2012 e chiuso nel 2018 per sostenere le iniziative politiche di Matteo Renzi. Una «articolazione di un partito», secondo l’accusa, che raccoglieva «finanziamenti illeciti alla politica». Ipotesi d’accusa smentita dal leader di Italia Viva, che contro la magistratura fiorentina non nasconde una certa nota polemica. Risultano indagati l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione, e il presidente di Toscana Aeroporti spa Marco Carrai, ex consigliere di Open assieme al resto del “Giglio magico”, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’accusa preliminare è di finanziamento illecito e traffico di influenze.

Stando agli atti investigativi un ruolo decisivo sarebbe stato svolto da Carrai, tanto che nei documenti si legge che «l’indagato ha svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori e nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione». Un sostanziale incarico di “cerniera”, dunque, tra 25 imprenditori e lo stesso Renzi, almeno stando alle ricostruzioni preliminari della magistratura fiorentina. Di fatto, però, si è scoperto che somme di denaro sarebbero finite anche in altre “casseforti”. Negli atti, infatti, si fa riferimento a movimentazioni finanziarie verso Lussemburgo. In particolare «risulta che l’indagato (Carrai, ndr) è tra i soci della società Wadi Ventures Management Company sarl con sede a Lussemburgo il cui unico asset è la società Wadi Ventures sca, anch’essa con sede in Lussemburgo e con oggetto sociale le partecipazioni societarie». Secondo gli investigatori quest’ultima società sarebbe destinataria di «somme provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori della Fondazione Open».


PER APPROFONDIRE:

Fumata nera su Mes. Tensione Pd-M5S, "decidano Camere".- Michele Esposito

Giornalisti attendono fuori palazzo Chigi il vertice di Governo © ANSA                 Giornalisti attendono fuori palazzo Chigi il vertice di Governo

Franceschini, nessun rinvio. Ma Di Maio, no luce verde Gualtieri.

Quattro ore lunghe e tese che portano non ad un accordo ma a quella che è una fumata grigia sul fondo Salva-Stati. Il vertice di Palazzo Chigi convocato dal premier Giuseppe Conte ad una manciata d'ore dal nuovo redde rationem tra il premier e Matteo Salvini in Parlamento non chiude la partita del Mes in maggioranza. Le posizioni di M5S e Pd "sono diverse", ammette lo stesso Luigi Di Maio. E Conte opta per affidare la decisione definitiva sull'ok alla riforma al Parlamento. La data da segnare con il rosso è l'11 dicembre quando, dopo le comunicazioni del premier in vista del Consiglio Ue, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Ed è lì che il governo rischia il baratro. A Palazzo Chigi ci sono il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, i capi delegazione di Pd, M5S e Leu, Dario Franceschini, Luigi Di Maio e Roberto Speranza, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il ministro per gli Affari Ue Enzo Amendola. Presente anche il titolare del Mise, Stefano Patuanelli, visto che nella riunione si parla anche della norma per il prestito ponte a Alitalia. A chiamarsi fuori è Italia Viva.
"Non abbiamo nulla su cui litigare, se la vedessero tra loro. Gli italiani sono stanchi di questi vertici, vogliono risposte", spiega Matteo Renzi. E una risposta definitiva, sul Mes, ancora non c'è. "In vista dell'Eurogruppo del 4 dicembre 2019 il Governo affronterà il negoziato riguardante l'Unione Economica e Monetaria (completamento della riforma del Mes, strumento di bilancio per la competitività e la convergenza e definizione della roadmap sull'unione bancaria) seguendo una logica di "pacchetto", spiegano fonti di Palazzo Chigi specificando che, sulla riforma del Mes, "ogni decisione diventerà definitiva solo dopo che il Parlamento si sarà pronunciato". Ovvero, dopo le risoluzioni che seguiranno alle comunicazioni di Conte in Aula dell'11 dicembre, proprio in vista del Consiglio Ue. Palazzo Chigi, in realtà, non parla di rinvio. E, dopo la riunione, è questo il punto che tiene a sottolineare Franceschini. "Bene l'incontro di stasera sul Mes. Nessuna richiesta di rinvio all'Ue ma un mandato che rafforza il ministro Gualtieri a trattare al meglio l'accordo", spiega il ministro della Cultura specificando, anche lui, come "ovviamente" sarà il Parlamento a pronunciarsi in modo definitivo. A tarda notte, da Palazzo Chigi, escono, uno dopo l'altro, Di Maio e Franceschini. Tirando ognuno acqua al proprio mulino.
"Nessuna luce verde è stata data a Gualtieri finché il Parlamento non si esprimerà", scandisce il titolare della Farnesina anticipando che l'11 dicembre il M5S presenterà una risoluzione in cui si chiederà a Conte di chiedere il miglioramento, al Consiglio Ue di dicembre, dell'intero pacchetto di riforme dell'Unione Economica e Monetaria. Pacchetto in cui, avverte Di Maio, "c'è tanto da cambiare". Dieci giorni, quindi, per trovare una quadra. Dando mandato a Gualtieri di anticipare all'Eurogruppo la trincea italiana. Dieci giorni, per il leader M5S, per trovare una quadra all'interno dei gruppi sul sì ad una riforma sulla quale, in tanti pentastellati, sono disposti a tutto. Con un rischio: che la risoluzione sul Mes diventi un doppione di quella che, sulla Tav, anticipò la fine del governo. "Mi auguro che su questa impostazione emergano le differenze macroscopiche che ci sono tra il M5S e il Pd e quindi si finisca con questo Governo", sottolinea Gianluigi Paragone. In tanti, nel Movimento, gli rispondono via facebook. A testimonianza che, dietro il Mes, la partita che si gioca tra i pentastellati è un'altra: se andare avanti con il governo giallo-rosso