giovedì 28 maggio 2020

Scanzi: “Ha vinto Conte, anche se non lo ammetteranno mai”. - Andrea Scanzi

conte


Ovviamente i detrattori a prescindere e i fan dei due cazzari diranno ora che "il governo non ha ottenuto nulla e bla bla". Nella realtà è l'esatto contrario. Se avessimo accettato il Mes, come volevano Renzi (va be') e i giornaloni, avremmo preso (forse) 30 miliardi. In prestito, e i prestiti - con o senza penali - vanno restituiti. Conte ha sempre detto: "Il Mes non va bene, è vecchio e non basta". E' stato di parola. Il Recovery Fund che va a delinearsi, è a metà tra i sogni più spinti dell'Italia e il cinismo carognesco degli Stati del Nord: 750 miliardi. Di questi, la parte più consistente andrebbe all'Italia: 172,7 miliardi. Quasi sei volte il Mes. Non solo: di questi 172,7 miliardi, 81,8 sarebbero a fondo perduto. Quasi tre volte il Mes, e soprattutto a fondo perduto. Il resto sarebbe un prestito di 90,9 miliardi, cioè tre volte il Mes. E' un trionfo? No. C'è motivo per brindare? No, perché il lutto è ancora fresco, la pandemia ancora in atto e i dolori saranno tanti. Ma è innegabilmente una vittoria del governo e soprattutto di chi ha sempre tenuto la barra dritta: Conte, Gualtieri, M5S, larga parte del Pd e Leu.
Conte, su questa sfida, si era giocato tutto. Chi lo odia non lo ammetterà mai, ma ha avuto ragione lui. E a beneficiarne, per fortuna, saranno tutti gli italiani. Capisco che Salvini, destra, renziani e “stampa” asservita soffriranno nel leggerlo, ma ha ottenuto più Conte dall'Europa nelle ultime settimane che i loro statisti (di questa fava) in vent'anni. Così è. Anche se non vi pare.


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'Ndrangheta: appalti pilotati per favorire le cosche.

(Archivio) © ANSA

Decine di arresti in tutta Italia, coinvolti anche 11 funzionari pubblici.

Un cartello criminale composto da imprenditori e funzionari pubblici per pilotare gli appalti e agevolare le cosche della 'Ndrangheta. Lo ha scoperto la Guardia di Finanza che sta eseguendo decine di arresti in diverse regioni italiane. L'indagine, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, ha preso di mira i profili 'imprenditoriali' dei Piromalli, la cosca che opera nella Piana di Gioia Tauro. I finanzieri stanno eseguendo anche sequestri di beni e imprese per oltre 103 milioni. 
I provvedimenti cautelari e i sequestri, nei quali sono impegnati circa 500 finanzieri dei comandi provinciali e dello Scico, sono scattati in Calabria, nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia, in Sicilia tra Messina, Palermo, Trapani e Agrigento, in Campania - a Benevento e Avellino - a Milano e Brescia in Lombardia e ad Alessandria, Gorizia, Pisa, Bologna e Roma.
L'operazione, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e denominata 'Waterfront', è l'epilogo delle indagini sull' ala imprenditoriale dei Piromalli. Dagli accertamenti, infatti, è emersa l'esistenza di un cartello composto da imprenditori e pubblici ufficiali ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d'asta aggravata dall'agevolazione mafiosa, frode nelle pubbliche forniture, corruzione ed altri reati. Sono 11 i funzionari pubblici coinvolti.

Il tweet di Salvini e la risposta di Carofiglio. - Lorenzo Tosa

Carofiglio

Salvini - Carofiglio

Ieri Matteo Salvini, diploma classico e abbandono della Facoltà di Storia a cinque esami dalla laurea, ha tuonato su Twitter:
“Mi auguro che Mattarella sciolga il Consiglio Superiore della Magistratura. Si nominino i nuovi Componenti estraendo a sorte, per dare ossigeno a tanti magistrati liberi. Basta correnti.”
Poche ore dopo, Gianrico Carofiglio, magistrato dal 1986, già pretore a Prato, pm a Foggia e Sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari, gli ha dato una lezione di diritto gratuita in 260 caratteri.
“Salvini chiede a Mattarella di sciogliere il CSM. Il presidente non ha questo potere (vedi art.31 legge Csm). Se uno che ha fatto il ministro non lo sa, se è così ignorante, c’è da preoccuparsi. Se lo sa, e dunque la richiesta è in totale malafede, c’è da preoccuparsi di più.”
Niente da aggiungere. Ha già detto tutto lui.
In altri tempi, un politico, dopo una figura del genere, si sarebbe quantomeno vergognato e avrebbe chiesto scusa. Qui, invece, va a “Fuori dal coro” a ribadire, come se nulla fosse, senza contraddittorio, le stesse identiche sciocchezze.
E la cosa più drammatica è che c’è gente che gli crede pure.

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All’Italia 172 miliardi di euro. - Massimo Erbetti

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All’Italia, dovrebbero andare 172,7 miliardi di euro. Di questi 81,807 miliardi sarebbero versati come aiuti e 90,938 miliardi come prestiti.
A leggere i numeri sembrerebbe un successo e se fosse vero, lo sarebbe veramente, il problema è che queste cifre devono essere votate dal Parlamento Europeo e il percorso è pieno di ostacoli. Ostacoli messi li di proposito da chi vuole il bene del popolo italiano solo a parole. Comunque c'è da dire che una misura di tale portata non si era mai vista e se la commissione europea l'ha fatta è solo per merito del governo italiano e di Conte, che è riuscito in un'impresa titanica. Alla faccia di chi (Salvini e Meloni) per soli scopi personali ha cercato di sabotare fin dall'inizio, non votando il Recovery, fregandosene del paese, degli italiani, delle imprese e della mostruosa crisi che ci attende.
Nelle ultime ore, le dichiarazioni dei due leader sovranisti de "noantri" rispetto alla proposta sono state quantomeno puerili e sguaiate, mentre la Meloni cercava di sviare il discorso su altro: "Sapete cosa fa il governo mentre ci troviamo in mezzo alla più grande crisi del paese? In commissione affari costituzionali si discute di una legge elettorale che punta all'ingovernabilita del paese" ha dichiarato, come se non sapesse che la calendarizzazione di quella legge è all'ordine del giorno da almeno sei mesi...ma si sa, quando non si hanno argomenti si cerca di distogliere l'attenzione su altro. Salvini invece ha cominciato a parlare di MES, di restituzioni del prestito (ma vah..) e di tempi lunghi...ecco appunto tempi lunghi, ha ragione Salvini, ci vorranno mesi affinché i soldi arrivino, peccato però che questo sia dovuto ai suoi alleati europei che stanno alla guida di quei Paesi i “Frugal Four” (cosi vengono chiamati) e sono Danimarca, Svezia, Olanda e Austria, che avevano presentato il loro piano per gli aiuti ai Paesi europei colpiti dal Covid-19 da dare esclusivamente sotto forma di prestiti e non a fondo perduto, evitando qualsiasi forma di condivisione del debito e scongiurando ogni eventuale aumento alla spesa europea. Questi paesi faranno una vera e propria battaglia contro il piano Von der Leyen e Salvini ci dovrebbe spiegare come mai è alleato con chi non vuole darci nemmeno un euro...ma non lo farà, continuerà a parlare, anzi a straparlare, per nascondere la sua più grande sconfitta. Un fatto è certo, da oggi sarà molto piu difficile parlare di un'Europa brutta e cattiva che non vuole aiutarci e di un governo incapace di farsi ascoltare...questo S. e M. lo sanno bene, come sanno che il castello di carte che hanno costruito in questi mesi, con bugie come la firma del MES che secondo loro il governo italiano ha firmato almeno quattro volte, sta venendo giù...e spero che con lui vengano giù anche i consensi di questi due "amici" del popolo italiano, perché come diceva qualcuno: "Si possono ingannare poche persone per molto tempo o molte persone per poco tempo. Ma non si possono ingannare molte persone per molto tempo".

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mercoledì 27 maggio 2020

Gallera prima di Gallera: da papà Lions ad Arcore. - Gianni Barbacetto

Giulio Gallera - Una carissima amica mi ha appena inviato ... Coronavirus. Per Gallera bisogna trovare due persone per ...

L’irresistibile ascesa Il nuovo “divo” Giulio autore di gaffe e disastri Covid è sempre stato un mister preferenze, dai tempi del liceo Vittorio Veneto.
Era dal mezzo pollo di Trilussa che non si sentiva un così sofisticato elogio della scienza statistica. Il milanese Giulio Gallera ha battuto il poeta romano: “Se l’indice di contagio è 0,5 servono due persone infette allo stesso momento per infettare me”. Come dire che per contrarre l’Aids (indice di contagio 0,1) bisogna fare l’amore contemporaneamente con 10 uomini, o 10 donne. Sono gli effetti collaterali del Covid-19: in poche settimane, imbolsito da un’indigestione di dichiarazioni, conferenze stampa, interviste, dirette Facebook, il più visibile e mediatico degli assessori regionali, pronto alla candidatura a sindaco di Milano, è precipitato nella Geenna dei reietti. Il centrosinistra chiede le sue dimissioni, la Lega lo vorrebbe cacciare. Prima delle illuminazioni statistiche, c’erano state la mancata chiusura in zona rossa di Alzano Lombardo, l’abbandono dei medici di base, i tamponi con il contagocce, il trasferimento degli infetti nelle residenze per anziani, i test sierologici prima rifiutati e poi liberalizzati, il flop dell’ospedale in Fiera. E prima ancora? Chi era Gallera, prima di diventare Gallera?
Era il figlio del Cavalier Eugenio, il padrone delle Ferriere. Quando Giulio nasce, nel 1969, la Ferriera di Caronno Pertusella, cresciuta negli anni del boom a metà strada tra Milano e Varese e a un passo dalla più nota acciaieria dei Riva, è diventata fornitrice dell’Alfa Romeo e fa utili d’oro. Poi la crisi dell’auto e la dismissione dell’Alfa di Arese fa chiudere anche la Ferriera di Caronno. Intanto Giulio si è iscritto al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano. Si professa liberale, come il padre, che oltre a essere Cavaliere del lavoro è anche “governatore” di quella forma moderata di loggia che è il Lions Club. Negli anni dei paninari, Giulio è un bravo ragazzo con le gote rosse che va vestito elegantino, giacchetta invece del bomber, non è proprio un fulmine con le ragazze, cerca di diffondere il verbo liberale, si scontra (a parole) con i ragazzi di sinistra e, benché non sia proprio quello che si dice un leader carismatico, riesce a farsi eleggere nel consiglio d’istituto. Dopo la maturità si iscrive a Giurisprudenza alla Statale di Milano, fa pratica presso lo studio di Marco Rocchini, il sindaco forzista di Arcore, e diventa avvocato. Ma a esercitare davvero la professione è solo suo fratello Massimo, perché Giulio è il politico della famiglia.
Comincia presto, facendosi eleggere due volte, nel 1990 e nel 1993, in consiglio di zona 19, San Siro, nelle liste del Partito liberale. Poi aderisce a Forza Italia, ala laica, non quella formigoniana di Cl, e nel 1997 viene eletto per la prima volta in Consiglio comunale. Dimostra subito una buona capacità di raccogliere voti. Tanto che, rieletto nel 2001, ottavo per preferenze, lo fanno assessore: al Decentramento e ai servizi funebri e cimiteriali, tanto per cominciare. Presagio del futuro? Con il suo sindaco, Gabriele Albertini, non va sempre d’accordo: da liberale, Gallera non approva per esempio la recinzione e la chiusura notturna di piazza Vetra, blindata in nome della sicurezza e della guerra agli spacciatori di fumo; e nel 2003 non si unisce al coro della destra che vuole proibire il concerto a Milano di Marilyn Manson. Cresce, in politica, elezione dopo elezione. Due piccoli incidenti, tra il 2010 e il 2011, non fermano la sua corsa. Il nome del fratello Massimo compare nell’elenco di Affittopoli, perché ha lo studio legale in un appartamento di Porta Romana di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Il nome di Giulio è scritto invece in qualche carta dell’antimafia di Ilda Boccassini, perché gli amici degli amici della ’ndrangheta lo nominano nelle loro telefonate come un possibile interlocutore a cui portare voti. Ma qui il terreno è minato: mai indagato, Gallera ha querelato il Fatto, che aveva raccontato la vicenda, ha vinto e ora chiede molti soldi perché gli avremmo rovinato la carriera. In realtà la sua carriera è stata finora tutta in ascesa. Consigliere di zona, consigliere comunale, capogruppo di Forza Italia, assessore comunale, poi consigliere regionale, infine assessore al Welfare, sanità e assistenza, nell’assessorato con il budget più ricco (19,2 miliardi) nella regione più ricca d’Italia.
Giulio Gallera è uomo fortunato, che trasforma le cadute (altrui) in balzi (propri). Entra in consiglio regionale, per dire, perché nel 2012 sostituisce, come primo dei non eletti, Domenico Zambetti, arrestato perché comprava i voti della ’ndrangheta a 50 euro l’uno. L’anno dopo entra al Pirellone per la porta principale, 11° nella classifica delle preferenze. Conquista la poltrona più ambita della giunta lombarda nel 2016, dopo che il suo predecessore alla Sanità, il ras di Forza Italia Mario Mantovani, atteso una mattina a Palazzo Lombardia per aprire i lavori della Giornata della Trasparenza, viene arrestato per corruzione e concussione. I leghisti cercano di approfittarne per impossessarsi della gestione della sanità lombarda, ma la coordinatrice di Forza Italia, Mariastella Gelmini, non molla la presa e impone Gallera. Poi è tutto un susseguirsi di manovre per contenerlo, mettendogli a fianco uomini di valore, come l’ex rettore Gianluca Vago e l’ex direttore generale della Statale Walter Bergamaschi. Niente da fare. Li fa fuori. Del resto, ha i voti: alle Regionali del 2018 è primo assoluto con 11.722 preferenze. Viene comunque controllato a vista da due leghisti che ne limitano le deleghe e controllano le scelte: Davide Caparini, assessore al Bilancio, e Giulia Martinelli, la Papessa, ex moglie di Matteo Salvini, capo di gabinetto del presidente regionale Attilio Fontana. Non bastano. Poi arriva Covid-19 e Gallera diventa incontenibile. Show quotidiani e gaffe. Ma ora forse la ruota della fortuna è girata.

Sta sparendo, ma con Renzi si deve convivere. - Antonio Padellaro

Pd diviso anche nella raccolta firme anti Salvini. E Renzi ferma ...
Il sorpasso di Carlo Calenda su Matteo Renzi (certificato dal sondaggio Swg di Enrico Mentana) può dirci molto su come sia mutata la percezione degli elettori nei tre mesi di Coronavirus. Non tanto per le percentuali assai ridotte (2,9% Azione, 2,7% Italia Viva) ma per la natura stessa dei due personaggi.
Da una parte un ex premier (de)caduto dalle vette del 41% che la scorsa estate grazie a un’abile e disperata manovra di palazzo si è costruito una preziosa rendita di posizione al Senato, dove i numeri per il governo sono ballerini. Con un partito che ha la consistenza di certe società di comodo: un indirizzo e una buca delle lettere. Quanto alla popolarità e alla simpatia del suo leader, vanno di pari passo ma si sono perse per strada.
Anche quello di Calenda più che un partito è un’insegna, ma (stando agli ascolti) quando parla la gente sembra seguirlo con attenzione. Durante la quarantena è stato costantemente sui teleschermi, spesso per criticare questa o quella cosa del governo Conte, non di rado con argomenti fondati. Il tono saccente, compensato da una certa autoironia non lo rende antipatico, anzi. Texano dai modi spicci, il presidente americano Lyndon Johnson diceva: “Meglio avere i tuoi nemici dentro la tenda che la fanno fuori, piuttosto che averli fuori dalla tenda che te la fanno dentro”. Aforisma smentito da Renzi, uno che nella tenda ci sta ma per farci i comodi suoi. Mentre Calenda, che pure è all’opposizione, forse nella tenda saprebbe come comportarsi.
L’Italia del dopo Covid-19 ne ha le scatole piene del gioco delle tre carte camuffato da politica. Vuole capire non essere manipolata. Cerca ascolto e autenticità, non la lingua biforcuta del qui lo dico e qui lo nego (la furbata che ha mandato assolto Salvini). Purtroppo, anche se nei sondaggi Italia Viva dovesse scomparire sotto la voce “altri”, con il renzismo di potere, come con certi virus endemici, siamo destinati a convivere a lungo.

Non sarà lo “straniero” a resuscitare Salvini. - Gad Lerner

Non sarà lo “straniero” a resuscitare Salvini

Nel pomeriggio di martedì 20 agosto dello scorso anno, al Senato, seduto accanto a Giuseppe Conte che ripudiava solennemente l’alleanza con lui e annunciava le dimissioni del suo primo governo, Matteo Salvini non riusciva a trattenere una serie di smorfie facciali. Stava rendendosi conto di avere commesso un errore politico fatale, di quelli che prima o poi si pagano caro.
Più o meno alla stessa ora il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, accompagnato da due medici, volava in elicottero a ispezionare la nave Open Arms che aveva raccolto in acque libiche 163 naufraghi, di cui 32 minori. Ne restavano a bordo 83, lasciati ventuno giorni in mare, gli ultimi sette a poche centinaia di metri dal porto. Alcuni si erano buttati in mare, altri avevano compiuto gesti di autolesionismo, per tutti la situazione era divenuta insostenibile. Il magistrato dispose l’immediato sbarco dei migranti e il sequestro della nave. Prese il via un’indagine per rifiuto o omissione di atti d’ufficio.
Salvini, dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del maggio precedente, si sentiva ormai predestinato a diventare il capo dell’Italia. Atteggiandosi a difensore dei confini della patria, minacciata da quei pericolosi invasori, aveva dettato l’ordine di bloccare la Open Arms dallo stabilimento balneare in cui trascorreva le vacanze.
Dopo anni di martellante propaganda era convinto, non del tutto a torto, di aver convinto l’Italia intera che la causa principale dei suoi mali fosse l’immigrazione. Lo avevano assecondato gli alleati del M5S e, di fronte a quell’esibizione di “cattiveria necessaria”, i politici del centrosinistra arretravano intimiditi. Si giunse ad additare come criminali i volontari del soccorso in mare e dell’accoglienza.
Non ho mai pensato che questa pagina vergognosa della nostra storia potesse trovare rimedio per via giudiziaria. C’è per fortuna un’Italia migliore che ha vissuto con disagio l’acquiescenza dei più. Salvini, trascinato all’opposizione dal suo stesso delirio di onnipotenza, fallirà la spallata al nuovo governo. Nel frattempo, purtroppo, anche la doppia tragedia dell’epidemia e della recessione si è incaricata di sovvertire la gerarchia delle paure. Nessuno se la beve più la favola che il pericolo per la povera gente venga dal mare. Ben altre sono le priorità.
Non potendo più cavalcare la xenofobia come principale leitmotiv della sua politica, Salvini ha cercato di puntare su altre autorappresentazioni: il patriottismo, il tradizionalismo cattolico. Ma indossando le vesti del nazionalista uomo di fede egli appare talmente inautentico, dilettantesco, da sfiorare ogni volta la carnevalata.
Dall’interno della Lega, primo fra tutti il fondatore Umberto Bossi, gli rimproverano di avere rinnegato la causa dell’autonomismo nordista e di avere fallito nel contempo l’espansione al Sud. La penisola torna a soffrire pericolose lacerazioni geografiche. Ormai, più leghista di Salvini appare non solo il Doge del Veneto, Luca Zaia, ma perfino il viceré borbonico di Campania, Vincenzo De Luca.
A lui non resta che rifugiarsi nel buon tempo andato. Cerca conforto nella sua fama di ministro-sceriffo. Dimenticando di aver chiesto di essere processato insieme a tutto il popolo italiano in uno stadio di calcio, ora esulta se i giochi politici fanno riemergere una tentazione filoleghista mai del tutto sopita tra i parlamentari M5S (ricordate Lannutti, quello che voleva affondare le navi delle Ong?) e incassa l’appoggio dell’altro Matteo.
Neanche la parziale vittoria ottenuta ieri alla Giunta per le immunità del Senato, in attesa del voto d’aula, sembra però in grado di riportare sotto i riflettori i suoi metodi di lotta contro l’immigrazione irregolare. Dovrebbe essere la magistratura a verificare se tali metodi brutali, come a me sembra evidente, abbiano oltrepassato i limiti delle sue prerogative, e quale fattispecie di reato ciò comporti. Lui, come sempre, cerca di atteggiarsi a metà eroe e a metà vittima. Ma il tempo è galantuomo. Non sarà la caccia allo straniero a restituirgli la centralità perduta.