Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 11 giugno 2020
Processi somari. - Marco Travaglio
Avete presente il cosiddetto caso Bonafede-Dap-scarcerazioni? E due mesi di “Non è l’Arena, è Salvini” sul ministro, su Basentini e sui loro parenti vivi o morti fino al sesto grado? E i processi al Guardasigilli&C. nel question time, nella mozione di sfiducia e in inutili audizioni in quella parodia di commissione Antimafia ridotta a succursale di casa Giletti (ma senza Salvini, latitante da due anni per non rispondere sui rapporti con Siri e Arata, socio occulto di Nicastri amico di Messina Denaro)? Bene, buttate pure tutto nel cestino. Erano tutte balle, fuffa, armi di distrazione di massa per colpire il ministro che ha bloccato la prescrizione e affibbiargli la colpa delle scarcerazioni di 350 mafiosi e malavitosi (50 già tornati dentro), che ovviamente sono responsabilità esclusiva dei giudici di sorveglianza che le hanno firmate. Basta leggere l’ordinanza di quello di Sassari che ha riesaminato, alla luce del decreto anti-scarcerazioni, gli arresti domiciliari da lui stesso concessi a Pasquale Zagaria il 23 aprile in piena pandemia. E li ha confermati, sollevando questione di legittimità costituzionale contro il decreto. È Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, che ha un’idea del carcere opposta alla nostra. Ma ha il merito di rivendicare le sue decisioni e convinzioni senza incolpare gli altri né inventare scuse. Viva la faccia.
Da tre mesi chi vuole liberarsi di Bonafede starnazza che le scarcerazioni sono colpa sua, dell’ex capo del Dap Basentini e di una circolare del 21 marzo che avrebbe dato la stura al “liberi tutti”. Circolare che non parla mai di scarcerazioni: si limita a chiedere i nomi dei detenuti affetti da patologie che li espongano a conseguenze letali in caso di contagio per metterli in sicurezza (con isolamenti, esami, precauzioni varie: non certo per scarcerarli, visto che si rischia il Covid molto più fuori che dentro). Dunque le scarcerazioni con la circolare non c’entrano nulla, anche se molti giudici se ne sono fatti scudo per dare sfogo ai loro uzzoli decarceratorii. Non è il caso di De Vito che, già nell’ordinanza che mandava a casa (a Brescia, epicentro del Covid) il camorrista Zagaria, chiariva di averlo fatto in base al Codice penale e all’Ordinamento penitenziario. Certo, aveva chiesto al Dap di indicare un centro di cura penitenziario e il Dap, con un’imperdonabile gestione burocratica (giustamente pagata da Basentini con le dimissioni), non aveva risposto in tempo. Ma il giudice chiariva che Zagaria l’avrebbe scarcerato lo stesso, perché riteneva le sue condizioni di salute (neoplasia vescicale, da poco operata con postumi gravi) incompatibili con cure in qualunque struttura penitenziaria.
E ora lo ripete con ancor maggiore nettezza nell’ordinanza che conferma i domiciliari. Zagaria deve restare a casa nel Bresciano e curarsi nell’ospedale del posto: non per le mancate risposte del Dap, che nel frattempo ha indicato strutture alternative (nell’ospedale Belcolle di Viterbo) a quelle che prima erano inutilizzabili in Sardegna (occupate da casi di Covid e ora di nuovo disponibili); ma perché non il Dap, non Basentini, non la circolare, non Bonafede, ma il giudice, nella sua insindacabile “discrezionalità”, ha deciso che la “patologia grave non è fronteggiabile con strumenti diagnostici-terapeutici in ambiente carcerario”; e perché la “Corte d’appello di Napoli in data 22.1.2015” ha definito Zagaria “non più pericoloso”. E l’ha mandato a casa in base al “bilanciamento discrezionale tra diritto alla salute e sicurezza sociale”, visto che il detenuto non può ricevere “adeguate cure mediche in ambito carcerario”. Punto. Chiunque sia il ministro o il capo del Dap, con o senza il decreto, il giudice di Sassari non cambia idea. Solo alla “scadenza del termine individuato” (5 mesi) da lui, e non di quello indicato nel decreto (“immediatamente”), opererà la “rivalutazione della persistenza delle ragioni del differimento e della detenzione domiciliare” in base “all’evoluzione della patologia”. Né quando adottò il provvedimento, né ora il giudice si lascia influenzare dalla “comunicazione del Dap in ordine alla disponibilità delle strutture protette”, dai pareri della Dna e delle Dda “favorevoli al ripristino della detenzione”. Né dal nuovo decreto, che ritiene incostituzionale perché “sconfina nella sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria”, cioè a lui.
Cosa sarebbe accaduto se il Dap gli avesse risposto per tempo, prima del 23 aprile? “L’idoneità dei reparti di medicina protetta tempestivamente comunicati dal Dap avrebbe dovuto essere valutata da questo tribunale con riferimento all’intervento diagnostico che lo Stato non era riuscito ad assicurare” con l’intervento chirurgico. Ma non sarebbe bastata neppure allora a evitare la scarcerazione: infatti neanche ora è “possibile valutare l’idoneità delle strutture indicate a evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Ciò sarà possibile solo in caso di “guarigione e idoneità delle cure”. Cioè non ora, neppure in presenza di strutture penitenziarie: “una rivalutazione improvvisa… prevalentemente indirizzata al ripristino della detenzione, comporta una violazione del diritto alla salute”. Chissà se i mitomani in Parlamento, in Antimafia, nei giornali e nei tele-pollai leggeranno l’ordinanza e la pianteranno. Ma c’è da dubitarne: non c’è peggior mitomane di chi non vuol capire.
Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato. - Gianni Barbacetto
Le dimissioni dell’assessore Giulio Gallera aleggiano da giorni sul Pirellone. Sono il sale e il fiele del dibattito politico in Regione Lombardia. Tutti ne parlano, nessuno vuole e può farle scattare. Alla Lega non dispiacerebbero, ma sarebbero il segnale contrario del “rifaremmo tutto, non abbiamo sbagliato niente” che tutti ripetono, ai piani alti di Palazzo Lombardia.
Così la zarina della Regione, Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente Attilio Fontana (nonché ex moglie di Matteo Salvini), da sempre in conflitto con Gallera, ha trovato la soluzione: ci teniamo l’assessore, via il direttore generale. Per ora: poi si vedrà. Così è saltato Luigi Cajazzo, il capo dei tecnici della sanità lombarda, che fino a ieri declamava: “Noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso”.
Saltato. Saltato verso l’alto, però, promosso a un posto formalmente più prestigioso (e meglio pagato): vicesegretario generale della Regione, e per di più “con delega all’integrazione sociosanitaria”, cioè con l’incarico di preparare la riforma del sistema sanità che ha fatto della regione più ricca d’Europa anche quella con più morti e contagiati dal virus. Sì, saltato verso l’alto: anche perché farlo saltare verso il basso non sarebbe stata una buona idea per i vertici politici regionali, visto che Cajazzo dovrà passare le prossime settimane a girare le Procure della Lombardia, per rispondere alle tante domande dei pm sulla gestione dell’emergenza Covid. Per Fontana e Gallera è meglio avere un Cajazzo promosso, piuttosto che rimosso. Ed è meglio averlo non troppo arrabbiato con i politici che hanno scaricato su di lui, tecnico, i cortocircuiti del coronavirus. È stato il fusibile che è saltato.
Sostituito con un altro tecnico che è un grande ritorno al passato. Cajazzo era un poliziotto, non un manager sanitario. Più bravo a inviare email paracadute in vista di future contestazioni, che non a dirigere concretamente la sanità. Che in parte è stata gestita dai politici, Fontana, Gallera e anche Davide Caparini, il leghista assessore al Bilancio che tiene i cordoni della borsa e fa fronte d’acciaio con la zarina Martinelli. In parte è andata per conto suo, gestita dal vento feroce che soffiava a febbraio su Alzano Lombardo, su Nembro, sulle residenze per anziani, sull’ospedale in Fiera da costruire, sui test sierologici da cercare, sulle mascherine da distribuire, sui camici da reperire.
Il nuovo direttore generale invece è un vecchio volpone della sanità. Marco Trivelli ha fatto il manager all’ospedale Niguarda di Milano, al Sacco, agli Spedali civili di Brescia. Cinquantasei anni, bocconiano, viene dal mondo di Comunione e liberazione, era tra gli uomini-sanità di Roberto Formigoni, ai tempi del suo celeste impero. Se oggi arriva a Palazzo Lombardia con la missione di far dimenticare la gestione dell’emergenza più disastrosa d’Europa è segno che, da una parte, la sua competenza manageriale è sopravvissuta al naufragio del Celeste; dall’altra, che né la Lega di Martinelli-Caparini, né la Forza Italia “laica” di Gallera e soci hanno uomini da mettere nei posti più delicati. C’è già profumo di Cl ai vertici di aziende regionali importanti come Aler e Trenord, ora anche in quello della sanità. Le opposizioni intanto scalpitano. Il Pd, con Pietro Bussolati, apprezza che almeno una testa sia saltata, seppur come “capro espiatorio tecnico di responsabilità che sono politiche”. I Cinquestelle sottolineano il ritorno al passato: “Si scrive Trivelli si legge Formigoni”, dice Gregorio Mammì, consigliere regionale M5s. “La sanità lombarda va riformata cancellando la riforma di Roberto Maroni, togliendo le mani dei partiti dalle nomine, garantendo più risorse alla sanità pubblica e al sistema territoriale”.
mercoledì 10 giugno 2020
LA TRAGEDIA ALL’ITALIANA TRA COGNATI E “BIDONI” - Antonio Padellaro
Nella tragedia all’italiana vista su Report l’intervista al citofono con il cognato di Attilio Fontana potrebbe essere il sequel Covid di “Un eroe dei nostri tempi”. E se anche (purtroppo) non c’è più Alberto Sordi, ritorna pur sempre l’eterna maschera del cognato, che da Pillitteri (Bettino Craxi) a Tulliani (Gianfranco Fini) è il parente fatale, figura incuneata tra famiglia e politica con effetti non sempre positivi per entrambe. Rispetto ai Monicelli e ai Dino Risi in più abbiamo il citofono, apparecchio oltremodo a rischio per chi chiama (Salvini al Pilastro: “Lei spaccia?”), e se lo sventurato risponde. Infatti, uno si chiede cos’è che il cognato di Fontana (che sembra interloquire dalla cucina con uno strofinaccio sulla bocca) vuole nasconderci? I rubinetti d’oro? La vasca dei coccodrilli per giornalisti ficcanaso? O il quintale di camici che gli sono rimasti sul groppone? Nel cinema vero di Report spiccano gli “amici miei” di Matteo Salvini con l’assessore trentino che promuove le settimane bianche a epidemia incombente (infatti è pure albergatore). E le conoscenze della non diversamente leghista Donatella Tesei, presidente di quella Regione Umbria che paga 150 mila euro in più del prezzo di mercato una partita di test sierologici procurati da un imprenditore, immortalato accanto a essa in una cena elettorale (del tutto casualmente s’intende). E se fosse una pellicola neorealista che titolo daremmo all’accordo tra il Policlinico San Matteo di Pavia e la Diasorin, annullato dal Tar: i test acquistati dalla Regione Lombardia per gli screening di massa (mezzo milione senza gara a 4 euro l’uno)? Il Bidone? Presto, con i 170 miliardi e rotti che stanno per planare dall’Europa sull’Italia avremo, vedrete, una stagione cinematografica pimpante. Un paio di remake: “ I Magliari”, “Finché c’è virus c’è speranza”. E l’“Audace colpo dei soliti noti”. Che in sintonia con lo spirito del tempo si chiamerà: “Ce la faremo”.
Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas- Salvatore Cannavò
Anche la Nobel Esther Duflo, grande esperta di povertà.
A differenza del cacao, Vittorio Colao non è meravigliao. Il suo piano, fitto di analisi e proposte dettagliate, non scalda i cuori. Nemmeno di quelli che invece dovrebbero trovarci sostegno e rappresentanza, basti guardare allo spazio risicato che gli ha riservato Il Sole 24 Ore.
Il punto è che al suo piano manca l’idea-forza, quello spunto che possa scaldare gli animi e indicare una strada. Ora Conte, con il programma dei “suoi” Stati generali, compie uno scarto rispetto alla task-force di Colao pur senza giungere a una sconfessione. Il manager sarà presente agli Stati generali, ma ci saranno talmente tanti e variegati attori economici, sociali, intellettuali da modificare ampiamente il campo di gioco.
La mossa a sorpresa è la presenza di Christine Lagarde accanto a Ursula von der Leyen, oltre alla direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva. Il governo Conte era nato nel segno di “Ursula” con il premier che si spese in prima persona per favorire il voto del M5S alla nuova presidente della Commissione europea. Ma, finora, l’aiuto più diretto e concreto all’Italia è giunto dalla Bce che, dopo l’iniziale gaffe di Lagarde – “Non siamo qui a chiudere lo spread” – ha iniettato miliardi di euro sui mercati obbligazionari per rastrellare titoli del debito pubblico. E dopo la decisione di aumentare il piano anti-pandemia, Pepp, di 600 miliardi oltre i primi 750, lo spread tra i Btp italiani e il Bund decennale tedesco si è effettivamente ridotto.
Lagarde è l’emblema della politica europea che serve a qualche cosa. Il suo ruolo è invocato anche dai sovranisti che spingono per la monetizzazione del debito. Conte riesce nell’impresa di farsi accompagnare così da due figure chiave dell’attuale snodo europeo e la loro presenza agli impegnativi Stati generali serve a sostenere le ragioni italiane. La presenza viene condita dall’invito rivolto anche alla Georgieva e al segretario dell’Ocse, l’Organizzazione di cooperazione sociale ed economica composta da 36 membri, Angel Gurrìa. Sia la Georgieva sia Gurrìa sono esponenti di un pensiero liberale e conservatore, ma Conte ha voluto pure Olivier Blanchard, già capo economista del Fmi negli anni più duri della crisi post-2008, esponente di un pensiero mainstream che però ha dovuto recitare in seguito più di un mea culpa. Invito ancora più interessante quello rivolto al premio Nobel, Esther Duflo che ha ricevuto il riconoscimento grazie agli studi sulla povertà globale.
Conte vuole parlare con tutti, le opposizioni, gli interlocutori internazionali, tutte le organizzazioni sociali. Per capirsi: non solo Confindustria e i tre sindacati principali. E dunque Confcommercio, Confapi ma anche, in linea con l’invito alla Duflo, l’Alleanza contro la povertà, con esponenti del Terzo settore e molte altre realtà di società civile.
Accanto a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria e finora duro avversario del governo, ci saranno molti esponenti delle più importanti industrie nazionali, a partire da Eni, Enel o Poste, singoli imprenditori. Come a dire, l’impresa è più ampia dell’attuale Confindustria. Anche sulle personalità si gioca su un fronte più largo: sono invitati Renzo Piano, ma anche gli architetti Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas.
Conte punta così a spazzare via le polemiche degli ultimi e ai presunti screzi con i Dem: agli Stati generali, del resto, ci saranno anche Paolo Gentiloni e David Sassoli, esponenti del Pd in Europa. In tal modo il partito di Zingaretti avrà meno occasioni di smarcarsi.
Se ricostruzione deve essere, però, servirà uno scatto, un’idea-forza, un orizzonte. In questi giorni è uscito il libro di Thomas Piketty in cui l’economista fa una proposta shock: tassare i patrimoni per erogare una “dote” di 120 mila euro a tutti i giovani di 25 anni. Magari Piketty è troppo socialista, la sua proposta è irrealizzabile e non è di questo che si parla. Ma la sua idea è di quelle che esattamente esprimono un’idea-forza. Anche al governo ne servirà una.
Il mitomane recidivo. - Marco Travaglio
E niente, l’Innominabile ha capito di essere l’Innominabile (furbo lui) e ha ripreso con le cause civili al Fatto. Ormai abbiamo perso il conto, forse siamo alla quindicesima, forse alla sedicesima (in sei mesi). Se voleva comunicarci che, oltreché di voti, ha bisogno di soldi, l’abbiamo capito. Solo ci domandiamo che senso abbia intasare i tribunali, così impegnati a giudicare i suoi cari per reati gravi e non di opinione, con liti temerarie che calpestano il diritto di critica e di satira (oltreché di cronaca). Liti che, se il Rignanese non avesse l’immunità e gli altri lo giudicassero col metro che pretende di applicare a noi, passerebbe in tribunale il resto dei suoi giorni. Nell’ultimo atto di citazione che ci ha fatto recapitare, chiede non so più che cifra perché l’ho definito “mitomane molesto”. In realtà gli facevo il favore di fornirgli un alibi, perché l’unica alternativa alla suddetta patologia (psico-politica, s’intende: non conosco la sua vita privata) sarebbe la malafede. Il bello è che, mentre nega di essere un mitomane e trascina in tribunale chi afferma che lo sia, non perde occasione per dimostrare di esserlo.
Leggete qui: “Tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia. Nel bambino normale, entro certi limiti, il fenomeno è frequente come alterazione della realtà dovuta soprattutto al prevalere dell’immaginazione, o all’inesperienza, o al desiderio di evitare un castigo. Nell’adulto, e talora anche nel bambino, ha invece significato patologico, come espressione di una personalità anomala, generalmente isterica, che, mediante la falsificazione della realtà e con racconti fantastici, cerca di attirare su di sé l’attenzione di quanti lo circondano allo scopo di soddisfare l’esagerata vanità e il bisogno di stima (pseudologia fantastica). Mentre alcuni di questi soggetti sanno perfettamente di abbandonare il terreno della realtà, altri al contrario non hanno piena consapevolezza delle proprie menzogne”. Pare il suo ritratto sputato, invece è la definizione di “mitomania” sul dizionario Treccani. Sarà uno spasso, dunque, vedere l’Innominabile che tenta di dimostrare al giudice di non essere così. Io, per parte mia, mi limiterò ad allegare alla mia memoria difensiva le interviste che denotano non solo la mitomania, ma anche un’altra patologia (sempre intesa in senso psico-politico): la “proiezione”, cioè il “processo difensivo per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso”. Prendete la sua ultima comparsata (definirla intervista sarebbe eccessivo) chez Giletti. Si parlava del caso Bonafede-Di Matteo-Basentini.
E lui spiegava che il ministro scelse come direttore del Dap Francesco Basentini perché questi aveva indagato a Potenza su Tempa Rossa: “un’inchiesta fuffa”, fatta apposta per colpire il suo governo “con un enorme dispiegamento di forze, intercettazioni sulla vita privata delle persone”, di talché “la bravissima ministra Guidi fu costretta a dimettersi. Eppure l’indagine non portò a nulla”. Naturalmente l’indagine, tutt’altro che fuffa, portò a un processo tuttora in corso. E a indurre la bravissima ministra Guidi a dimettersi non furono né Basentini, né Bonafede. Fu l’Innominabile. Quando uscirono le telefonate fra la ministra dello Sviluppo e il suo compagno Gianluca Gemelli, lobbista petrolifero, che premeva per farle inserire un emendamento pro petrolieri e la trattava “come una sguattera del Guatemala”, l’allora premier le chiese di dimettersi. E se ne vantò al Tg2: “Non c’è niente di illecito, ma il ministro Guidi ha fatto un errore e ne va preso atto. In Italia adesso chi sbaglia va a casa”. Quale errore? Fu lui stesso a spiegarlo: “Quando l’emendamento è stato presentato, il ministro dello Sviluppo l’ha comunicato in anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business. Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità”. L’altra sera, invece, vaneggiava di “intercettazioni sulla vita privata” (come se gli emendamenti a una legge fossero equiparabili a un amplesso o a un bacetto) e attribuiva le dimissioni della Guidi a Basentini (che non disse una parola) e a Bonafede (che dall’opposizione chiese le dimissioni della ministra, ma fu anticipato dal premier più “giustizialista” di lui). E il cosiddetto intervistatore Giletti, che ha il pregio di non avere mai la più pallida idea di ciò di cui si parla, s’è ben guardato dallo smentirlo. Nessun’obiezione neppure quando l’Innominabile, in un attacco congiunto di mitomania e proiezione, ha accusato Bonafede di aver “chiesto le dimissioni non solo della Guidi, ma anche di Alfano e di altri miei ministri”. Ora, sapete chi fu il primo a invocare le dimissioni di Alfano? L’Innominabile, che 7 anni fa chiedeva la testa dei ministri di Letta prima di prenderne il posto. Il primo fu proprio Alfano, per il sequestro Shalabayeva: “Se Alfano sapeva, ha mentito e questo è un piccolo problema. Se non sapeva è anche peggio… Se si è sbagliato, qualcuno si assuma la responsabilità” (18.7.2013). Poi, appena andò al governo, lasciò Alfano al Viminale. E ora, grazie alla smemoratezza di chi dovrebbe contraddirlo, confonde Bonafede con se stesso. Mitomania o malafede? Scelga e ci faccia sapere.
Migranti. Naufragio al largo della Tunisia: almeno 20 morti.
Foto d'archivio.
Ma sul barcone sarebbero stati in 53: non è stato trovato nessun sopravvissuto.
Sono almeno 20 le vittime del naufragio di imbarcazione di migranti africani affondata al largo della Tunisia. Lo riferiscono fonti ufficiali tunisine.
La Guardia costiera di Tunisi ha recuperato 20 corpi di migranti, ma non è chiaro quante siano effettivamente le vittime. Secondo una fonte tunisina l'imbarcazione affondata avrebbe portato una cinquantina di persone. I corpi recuperati sono tutti di africani, senz'altro migranti. Sono affogati al largo della costa tunisina di Sfax. Sempre secondo fonti citate dai media tunisini, lo scorso fine settimana 53 persone avrebbero preso il largo nel tentativo di raggiungere l'Italia.
Altre tre imbarcazioni in difficoltà, cariche di migranti, sono segnalate al largo della Libia. Secondo quanto afferma Sergio Scandura di Radio Radicale, sono state localizzate a 64 miglia a nord di Zuara, in Libia. Scandura, che ha tracciato l'orbita di un velivolo Frontex, cita fonti di Ong.
Nessuno organizza manifestazioni in favore di chi scappa dai soprusi, dalle guerre, dallo strapotere di chi si appropria delle loro terre, di chi soffre e muore con la speranza di un futuro migliore.
L'uomo è un essere strano, incomprensibile sotto certi aspetti. C.
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