domenica 21 giugno 2020

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire. - Giovanna Trinchella e Andrea Tundo

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire

Almeno 3 milioni di euro, sostiene la procura di Torino, sono stati usati per pagare finte consulenze d'oro a proprietari e manager della società, comprare 5 auto di lusso ed estinguere sofferenze bancarie personali. Così mentre buona parte dei 417 operai di Riva di Chieri restava in cassa integrazione e la fabbrica non è mai tornata operativa, i conti di Ventures sono stati prosciugati. Il "disegno criminoso" partito subito dopo il via libera del ministero dello Sviluppo Economico. Tibaldi (Fiom-Cgil) al Fatto.it: "Vicenda paradigmatica di come si fanno le reindustrializzazioni in Italia. Invitalia e Mise parlavano di piano grandioso".
robot per pulire i pannelli solari sono rimasti solo sulle slide del piano industriale, mentre i soldi che sarebbero dovuti servire per rilanciare l’ex Embraco e salvare i quasi 500 operai dal licenziamento finivano sui conti esteri dei manager di Ventures srl. Avevano iniziato pochi giorni dopo l’accodo firmato nel giugno di due anni fa con il gruppo Whirlpool per farsi carico della reindustrializzazione dello stabilimento di Riva di Chieri, nel Torinese, a fronte di 49mila euro di contributo per ogni dipendente assunto dopo l’annuncio della multinazionale di voler licenziare tutti e delocalizzare la produzione dei compressori per frigoriferi.
Almeno 3 milioni di euro dei 20 al centro dell’intesa, sostiene la procura di Torino, sono invece stati usati per pagare finte consulenze d’oro a proprietari e manager della società, comprare 5 tra Bmw Serie 5, Audi A4 e A6 ed estinguere sofferenze bancarie personali. Mentre buona parte dei 417 operai restava in cassa integrazione, la fabbrica non è mai tornata operativa e i conti di Ventures sono stati prosciugati. Tanto che il procuratore aggiunto di Torino Marco Gianoglio ha depositato istanza di fallimento sulla scorta di quanto ricostruito dagli uomini della Guardia di finanza guidati dal comandante provinciale Guido Mario Geremia.
E ora sono scattati sequestri e perquisizioni nei confronti dei 5 indagati in questa vicenda che racconta l’ennesimo fallimentare epilogo di una reindustrializzazione che dentro Invitalia e al ministero dello Sviluppo Economico, prima retto da Carlo Calenda e poi da Luigi Di Maio, davano tutti per risolta. Mentre Ronen Goldstein e Gaetano Di Bari brindavano di fronte ai fotografi e ora si ritrovano indagati per bancarotta per distrazione insieme a Carlo NosedaLuigi e Alessandra Di Bari.
Le 9 pagine del decreto di sequestro preventivo eseguito dai finanzieri raccontano nel dettaglio come, ad avviso degli inquirenti, i cinque della Ventures abbiano “distratto”“occultato” e “dissipato” una parte dei milioni che avrebbero dovuto assicurare un futuro agli operai, che nel gennaio scorso hanno dato nuovo impulso alle indagini con un esposto presentato in procura. Il “disegno criminoso” finalizzato al “drenaggio” delle risorse per scopi personali, stando a quanto ricostruito dagli investigatori, inizia poco dopo l’11 luglio di due anni, giorno in cui Ventures perfeziona la cessione del ramo d’azienda al prezzo simbolico di 10 euro.
L’accordo prevedeva che Embraco avrebbe dovuto versare poco più di 20 milioni di euro con uno “scopo preciso”, ricorda il procuratore aggiunto di Torino: “Evitare il licenziamento dei dipendenti e una grave crisi occupazionale”. Con Ventures che, a sua volta, si sarebbe dovuto dotare delle risorse finanziarie per “attuare” e “sostenere” il piano industriale sulla base del quale aveva ottenuto il via libera dei sindacati e del ministero dello Sviluppo Economico, che aveva accordato anche la cassa integrazione – in scadenza tra un mese – in attesa del riavvio della produzione. La sintesi della procura è tranchant: “Lo stabilimento di Riva di Chieri mai ha iniziato l’attività produttiva, il progetto industriale è rimasto sulla carta, non vi è stato il minimo investimento di capitale. Dunque: una provvista certa in entrata, a cui non ha fatto seguito alcunché”.
Quali strade abbiano preso i primi bonifici arrivati sui conti di Ventures, invece, è ritenuto accertato dagli investigatori che ricostruiscono al centesimo di euro il vorticoso giro di denaro, spesso finito su conti all’estero e poi rientrato in Italia anche per ripianare debiti personali. Tra il 16 luglio 2018 e il 2 dicembre scorso, ha accreditato sui conti di Ventures la “considerevole somma” di 12.680.758,88 euro ma, a fronte di uno stallo totale sotto il profilo industriale eccetto il pagamento degli stipendi decurtati dalla cassa integrazione, il 2 marzo scorso la società “ha completamente esaurito la liquidità” mentre fioccavano i primi pignoramenti.
Intanto “gran parte dei bonifici in uscita” finiva sui conti di Gaetano Di Bari e Carlo Noseda, giustificata come “pagamento fatture” sulle quali per la procura è “lecito dubitare” vista “l’assoluta inoperosità” di Ventures e il poco tempo passato tra i versamenti di Embraco e il giro sui conti personali, a volte questione di ore. Agli occhi dei pm, quindi, “risulta evidente” come il denaro sia stato “quasi interamente distratto” verso “attività estranee alla sua originale destinazione” finendo sui conti personali e “disperdendosi in rivoli che nulla hanno a che vedere con la continuità aziendale” e “con la salvaguardia dei livelli occupazionali”.
I finanzieri hanno accertato come 250mila euro finiti su un conto corrente tedesco intestato a Di Bari hanno in buona parte fatto rientro in Italia venendo “redistribuiti” in favore anche dei figli e della moglie. Altri 92mila euro trasferiti su un conto aperto in una filiale tedesca della Deutsche Bank, sempre secondo gli inquirenti, sono stati “esclusivamente per spese personali” e per estinguere una sofferenza bancaria di oltre 49mila euro conseguente a finanziamenti ed esposizioni degli stessi e di una società a loro riferibile. Movimenti simili sono stati ricostruiti dalla Guardia di finanza anche sui conti di Noseda e in favore di due società riferibili ad Alessandra e Luigi Di Bari che avevano sofferenze per quasi mezzo milione di euro. Mentre 1,38 milioni di euro sono stati trasferiti alla G.R. Consumer System Ltd, società “riferibile” a Goldstein.
Non solo: la terza tranche dei pagamenti di Embraco era legata da contratto all’aumento di capitale di Ventures, ma ad avviso degli inquirenti la ricapitalizzazione sarebbe stata effettuata con una triangolazione. Dai conti partirono due bonifici da 600mila e 230mila in favore della Lad, società amministrata da Alessandra Di Bari, che li utilizzò per sottoscrivere l’aumento. “Ventures eroga a Lad soldi per sottoscrivere il proprio aumento di capitale”, sintetizza la procura che ora ha messo un punto a quella che la Fiom Cgil definisce “una vicenda paradigmatica di come funzionino le reindustrializzazioni” in Italia.
“Se quanto ipotizzano dalla magistratura sarà confermato, quella di Embraco non è un’avventura finita male – spiega Barbara Tibaldi, membro della segreteria generale della Fiom a Ilfattoquotidiano.it – ma nata, con il bollino di Invitalia e del ministro Carlo Calenda, con questi presupposti”. Per la sindacalista ora “è il momento che ognuno si assuma le sue responsabilità, compresa Whirlpool”. La Fiom chiede quindi una “convocazione urgente” per “chiarire il futuro di oltre 400 lavoratori che lottano e aspettano da oltre due anni”.

Mondo di Mezzo, Buzzi a Radio Radicale: «Ho finanziato 'sti papponi e dopo arresto hanno detto "Roma liberata"».

Mondo di Mezzo, Buzzi a Rado Radicale: «Ho finanziato 'sti papponi e dopo arresto hanno detto

«Sono stato dipinto come il "grande corruttore", ma le persone non le ho corrotte, erano corrotte di loro. La sentenza della Cassazione che certifica l'entità delle corruzioni ammontano a 65mila euro, su un fatturato di 180 milioni. Allora dico, non è giusto corrompere, pagare tangenti, ma se io pago 65mila euro di tangenti su un fatturato di 180 milioni di fatturato sono stato bravo e lo rivendico. Tutti mi chiedevano soldi, favori, assunzioni: è la realtà imprenditoriale a Roma, lo abbiamo visto con Parnasi, lo vedremo successivamente con qualche altro disgraziato, ma un imprenditore che fa impresa a Roma, nei servizi con il Comune di Roma si ritrova con persone da assumere, manifestazioni da sponsorizzare e poi se tutto diventa corruzione...». Così Salvatore Buzzi a Radio Radicale, durante il lungo dibattito organizzato dall'associazione Nessuno Tocchi Caino, commenta l'inchiesta di Mafia Capitale, dissoltasi fino alla recente scarcerazione di Massimo Carminati.

E precisa: «Io tante corruzioni le ho avute perché non riuscivo a incassare i miei crediti legittimi: ogni mese mi servivano 5milioni di euro per pagare dipendenti, fornitori, ma se il Comune non pagava? - incalza retorico Buzzi - La famosa intercettazione nella quale avrei detto a una mia collaboratrice 'si guadagna più con la droga che con i migrantì è un falso, è stata montata ad arte. È un'intercettazione ambientale che dice ben altro - attacca - elaborata dal colonnello Russo dei Ros. C'è stato un attacco alla cooperazione sociale mettendo in bocca anche frasi non volute. In relazione alle intercettazioni ambientali che colpiscono oggi i magistrati, con le chat di Palamara, con il trojan, dicono che tra amici si dicono delle cose. E noi? Noi non possiamo dire stupidaggini? No, perché è come se parli davanti a un ufficio notarile».
Poi Buzzi nel dibattito di Nessuno Tocchi Caino entra nel merito delle accuse «politiche». «Tutta questa storia di Mafia Capitale che ha consentito la desertificazione della cooperazione sociale a Roma e alla Raggi di diventare sindaco, è stata un'operazione fatta a tavolino per colpire alcune parti politiche: la destra, Alemanno, Gramazio e Tredicine, e la sinistra, ma guarda caso tutti gli esponenti di Bersani, gli altri erano tutti innocenti. Questa è la cosa grave: poi vedendo le chat di Palamara si scopre che ci sono tante altre cose». E ancora: «Quando ci arrestano il 2 dicembre per mafia nessuno di tutti gli amici con i quali eravamo cresciuti ha detto a Pignatone che stava sbagliando, anzi, addirittura Orfini ha dichiarato che lo ringraziava per aver liberato Roma dalla mafia. La solidarietà vera l'ho avuta dal Partito Radicale, da Sansonetti, da Sgarbi, da pochissime persone ».
«Mi sono fatto da mafioso 5 anni e 18 giorni in alta sicurezza al confine con l'Austria - continua Salvatore Buzzi - mia moglie arrestata, 2 anni e 2 mesi ai domiciliari, mia figlia l'ho ritrovata come un'estranea, aveva 5 anni l'ho ritrovata a 10. Ho querelato tg 5 e tg La7, la Sciarelli perché a me del mafioso non me lo puoi dare più. Bisogna dare un segnale, incominciare a ribellarsi. Non mi sorprende quanto accaduto in altre aziende, quella di Cavallotti l'ho seguita alle Iene. Noi in cooperativa avevamo livelli retributivi elevatissimi, i soci prendevano 16 mensilità, con la legalità si sono ritrovati il cambio di contratto, 13 mensilità quando li pagava, la riduzione del 30% degli stipendi e ora che sono falliti la metà sono disoccupati. Questa è stata la legalità. E le cavallette che hanno depredato la nostra cooperativa, adesso stanno spolpando altre aziende». 
«Sono stato condannato per corruzioni per versamenti pubblici - conclude il fondatore della cooperativa 29 giugno - Con Ozimo per 20mila euro messi a bilancio, con Tredicine 20mila euro messi a bilancio, con Gramazio 15mila euro messi a bilancio. Non li finanziavo in nero, ho sempre finanziato in chiaro: ad esempio con Tredicine, che non è che ha una nomea carina a Roma, non ho telefonate in 2 anni e 2 mesi, ma quale favore mi ha mai fatto se non l'ho mai incontrato? Finanzi la politica perché lo chiedevano. Quando stavo in carcere avevo il rimpianto di aver finanziato 'sti papponi. Trecento mila euro l'anno gli davo legalmente, più quelli illegali, e poi quando ci hanno arrestato per mafia Orfini andava a dire 'ho liberato Roma, ma da chi?'».

Processo alle invenzioni. - Marco Travaglio


Un muro fra politica e magistratura. Bonafede annuncia una riforma ...
Non so quante migliaia fra articoli e talk show siano stati dedicati allo scandalo Palamara. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema: non i giochi di corrente per far promuovere o punire dal Csm il giudice Tizio e il pm Caio (ci sono sempre stati e purtroppo sempre ci saranno se non cambiano l’ordinamento giudiziario e il sistema elettorale del Csm); non le parole in libertà del pm romano e dei suoi interlocutori su Salvini e altri (ciascuno in privato dice ciò che vuole); ma le riunioni clandestine fra Palamara e due estranei alle nomine giudiziarie, i deputati renziani Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (allora Pd e ora Iv), mai espulsi né sanzionati dai loro partiti. Allo stesso modo, non so quante migliaia di articoli e talk show siano stati dedicati al caso Di Matteo-Bonafede, mischiato con questioni totalmente diverse, dalle scarcerazioni al caso Palamara, in un frittomisto tanto appetitoso quanto fuorviante incredibilmente approdato in Antimafia. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema istituzionale che dovrebbe interessare la commissione parlamentare: non la nomina a capo del Dap di Basentini anziché di Di Matteo (scelta politica opinabile e, secondo noi, sbagliata del ministro Bonafede, ma discrezionale, legittima e insindacabile); non le scarcerazioni di centinaia di mafiosi, malavitosi e presunti (decise dai giudici di sorveglianza, non dal Dap); ma un’inquietante eventualità, mai esplicitata ma fatta balenare da Di Matteo il 3 maggio nella telefonata a Giletti e poi da molti pelosi alleati dell’ultim’ora: che cioè Bonafede non l’avesse nominato perché i boss al 41-bis non lo volevano.
Il miglior modo per disinformare la gente è imbottirla e intontirla con notizie che sembrano coerenti e invece c’entrano come i cavoli a merenda, in un gran polverone che fa perdere il filo e dimenticare il punto di partenza: è ciò che han fatto Giletti e la sua corte di mitomani per sei puntate di “Non è l’Arena, è Salvini”, con la collaborazione di molti giornali e del Parlamento (question time, sfiducia a Bonafede e Antimafia). Noi abbiamo pazientemente seguito le audizioni di Bonafede, Di Matteo e un esercito di dirigenti del Dap in Antimafia, a prezzo di terribili emicranie e a rischio di labirintite. E abbiamo scoperto ciò che già tutti sapevamo. 
1) Bonafede offrì gli Affari Penali o il Dap a Di Matteo (18 giugno 2018) quando conosceva da 10 giorni le proteste dei boss e se ne infischiò. 
2) Di Matteo ha sempre smentito che Bonafede avesse deciso su input o per paura dei boss (anche sospetta pressioni di“qualcuno”, pronome che non si addice a un pm). 
3) L’ha ribadito in Antimafia: “Se avessi pensato che Bonafede non mi aveva più dato il Dap a causa di pressioni dei detenuti mafiosi, avrei denunciato la cosa in Procura”. 
Così chiarita la sola questione rilevante per la commissione che indaga su mafia e politica, il presidente Morra&C. avrebbero dovuto congedarlo. Invece han trasformato l’Antimafia nella succursale del Giletti Show (fortunatamente in ferie), facendolo parlare altre 4 ore del più e del meno nel disperato tentativo di resuscitare un caso morto prima di nascere: tipo che Di Maio lo voleva al Viminale (embè?), o che Napolitano nel 2012 voleva far la pace coi pm della Trattativa tramite Palamara. Una non-notizia, visto che Palamara era presidente dell’Anm e quel racconto era già uscito nel mio Viva il Re! (2013).
Intanto è stato sentito pure il dg uscente del Dap Giulio Romano, autore della circolare del 21 marzo che, per la vulgata dei mitomani, “ha scarcerato 500 mafiosi col pretesto del Covid”. Questi, carte alla mano, ha dimostrato che: Bonafede nel dl Cura Italia del 23.2 escludeva i mafiosi dalla liberazione anticipata; la circolare del 21.3 non faceva cenno a scarcerazioni e si limitava a chiedere i nomi dei detenuti con le patologie gravi indicate dai medici come concause mortali da Covid; era stata chiesta dai Tribunali di sorveglianza in base alla legge penitenziaria del 1976, al Dpr 230/2000 e a vari ordini di servizio dei precedenti capi- Dap; queste vecchie norme hanno prodotto le scarcerazioni, non la circolare (atto amministrativo che non può ordinare nulla ai giudici); senza la circolare, in caso di detenuti morti con o per Covid, l’intero Dap sarebbe finito alla sbarra (i Radicali avevano già denunciato Bonafede e Basentini per procurata epidemia, ma i morti sono stati solo 4 su 61 mila); molte scarcerazioni sono state disposte prima della circolare e molte successive non fanno alcun cenno alla circolare, ma a norme vigenti da decenni alla luce delle direttive dell’Oms e dell’Iss sul Covid; dei 498 detenuti “pericolosi” scarcerati al 7 maggio, quelli usciti per l’emergenza Covid sono 223 (e 50 sono già tornati dentro dopo il decreto anti-scarcerazioni), di cui 121 pregiudicati e 103 in custodia cautelare (presunti non colpevoli), e fra questi solo 4 erano al 41-bis, di cui 3 estranei alla circolare; il quarto è Zagaria, scarcerato da un giudice che cita la circolare, ma scrive che l’avrebbe messo fuori comunque; l’unico errore del Dap fu la risposta al giudice di sorveglianza per Zagaria sull’email sbagliata, infatti Basentini e Romano si sono dimessi. Sperando che siate sopravvissuti fin qui, azzardiamo una domanda: ma voi avete capito di che minchia stanno parlando?

sabato 20 giugno 2020

Ciliegie.

Ciliegie: scopri tutte le virtù di questi prodigiosi frutti - Riza.it

Il problema non sono le ciliegie che mangiava, ma il disinteresse che mostrava - mentre mangiava le ciliegie - nei riguardi dell'argomento trattato dal conferenziere che discuteva di bambini morti. Non è il fatto in se stesso, ma il contesto del fatto che fa discutere e lascia sbigottiti.
Lui, in quel momento, ha mostrato la sua vera identità: quella di un opportunista che esercita un mestiere ben remunerato senza assumersi le responsabilità che il mestiere praticato comporta.
In buona sostanza, a lui, di noi, non gliene può fregar di meno, lui vuole solo approfittare dell'occasione ghiotta che gli si è presentata e che vuole mantenere ad ogni costo, conscio del fatto che quell'occasione è foriera di fonti di denaro incalcolabili, se solo riuscisse nel suo intento: quello di diventare capo del governo con pieni poteri e mangiare tutte le ciliegie di questo mondo...

C.

Panna smontata. - Marco Travaglio

SCRIBACCHINO – www.agerecontra.it
(scribacchini)
Anni fa non so più quale pubblicità degli assorbenti mostrava il prodotto bello gonfio prima della cura e poi pressato a sottiletta dopo la cura. Lo stesso trattamento “tara” andrebbe praticato all’informazione politica, che produce ogni giorno enormi quantità di panna montata destinate regolarmente a finire nel nulla. L’altra sera, a Otto e mezzo, mentre un’ex allieva di Pio Pompa giocava a Risiko con l’ennesima scissione dei 5 Stelle, seguita dalla crisi di governo e dall’ingresso di B. nella maggioranza (col M5S!), quel vecchio volpone di Paolo Mieli liquidava il tutto come “il solito chiacchiericcio che fanno i giornali per divertirsi”. Cioè dava per scontato che i giornali debbano inventarsi storie inverosimili per ammazzare il tempo e la noia. E in effetti questo è il passatempo preferito di molte testate, il che spiega la reputazione sottozero della categoria. Basta collezionare un giornale a caso per un mese e verificare che cosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure di presunte “notizie” sparate con grande rilievo 30 giorni prima: nulla. Per non parlare dei “retroscena”: gustosi anche quand’erano inventati ai tempi della grande politica, ma non ora che è già abbastanza triste e pallosa la scena, figurarsi il retro. L’informazione a somma zero si è vieppiù aggravata da quando Conte, per la gestione della pandemia, si è consolidato come il politico più popolare d’Italia. E il Giornale Unico dell’Ammucchiata, scambiando i desiderata dell’Editore Unico per la realtà, ha deciso che deve sloggiare. Dunque ha preso ad annunciare ogni giorno la caduta del governo. Poi, siccome una balla tira l’altra, ha iniziato a inventare, nell’ordine: i registi della crisi (Renzi, Mattarella, Zingaretti, Franceschini, Di Maio, Di Battista); i nomi del nuovo premier (Draghi, Colao, Cottarelli, Bertolaso, Gualtieri, Franceschini, giù giù fino a Guerini e prossimamente a un girino); e le destinazioni del deposto Giuseppi (sindaco di Roma, senatore a Sassari, presidente della Repubblica, ministro degli Esteri, giudice costituzionale, leader del centrosinistra, capo del M5S, anzi del suo nuovo partito “Cont-te”, forse presentatore del prossimo Saremo). Uno spasso.
Da mesi leggiamo tutto e il contrario di tutto, con la garanzia che nulla mai si avvererà. Conte dittatore con pieni poteri che fa tutto da solo ed esautora il Parlamento a suon di decreti e Dpcm. Anzi no, Conte re travicello, immobilista democristiano e indeciso a tutto, che non sa che pesci pigliare e si affida a centinaia di esperti e decine di task force per rinviare sempre. Anzi no, Conte nomina Colao a capo della task force soltanto perché gliel’hanno imposto Mattarella e il Pd.
Ma poi si diverte a fargli la guerra. Anzi no, Conte è schiavo di Colao. Anzi no, Conte scarica Colao. Conte appiattito sul Pd e scaricato dal M5S. Anzi no, Conte è appiattito sul M5S e scaricato dal Pd. Conte non si fa aiutare da nessuno e non ascolta i veri esperti. Anzi no, Conte si fa aiutare dai veri esperti negli Stati generali, ma è un’inutile passerella che non si farà mai perché il Pd non vuole e Di Maio è geloso. Anzi, forse si fa, ma a settembre. Anzi, si fa subito e non sembra poi tanto inutile, tant’è che lo copia pure Sánchez. Conte finge di dialogare con le opposizioni, ma non vuole neppure vederle. Allora le invita a Villa Pamphilj, ma quelle non ci vanno perché “lo attendiamo in Parlamento”. Allora Conte va in Parlamento, ma Lega e FdI escono dall’aula per non incontrarlo (ora citofonerà a Salvini, poi proverà con un mojito alle ciliegie). E vedrete che Conte cade sulla prescrizione, invece non cade. Conte cade sul Russiagate e il rapporto Barr, anzi non cade. Conte cade sulla sfiducia a Bonafede per il caso Di Matteo-Giletti, anzi non cade. Conte cade sul concorso degli insegnanti, anzi non cade. Conte cade sulla sanatoria dei migranti, anzi non cade. Conte chiede all’Ue gli Eurobond e il Recovery Fund, ma non li avrà mai e cadrà: invece li ottiene e non cade. Ma ora vedrete che cade sul Mes e, se non è il Mes, saranno i decreti Sicurezza.
E, se non saranno i decreti Sicurezza, sarà la scissione dei 5Stelle perché la base grillina è stufa del governo (l’ha detto Paragone: infatti il M5S sale nei sondaggi). E, se non sarà la scissione dei 5Stelle, saranno le sommosse, le rivolte e i forconi d’autunno (precisamente a settembre: l’han detto gli autorevoli Folli, Casini e Dagospia). Ma intanto è sicuro: passata la paura del Covid, Conte crolla nei sondaggi perché non ne azzecca più una. Anzi no, ieri il sondaggio di Diamanti su Repubblica lo dà al 65% di gradimento, un punto sopra aprile in piena Fase1. Però le Fasi 2 e 3 sono un disastro: non andremo in vacanza, la scuola non riapre più, le elezioni regionali non si fanno più, la maturità non si farà per via del plexiglass (anzi, una s sola), gli studenti sono abbandonati a se stessi dalla grillina Azzolina (notoriamente incapace: l’ha detto Sala il capace), le mascherine non si trovano, l’idea di quella pippa di Arcuri di metterle a 50 centesimi è folle, la app Immuni non parte per colpa della grillina Pisano (incapace pure lei: l’ha detto la zia di uno che conosco), insomma l’apocalisse è vicina. Poi la maturità si fa, le vacanze e le elezioni regionali pure, la scuola riapre a metà settembre, le mascherine a 50 cent arrivano, la app Immuni c’è, insomma l’apocalisse è rinviata causa bel tempo. Altre cazzate?

Dl Elezioni, Senato rivota fiducia dopo l’errore. Nessuno vuole la colpa e in presidenza finisce tutti contro tutti. Casellati: “Mia responsabilità, ma c’era Taverna”. Lei: “Svilente fare nomi”. Poi la difesa.

Dl Elezioni, Senato rivota fiducia dopo l’errore. Nessuno vuole la colpa e in presidenza finisce tutti contro tutti. Casellati: “Mia responsabilità, ma c’era Taverna”. Lei: “Svilente fare nomi”. Poi la difesa

Dopo l'annullamento del voto di fiducia per un errore tecnico (il precedente risale al 1989), tensione a Palazzo Madama per la caccia ai responsabili. Intanto il provvedimento che istituisce l'election day per recuperare le consultazioni elettorali rinviate per il covid ha ottenuto nuovamente la fiducia.

Tutti contro tutti in Senato pur di non essere additati come responsabili del pasticcio sul decreto Elezioni. Questa mattina l’Aula è stata costretta a rivotare il provvedimento che istituisce l’election day per recuperare le consultazioni rinviate causa covid: il via libera era arrivato già ieri, salvo poi scoprire, in tarda serata, che per un errore tecnico nel conteggio dei congedi mancava il numero legale in Aula. Tutto da rifare, corsa contro il tempo per evitare che il decreto scada (il termine ultimo per la conversione è oggi) e figuraccia per una situazione che l’ultima volta si era verificata nel 1989. Ma se il voto stamattina avrebbe potuto risolversi con una veloce ripetizione mantenendo un profilo istituzionale e riconoscendo l’incidente, l’Aula di Palazzo Madama si è trasformata in un regolamento di conti tra i membri dell’ufficio di presidenza. A scatenare le reazioni sono state le frasi iniziali della presidente Elisabetta Alberti Casellati: “Mi assumo la responsabilità, ma c’era la senatrice Taverna”. Non ha fatto in tempo a finire la frase che la grillina ha preso la parola dai banchi: “Fare i nomi svilisce le istituzioni”. E a sua volta ha accusato Ignazio La Russa, che lei in primo luogo aveva sostituito alla presidenza. Ecco allora entrare in gioco La Russa e il forzista Maurizio Gasparri che hanno chiesto a gran voce le dimissioni della stessa Taverna. Caos generale, fino al nuovo intervento di Casellati che ha cercato di riportare la situazione nei ranghi: “C’è stato un errore che non può essere imputabile certamente a chi lo ha rappresentato”, ha detto. Intanto sul fronte M5s è partita la difesa della collega, tanto da far scomodare il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “In questo momento, la politica tutta deve abbassare i toni dello scontro e mostrarsi responsabile”, ha detto.

Il voto di fiducia ripetuto due volte – È passato per forza di cose in secondo piano il contenuto del decreto Senato che però ha al centro una tematica fondamentale: il recupero delle consultazioni elettorali rinviate a causa della pandemia. Questa mattina l’Aula ha rinnovato la fiducia: se ieri i 149 sì non erano bastati, oggi i sì sono stati 158. Zero i contrari e zero gli astenuti perché i senatori del centrodestra in blocco, come già accaduto ieri, non hanno partecipato al voto per tattica parlamentare, proprio per far venire allo scoperto eventuali défaillance della maggioranza. Ieri, il primo nel pomeriggio a cercare di mettere in difficoltà l’esecutivo era stato il leghista Roberto Calderoli che, proprio vedendo lo scarso numero di senatori in Aula, aveva provato a fare un blitz per rinviare la discussione: sgambetto fallito per soli tre voti di scarto dopo il voto elettronico.

Le accuse incrociate e le scuse in Aula – Se oggi il voto è stato quasi niente di più che una formalità, a tenere banco è stato il regolamento di conti sul a chi bisognerebbe imputare l’errore. La presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha aperto i lavori dicendo di “dolersi” per l’accaduto. “Sono abituata a prendermi le responsabilità. Sono profondamente amareggiata per quanto accaduto, non c’ero io, c’era la presidente Taverna“. Una dichiarazione che è stata interrotta dalle proteste della senatrice M5s che ha, a sua volta, accusato Ignazio La Russa e i colleghi del centrodestra: “L’Ufficio di presidenza è impersonale, fare nomi e cognomi svilisce solo l’istituzione”, ha detto in Aula. “Io ieri presiedevo la seduta in sostituzione del senatore vice presidente La Russa che mi aveva chiesto il cambio sapendo cosa sarebbe successo, ossia la volontà di far mancare il numero legale da parte delle opposizioni, e quindi di minare l’Istituzione stessa. Voglio denunciare il comportamento vergognoso del senatore Gasparri che ieri in televisione andava a raccontare che la presidenza del Senato, nella figura della vice presidente, aveva mistificato il risultato dell’aula. Io ero alla presidenza per far rispettare quest’aula e sostituivo un collega proprio per difendere l’onore del Senato”.
Un intervento che ha spinto il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri a chiedere le dimissioni della stessa Taverna. Infine, è intervenuta la Casellati per cercare di far rientrare lo scontro: “La senatrice ha proclamato un risultato che è venuto fuori dal conteggio, se poi il conteggio si è rivelato sbagliato nulla noi possiamo attribuire alla senatrice Taverna. Nessun tipo di responsabilità l’ho detto tre volte questa mattina, c’è stato purtroppo, e mi dispiace, un errore ma che chiaramente non può essere imputabile alla senatrice Taverna. Come sempre succede ci arriva un foglio con i risultati di un conteggio che non possiamo fare noi, che fanno gli uffici e che vengono riscontrati al computer. C’è stato un errore che non può essere imputabile certamente a chi lo ha rappresentato. Nessuno ha messo in dubbio la sua onorabilità”, ha detto ancora riferendosi alla Taverna, “ho fatto un riferimento preciso ad un errore non imputabile a nessuno, ma esclusivamente ad un sistema informatico”.
Una giustificazione sulla quale è intervenuto anche il senatore M5s Primo Di Nicola: “È sbagliato e ingeneroso”, ha scritto in una nota, “scaricare la responsabilità della situazione di caos che abbiamo vissuto ieri nell’aula del senato sugli uffici. Le dinamiche e la gestione dell’aula sono un problema politico-istituzionale. Anche le strutture interne sono state vittime di disfunzioni di cui non sembrano essere responsabili. L’istituzione Senato va salvaguardata in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli. Anche rispettando le persone che vi lavorano”.

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”

C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.

Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.
Lo scontro tra il Colle e la procura – Da settimane Palazzo San Macuto sta portando avanti un’indagine sulle scarcerazioni di boss mafiosi avvenute durante l’emergenza coronavirus. Ma anche sulla mancata nomina a capo del Dap di Di Matteo da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede nel giugno del 2018. È di questo che ha riferito l’ex pm siciliano: cinque ore di audizione in cui più volte è spuntato sullo sfondo il nome di Palamara, la toga simbolo dello scandalo che imbarazza la magistratura. Ma, a sorpresa, il nome dell’ex presidente dell’Anm è venuto fuori anche quando Di Matteo ha riferito alcuni episodi inediti legati all’inchiesta più delicata della sua carriera: quella sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Un processo importante, finito nel 2018 con pesanti condanne, ma cominciato tra la fibrillazione dei più alti livelli dello Stato. Intercettando l’ex ministro Nicola Mancino, infatti, i pm palermitani si imbatterono per quattro volte nella voce dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Intercettazioni che gli inquirenti non reputarono rilevanti ai fini penali ed è per questo che non le trascrissero e non le depositarono mai agli atti dell’inchiesta, chiusa nel giugno del 2012. Il Colle, però, non gradì. E nel mese di luglio dello stesso anno sollevò un conflitto d’attribuzioni: trascinò cioè la procura di Palermo davanti alla Consulta. Alcuni mesi dopo l’Alta corte diede ragione al capo dello Stato, ordinando la distruzione di quei nastri. Prima, però – stando a quanto ricostruito da Di Matteo – tentò la strada della riconciliazione, in modo abbastanza irrituale.
Il racconto di Di Matteo: “Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – “Se non ricordo male – ha raccontato l’attuale consigliere del Csm all’Antimafia – a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“. Praticamente, come l’ha definita lo stesso magistrato con una battuta, il Quirinale tentò di fare “una trattativa sulla trattativa“. “Io – ha proseguito Di Matteo – pensavo che Antonio scherzasse, sia io sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento – ha continuato l’ex pm – io non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla Trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo“. Ma chi fu a comunicare a Ingroia delle “richieste di contatto” del Quirinale? “Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito, anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me”. Ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato, qualche settimana fa Ingroia ha accennato quella strana proposta durante un’intervista televisiva sul caso nomine nella magistratura: “Palamara – sono le sue parole su La7- era stato indicato dal presidente Napolitano come possibile ambasciatore per cercare di concludere la contrapposizione tra procura di Palermo e Quirinale“.
L’avversione di Palamara per chi indaga sulle stragi – Il periodo al quale fa riferimento Ingroia è da collocarsi alla fine dell’estate del 2012: Palamara stava per terminare il suo mandato da presidente dell’Anm. Nei quattro anni al vertice del sindacato delle toghe non difenderà mai i magistrati di Palermo, finiti sotto attacco proprio mentre indagano sul Patto segreto tra Cosa nostra e pezzi delle Istituzioni. “Quelle – ha ricordato Di Matteo – furono critiche anche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche, critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano“. Anni dopo Palamara non perderà la sua avversione per le indagini sui legami occulti dello Stato. È il 6 maggio del 2019 quando il pm oggi sotto inchiesta a Perugia scrive un messaggio su whatsapp all’amico Cesare Sirignano, ex pm della procura nazionale Antimafia e suo collega in Unicost, la corrente moderata delle toghe di cui Palamara era il leader assoluto: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno? Ti dico che non è grande mossa”. Sirignano replica: “Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Palamara risponde: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Il gruppo stragi è il pool di magistrati creato alla Dna per coordinare il lavoro della varie procure sulle bombe del 1992 e 1993.
La rimozione dal pool Stragi e la soddisfazione di Palamara – Fino al 26 maggio del 2019 di quel gruppo di pm faceva parte pure Di Matteo: poi Federico Cafiero De Raho (il Federico citato da Sirignano) ha deciso di escluderlo, dopo un’intervista concessa dal pm ad Andrea Purgatori. Secondo il procuratore nazionale antimafia in quell’intervista Di Matteo svela alcuni elementi in quel momento segreti perché ancora al centro dell’indagine sulla strage di Capaci: “Su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi”, ha sostenuto De Raho domenica scorsa, telefonando in diretta alla trasmissione tv di La7 Non è l’Arena. “L’intervista era stata resa prima della riunione, e nella riunione non si era parlato di questo. E poi se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni penso sarebbe stato d’obbligo denunciarmi all’autorità giudiziaria“, ha detto Di Matteo a Palazzo San Macuto. In seguito alla rimozione dal pool stragi, filone d’inchiesta al quale ha dedicato l’intera carriera in magistratura, Di Matteo ha lasciato la procura nazionale antimafia, dopo aver ottenuto l’elezione al Csm da consigliere indipendente. Per chiarire come è andata davvero quella storia c’è una pratica ancora aperta – e top secret – al Csm. Di sicuro c’è solo che il giorno in cui il quotidiano Repubblica scrive prima di tutti della rimozione del pm siciliano, Sirignano informa in diretta Palamara, girandogli il link dell’articolo. Il leader di Unicost risponde: “Grande Federico”. Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno laconico: “Noi siamo seri”. Ma noi chi?
La corrente di Palamara in via Arenula – Faceva parte della stessa corrente di Palamara e Sirignano anche Fulvio Baldi, ex capo di gabinetto di Bonafede, che si è dovuto dimettere dopo che ilfattoquotidiano.it ha svelato le intercettazioni telefoniche in cui il leader di Unicost lo chiamava affettuosamente “Fulvietto“. Non solo: Palamara all’amico Baldi chiedeva anche un aiuto per piazzare altri magistrati amici al ministero della giustizia. In via Arenula Baldi era stato nominato da Bonafede il 20 giugno del 2018, cioè lo stesso giorno in cui il guardasigilli, cercando di convincere di Di Matteo a dare la sua disponibilità per essere nominato direttore generale degli Affari Penali, dice :”Dottore Di Matteo, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase – ha detto l’ex pm siciliano all’Antimafia – assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e né ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“. Il 12 maggio scorso il guardasigilli ha detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
I renziani alla corte di Palamara – Di sicuro quei giorni del giugno del 2018 per Bonafede sono molto convulsi: è arrivato al ministero da due settimane quando – è lunedì 18 giugno – telefona a Di Matteo e gli propone di scegliere tra due incarichi, o il vertice del Dap o gli Affari Penali. Il giorno successivo, prima di ricevere la risposta del magistrato siciliano, sceglie come vertice delle carceri Francesco Basentini, pure lui di Unicost come Baldi e Palamara, pure lui un ex visto che si è dimesso nei primi giorni di maggio dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss. A lavorare col guardasigilli – come vicecapo di gabinetto – c’è anche Leonardo Pucci, già compagno di studi a Firenze di Bonafede, assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce, oltre a Basentini, anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Spina partecipava agli incontri notturni in cui si discuteva del futuro procuratore di Roma. Incontri ai quali – oltre ad alcuni consiglieri del Csm – partecipavano anche due deputati: il magistrato “prestato” alla politica Cosimo Ferri e l’ex sottosegretario Luca Lotti, che della procura di Roma era – ed è – un imputato dell’inchiesta Consip. Entrambi sono renziani di vecchissima data: con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, Lotti è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio, Ferri invece sottosegretario alla giustizia. Il primo è ancora oggi nel Pd, il secondo, invece, ha seguito Renzi in Italia viva.
Il “pensiero affettuoso” di Renzi per Napolitano – Sarà un caso ma è proprio Matteo Renzi la prima persona che lega il nome di Giorgio Napolitano allo scontro tra Bonafede e Di Matteo. Lo fa, in modo apparentemente inspiegabiledurante il suo intervento in Senato nel giorno della bocciatura della mozione di sfiducia al ministro della giustizia: “Visto che in tanti avete citato Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l’augurio di buon lavoro, permettetemi – per aver vissuto una certa pagina di questo Paese – di esprimere un pensiero affettuoso al presidente emerito Giorgio Napolitano. Lui sa perché, voi sapete perché”. Già, perché? Il giorno dopo il leghista Gianluca Cantalamessa lo ha chiesto al guardasigilli. Che ha risposto: “Escludo qualsiasi tipo di pressione, immaginiamo quella dell’ex presidente Napolitano“. Il presidente dell’Antimafia Morra, ora, lo ha chiesto a Di Matteo: “Non posso sapere – ha risposto – perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l’opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me”.