giovedì 6 agosto 2020

Stop licenziamenti: il governo diviso vara la “mezza proroga”. - Marco Palombi

Stop licenziamenti: il governo diviso vara la “mezza proroga”

Il Consiglio dei ministri era ufficiosamente convocato per stasera, ma non è detto che si tenga: le trattative nella maggioranza attorno al cosiddetto “decreto Agosto” non sono affatto terminate. La questione che divide di più (tra loro e al loro interno) i partiti che sostengono il governo Conte è la proroga del blocco dei licenziamenti da affiancare al prolungamento per altre 18 settimane della Cassa integrazione “Covid-19”: la ratio del provvedimento è tenere bloccata la situazione fin quando l’economia non sarà ripartita del tutto, presumibilmente all’inizio dell’anno prossimo. Venendo alle squadre in campo: M5S, LeU e un pezzo del Pd sono a favore della proroga, il resto dei dem (maggioranza in Parlamento e al governo) e i renziani sono contrari. Mentre andiamo in stampa, è in corso l’ennesimo vertice giallorosa sul decreto.
Il problema è che ormai sull’impossibilità di cacciare i lavoratori dalla sera alla mattina s’è scatenata una campagna a metà tra l’ideologico e l’interessato che vede, ovviamente, in prima fila Confindustria. Citeremo, a titolo di esempio, solo il parere dell’economista Tito Boeri, che ieri su Repubblica ha sostenuto – nominando en passant la “Nord Corea” – che il blocco dei licenziamenti blocca in realtà le nuove assunzioni perché gli imprenditori non sanno se potranno licenziare e quando: può essere che sia così, anche se la gelata piovuta sull’economia non induce all’ottimismo su futuribili aumenti degli organici, oppure che in molti finiscano per licenziare i costosi e rigidi vecchi contratti per assumere, con calma, dipendenti più giovani, meno pagati e sacrificabili a prezzi modici (vedi la modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del Jobs Act). In sostanza, tante ristrutturazioni aziendali pagate dai redditi da lavoro e dalla fiscalità generale via sussidi.
Come che sia, questa spaccatura politica e sociale si riflette anche nel governo producendo bizzarri cortocircuiti. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo (M5S) martedì sera ha garantito ai sindacati la proroga del blocco dei licenziamenti fino al 31 dicembre, negli stessi minuti veniva prodotta una bozza del decreto in cui, col guizzo dell’artista, la proroga rimaneva, ma a metà: una sorta di compromesso che, tecnicamente, allunga il blocco al 15 ottobre e poi fino al 31 dicembre, come da proposta delle imprese, ma solo per chi usufruisce della Cassa “Covid-19”.
D’altronde è ora – ha scritto ieri il viceministro dell’Economia dem, Antonio Misiani, – di iniziare “il percorso di fuoriuscita dall’emergenza”, di “nuova normalità” anche quanto alla tutela dei lavoratori. E la mezza proroga, dicono, è farina del sacco del Tesoro, benedetta da Roberto Gualtieri. L’ex sindacalista Guglielmo Epifani, deputato di LeU, non pare però convinto dal ragionamento: “Preoccupano le notizie che vorrebbero limitare il blocco dei licenziamenti solo fino alla metà di ottobre, altre erano state le dichiarazioni delle settimane scorse: il blocco va allungato fino alla fine dell’anno”.
Silenziosi i partiti, è toccato alle parti sociali impugnare la clava. Cgil, Cisl e Uil – dopo le rassicurazioni di Catalfo – non hanno preso bene la novità: “Se il governo non prorogasse il blocco dei licenziamenti sino a fine 2020, si assumerebbe tutta la responsabilità del rischio di uno scontro sociale” fino all’ipotesi che l’iniziativa unitaria già convocata per il 18 settembre si trasformi “in uno sciopero generale”.
Confindustria, in serata, vaticinava catastrofi: “Se l’esecutivo intende ancora protrarre il divieto dei licenziamenti, il costo per lo Stato sarà pesante” visto che “il divieto per legge assunto in Italia – unico tra i grandi paesi avanzati – non ha più ragione di essere ora che bisogna progettare la ripresa”. Quel divieto “impedisce ristrutturazioni d’impresa (corsivo nostro, ndr), investimenti e di conseguenza nuova occupazione. Pietrifica l’intera economia allo stato del lockdown”. Guai, nel caso, a pensare di mettere paletti sulla cassa integrazione ai “furbetti”, cioè a chi ne ha usufruito pur non avendo avuto cali di fatturato: “Sarebbero inaccettabili”.
Tra i litiganti sta, fino a notte silenzioso, il governo: la trattativa continua. “Nodo politico”, c’è scritto nella bozza.

mercoledì 5 agosto 2020

Andrea Scanzi

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Ha votato la fiducia al governo Monti.
Ha sostenuto e approvato il Salva Italia.
Ha sostenuto e approvato il trattato europeo di Lisbona.
Ha sostenuto e approvato l'accordo di Dublino sui migranti.
Ha votato la Legge Fornero.
Ha votato lo scudo fiscale e tutti i condoni per salvare gli evasori dalla galera.
Ha votato il Lodo Alfano, il Legittimo Impedimento e tutte le leggi ad personam per salvare Berlusconi (che vorrebbe senatore a vita) dalla galera.
Ha votato Ruby nipote di Mubarak.
Ha nel partito nostalgici del Duce, capibastone assortiti e gigli in fior come La Russa e Santanché.

Ha un passato politico quasi trentennale (benché giovane, ma nella vita non ha fatto altro) oltremodo imbarazzante e colpevole: di sicuro fino al 2011, di sicuro durante e dopo il lockdown.

Eppure ancora parla, anzi urla, e ha il coraggio di dare lezioni politiche agli altri, dall’alto di non si sa bene cosa, parlando (anzi urlando) alla pancia del paese e titillando troppo spesso gli istinti peggiori degli elettori (per esempio su temi come famiglia e immigrazione). E cresce pure nei sondaggi.

Ormai in questo paese vale tutto. È davvero tutto fantastico.


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Nuove e rivoluzionarie teorie per la descrizione dell’universo. - Emanuele Tumminieri



Per decenni, alcuni teorici rivoluzionari hanno portato avanti una guerra contro uno dei concetti cardine della cosmologia – l’idea che l’universo sia costituito primariamente da una forma invisibile e intangibile di materia.
La presenza di questa materia oscura, che sembra essere in rapporto 5 a 1 con quella di cui siamo fatti, è evidenziata da alcune osservazioni: per citarne alcune, la stretta coesione di galassie e di aggregati di galassie, il modo in cui la luce delle galassie più lontane viene deflessa nel suo percorso verso i telescopi terrestri e la struttura a chiazze dell’universo primordiale.
Gli aspiranti rivoluzionari sono alla ricerca di una ricetta cosmica alternativa, che consiste nel sostituire la materia oscura con una forza di gravità leggermente modificata. Ma, finora, ogni tentativo di trasformare questa loro idea in un linguaggio matematico preciso è stato ostacolato da osservazioni puntuali. Alcune formulazioni concordano con la configurazione delle galassie, altre concordano con la deflessione dei raggi di luce, ma nessuna formulazione è riuscita a superare la prova più palese dell’evidenza della materia oscura: la precisa mappatura della luce primordiale, nota come radiazione cosmica di fondo (o fondo cosmico di microonde, secondo la terminologia anglosassone: Cosmic Microwave Background). Secondo Ruth Durrer, un cosmologo dell’Università di Ginevra, qualunque nuova teoria deve comunque essere in linea con questi dati.
Lo scorso 30 giugno, due fisici teorici, Costantinos Skordis e Tom Zlosnik (Institute of Physics of the Czech Academy of Science, Prague), hanno pubblicato un lavoro, ancora in fase di valutazione, con il quale propongono una teoria gravitazionale alternativa. I due scienziati utilizzano una versione ottimizzata della teoria gravitazionale di Einstein per riprodurre una mappa dell’universo primordiale; un’impresa che persino i rivoluzionari pensavano fosse impossibile.
Relativamente allo studio condotto dai due scienziati, lo stesso Durrer, nonostante si tratti di una ricerca veramente rivoluzionaria, è ottimista sui risultati che essa potrà raggiungere.
Anche se la maggior parte dei cosmologi ancora è legata al paradigma della materia oscura, la nuova teoria viene considerata abbastanza interessante, soprattutto se riuscirà a concordare con altre osservazioni cosmologiche.
Le sfide sostenute dalle teorie gravitazionali alternative, note come Dinamica Newtoniana Modificata (MOND – MOdified Newtonian Dynamics), sono state pubblicate anche in un altro articolo, apparso il giorno successivo rispetto al lavoro di Skordis Zlosnik. La principale di queste sfide si riferisce a una profonda rivisitazione del ruolo che gioca la materia oscura nel tenere insieme l’universo, così come descritto dal modello cosmologico noto come Materia oscura fredda lambda (LCDM – Lambda Cold Dark Matter). In poche parole, questo modello LCDM asserisce che noi non saremmo qui senza la materia oscura. L’universo primordiale era così fluido che la sola attrazione gravitazionale della materia ordinaria non sarebbe stata in grado di far aggregare le particelle in galassie, stelle e pianeti. Ecco che quindi intervengono le particelle di materia oscura. Il modello LCDM fa uso della massa collettiva della materia oscura per trasformare la materia ordinaria nelle strutture cosmiche oggetto di studio degli astronomi.
E quindi l’LCDM è diventato il modello cosmologico standard anche perché esso si allinea in modo abbastanza preciso alla Radiazione Cosmica di Fondo. Questa mappa dell’universo primordiale mostra dei punti impercettibilmente spessi e sottili che si increspano nel cosmo. Più recentemente, alcuni ricercatori sono riusciti a misurare, con una più elevata precisione, la polarizzazione della luce di radiazione cosmica di fondo. Qualunque teoria cosmologica pretenda di riscuotere successo, dovrà essere in grado di descrivere, in maniera comprensibile, la storia del cosmo, riproducendo queste tre caratteristiche: la temperatura della Radiazione Cosmica di Fondo, la polarizzazione della Radiazione Cosmica di Fondo, e l’attuale distribuzione delle galassie e degli aggregati di galassie.
Kris Pardo, un astrofisico del Jet Propulsion Laboratory della NASA, e David Spergelhanno evidenziato quanto sia difficile, per qualunque teoria gravitazionale alternativa, competere con i principi del modello LCDM. Quando zone con maggiore densità di materia oscura hanno attirato a sé la materia, determinando la creazione di galassie e stelle, si è verificata una considerevole, anche se non assoluta, eliminazione delle increspature che inizialmente si muovevano all’interno della materia stessa. Paragonando la polarizzazione della radiazione cosmica di fondo con l’attuale configurazione della materia, i cosmologi possono misurare, con elevata precisione, che persistono ancora oggi delle increspature residue, 100 volte più piccole delle ondulazioni osservate nella radiazione cosmica di fondo.
David Spergel, direttore del Center for Computational Astrophysics presso il Flatiron Institute, afferma che rigenerare queste, e altre condizioni, senza i principi essenziali del modello LCDM, diventa una sfida teorica di grande portata. Finora tutte le teorie gravitazionali alternative non sono state smentite, ma non si può obiettare che una qualunque di esse debba necessariamente soddisfare a delle condizioni precise.
Costantinos Skordis e Tom Zlosnik, del Central European Institute for Cosmology and Fundamental Physics, sono convinti di aver superato i vincoli imposti dalle condizioni sulle nuove teorie, sebbene lo abbiano fatto in un modo che potrebbe sorprendere sia i fautori che gli scettici della Dinamica Newtoniana Modificata. In pratica, i due fisici hanno costruito una teoria gravitazionale che include la presenza di un qualcosa che, su scale cosmiche, si comporta come una forma invisibile di materia, superando di fatto la linea divisoria tra il paradigma della materia oscura e quello della Dinamica Newtoniana Modificata.
La loro teoria, denominata RelMOND, aggiunge alle equazioni della relatività generale un campo onnipresente, il cui comportamento varia a seconda delle situazioni. Su scale più grandi, dove si evidenzia l’allungamento dell’universo in relazione alla sua espansione, questo campo si comporta come una materia invisibile. In questa situazione, che Zlosnik definisce polvere oscurail campo avrebbe potuto plasmare l’universo visibile allo stesso modo di come avrebbe fatto la materia oscura. Il modello ideato dai due fisici fornisce un valore della temperatura della radiazione cosmica di fondo abbastanza compatibile con quello del modello LCDM; inoltre Zlosnik è convinto che il loro modello possa essere in linea con i valori dello spettro di polarizzazione e con la distribuzione della materia, anche se ancora i risultati su questi aspetti non sono stati pubblicati.
Secondo Zlosnik, il modello RelMOND fornisce una rappresentazione dell’interno universo molto vicina a quella descritta dal modello LCDM.
Ma se ci si addentra all’interno di una galassia, dove il tessuto spaziale è quasi immobile, il comportamento del campo è molto vicino a quello descritto dalla dinamica newtoniana modificata (MOND): il campo si intreccia con il campo gravitazionale standard, rinforzandolo quanto basta per tenere unita una galassia, senza la necessità di materia aggiuntiva (i ricercatori non hanno delle certezze sul comportamento del campo per piani aggregati di galassie, una delle criticità delle teorie MOND, e ritengono che si possa comunque utilizzare questa scala intermedia per cercare quegli indizi che possono dare vita a nuove teorie gravitazionali).
Nonostante i risultati matematici raggiunti dai due fisici, a tutt’oggi l’ipotesi della materia oscura rimane la teoria più sempliceInfatti, la costruzione del nuovo campo, secondo l’approccio di Skordis Zlosnik, necessita di un’architettura matematica più complessa rispetto a quella impiegata dal modello LCDM per descrivere la materia oscura.
Da profana mi pare di capire che l'Universo, del quale siamo parte integrante, funziona come il corpo umano: L'Rna funziona da aggregante, incollante del Dna nel corpo umano, così come la materia oscura fa da aggregante, incollante  del Dna dell'Universo.
Molto affascinante come teoria ed anche abbastanza credibile, basandola sulla logica.
Noi, del resto, siamo figli delle stelle, siamo parte dell'Universo, funzioniamo allo stesso modo, la nostra composizione deriva dalla materia che compone l'Universo, noi siamo l'Universo.

Il fiuto di zia per i grossi affari, dal cambio di sesso agli immobili. - Daniele Luttazzi

Quartieri di Roma: Balduina » Rome Vatican Card
Durante il lockdown, nel condominio di zia alla Balduina, la situazione si era fatta insostenibile per colpa di tre famiglie (i Pirzio-Biroli, i Tracchia e i Facta) che facevano i loro porci comodi. A maggioranza passò la proposta di zia: ipotecare gli appartamenti di tutti gli altri, e coi 10 milioni accantonati comprare una nuova palazzina altrove, delegando alle gemelle Mastrocinque (due fragili zitelle con chignon di cui si vocifera un passato burrascoso nei Nar) il compito della rappresaglia, una volta completato l’esodo.
La vicina di zia, dopo il suo voto contrario (è in buoni rapporti con la zia, ma sono acerrime nemiche sul piano geopolitico e finanziario), ha preso la palla al balzo: perché non approfittare della maxi cartolarizzazione 2004 di immobili pubblici realizzata dal governo Berlusconi, e comprare a sconto un edificio di pregio dal Fondo immobili pubblici (Fip)? La dritta gliel’ha data un ex-dirigente del Fip stesso, un suo trombamico, e la scelta è caduta su un palazzo di 22mila metri quadrati nel cuore di Roma, in piazza Augusto Imperatore. Già che c’erano, hanno comprato anche i 15mila metri quadrati dell’altro palazzo nella piazza, pure quello progettato dall’architetto Morpurgo negli anni 30. Gli appartamenti in più si potranno rivendere o riaffittare a valori di mercato, cosa che permetterà di ammortizzare in breve tempo i 400 milioni di euro necessari all’acquisto (li ha anticipati la banca di cui zia è fra gli azionisti, i 10 milioni dell’ipoteca come garanzia). “Senza contare che, con la riqualificazione della piazza e del mausoleo pagata con 8 milioni da Fondazione Tim, tutta l’area sarà valorizzata”, dice zia, raggiante, mentre le lecco la figa. Zia si diverte un mondo a fare queste cose. L’unico suo vero rimpianto? L’operazione con cui cambiò sesso negli anni 80. “Il cazzo mi manca così tanto!” dice sempre. Per questo è una ninfomane.
Completato l’affare, però, gli affittuari dei due palazzi acquistati non hanno accettato lo sfratto, e hanno fatto causa perché non è stato riconosciuto il loro diritto di prelazione. Così, adesso, zia, la vicina e gli altri condomini esodati sono in causa con i ristoranti Gusto e Alfredo l’originale; con quaranta giornalisti che dal 2014 lavorano nella Sala stampa italiana, ristrutturata a spese loro con un affitto che scade tra due anni; e con Jas Gawronski, l’ex giornalista Rai, senatore berlusconiano ed eurodeputato, che da 18 anni vive nell’attico con terrazzo da dove si ammira il mausoleo di Augusto. La vicina di zia ha già contattato Franco Coppi e Giulia Bongiorno, preparate i lupini. Nel frattempo, le gemelle Mastrocinque non sono restate con le mani in mano: il palazzo alla Balduina, seriamente danneggiato da un’esplosione notturna, è stato dichiarato pericolante. I Pirzio-Biroli, i Tracchia e i Facta, costretti a ricoveri di fortuna, sono imbufaliti, ma i loro sospetti possono poco: le gemelle Mastrocinque hanno fatto visita a una vecchia conoscenza dei servizi, ed è partito un depistaggio in grande stile, gestito da un gruppo d’intervento composto da un ex-generale piduista, un ex-militante di Avanguardia Nazionale/Terza posizione, due ex della Banda della Magliana e un latitante di Cosa Nostra. Pare che la strategia stia funzionando: si comincia a parlare di attentato, e Bruno Vespa l’ha già attribuito a Pietro Valpreda.

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”. - Elisabetta Ambrosi

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”

"I boschi mettono in atto strategie di adattamento e resilienza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle, prevenendo mortalità, incendi e parassiti".
Assorbono le nostre emissioni, ci danno acqua, cibo e ristoro spirituale. Eppure le foreste, in epoca di cambiamento climatico, sono sottoposte a fortissimi stress e dunque sono anch’esse a rischio. Molto però si può fare, come spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e autore di La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Einaudi). “Non solo i boschi mettono in atto strategie di resilienza e resistenza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle ad adattarsi meglio, prevenendo mortalità, incendi e parassiti”.
Professore, perché senza boschi non potremmo vivere?
Le foreste ci danno il necessario per la sopravvivenza: un miliardo e mezzo di persone dipendono da loro per avere acqua e ottocento milioni per l’approvvigionamento diretto di cibo. Inoltre, in un’epoca di cambiamento climatico, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni. Infine, grazie alle foreste integre le popolazioni non sono in contatto con gli animali e si abbassa la possibilità dello spillover, il salto del virus da uomo e animale.
Qual è lo stato delle nostre foreste?
Ci sono due tendenze contrastanti. Da un lato c’è un aumento della superficie forestale spontaneo nei terreni abbandonati dall’agricoltura o nelle zone marginali non più economicamente utilizzate. Parliamo di 50.000 ettari ogni anno in Italia e 800.000 in Europa. Tuttavia, non sempre si tratta di una notizia positiva, perché è un fenomeno che andrebbe governato altrimenti si rischia, ad esempio, un aumento degli incendi. C’è però un altro lato oscuro.
Quale?
Molto spesso all’aumento delle nostre foreste corrisponde un aumento della delocalizzazione degli impatti, perché di terra e legna abbiamo bisogno. E così invece di deforestare a casa nostra, come si faceva fino al 1700, importiamo legno dal Sudamerica o dall’Indonesia, dove aumenta il prelievo e la conversione della foresta ad usi agricoli per produrre prodotti che servono ai paesi occidentali. Il fatto è che oggi è tutto legato e quindi se scompaiono le foreste in Sud America comunque noi ci andiamo di mezzo.
Come incide il cambiamento climatico sulle nostre foreste?
Nel mio libro parlo dei meccanismi incredibili di risposta e adattamento degli alberi a questi eventi estremi: il problema è se il numero e l’intensità di questi eventi cambiano troppo rapidamente, anche se dipende molto dai vari ecosistemi e dal tipo di foreste. Prendiamo gli incendi in Australia: ci sono sempre stati, ma bisogna vedere con che intensità e con che frequenza. Se prima una certa zona bruciava ogni cento anni le piante avevano il tempo di ricolonizzare ,se accade ogni venti si può superare la capacità di resilienza delle piante, rischiando un cambiamento di escosistema fatto di arbusti ed erbe. Un altro esempio: nel 2018 c’è stata una delle peggiori siccità degli ultimi due secoli in Europa centrale e ci sono state ampie zone di mortalità degli alberi a causa della siccità.
Esiste quindi “un punto di non ritorno” per i boschi?
Esistono vari studi sui cosiddetti “tipping point” per quanto riguarda la foreste tropicali. E non parliamo solo delle giungle piovose, ma anche delle foreste tropicali aride, dove basta una piccola differenza nella quantità di piogge per mandare in crisi l’ecosistema. Ma anche le foreste dell’Amazzonia sono un ecosistema fragile, perché il suolo è povero di sostanze nutritive e l’equilibrio si regge su un ciclo chiuso di materia organica prodotta dagli alberi stessi. Gli alberi sono enormi pompe d’acqua a ciclo chiuso che “sparano” il vapore in atmosfera in modo da formare la pioggia. Se questo ciclo viene disturbato, eliminando definitivamente anche solo un quarto dell’area disboscata, verrebbe a mancare l’acqua in atmosfera necessaria per formare la pioggia e la foreste potrebbe trasformarsi in savana.
Ma quali sono le capacità di reazione dei boschi?
Sono tantissime. Gli alberi sono cresciuti da sempre in un mondo che proponeva loro degli stress enormi, il fuoco è esistito sulla terra da quando ci sono gli alberi. Le piante hanno sempre convissuto con le fiamme, sviluppando strategie di resilienza, come la corteccia della quercia che è isolante. Nel libro racconto dei pini la cui pianta adulta muore, ma le cui pigne si aprono per il calore e spargono semi. Ma anche un castagno tagliato ricresce dal ceppo. Insomma nei modi di riprodursi gli alberi sono maestri molto più di noi, sanno ricrescere da una singola gemma.
Si fa molta retorica sulla “riforestazione” e sulla necessità di piantare alberi. È una cosa che serve?
È una cosa necessaria ma non sufficiente. Non basta piantare nuovi alberi, se voglio che l’albero agisca, cioè assorba carbonio, devo curarlo nei primi anni in cui è più fragile. Inoltre piantare monoculture in un ambiente di foresta mista biodiversa potrebbe essere negativo, come negativa potrebbe la piantumazione di alberi nelle zone polari perché rendendo più scuro il paesaggio potrebbero avere un effetto di riscaldamento. Pensi che ci sono in corso ricerche sulle modifiche genetiche, ad esempio della soia, che potrebbero schiarire le piante.
Come si gestiscono i boschi?
Sono scelte non facili, perché non sempre le cose che si devono fare sono omogenee, anzi ci possono essere obiettivi che richiedono strategie discordanti. Ad esempio la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione di legno su scala industriale. Io penso che il segreto per armonizzare queste funzione sia la pianificazione: si prende come riferimento una regione, una vallata o un comune e si decide quali foreste ti devono dare che cosa, tenendo conto che quando prendi lo devi fare a un rimo più lento della velocità di ricrescita e tenendo conto del cambiamento climatico. Ma come dicevo, oggi è quanto mai necessario avere uno sguardo globale, perché qualsiasi cosa facciamo ha delle conseguenze altrove. Se conserviamo troppo qui vuole dire che prendiamo troppo altrove, ma occorre evitare la sindrome “nimby” (not in my back yard).
Come scrive nel suo libro, in molti casi anche tagliare è utile e anche praticare incendi mirati.
A volte tagliare alcuni alberi significa fare la differenza e impedire a tutti di morire, il diradamento è una forma praticata di adattamento. Si usa come prevenzione dalla siccità oppure per prevenire attacchi di insetti. L’assorbimento delle emissioni delle piante, ripeto, dipende anche dalla salute delle piante. Anche per la protezione del dissesto può essere necessario intervenire quando la foresta attraversa fasi meno adatte a stabilizzare il suolo o trattenere massi e valanghe e anche qui, come dicevo prima, le strategie possono essere diverse. La Svizzera ha fatto enormi investimenti sulla manutenzione delle foreste, che se lasciate a se stesse potrebbero non essere compatibili con la protezione del dissesto.
Come l’Italia sta proteggendo i boschi e quanti fondi servirebbero?
A Giugno si è conclusa la consultazione pubblica della nuova Strategia Forestale Nazionale, il documento che sarà alla base della gestione forestale per i prossimi vent’anni nel nostro Paese. La Strategia contiene molte novità interessanti, incoraggiando la mappatura di tutte le foreste che ci proteggono dal dissesto e delle foreste “vetuste” a più alto contenuto di biodiversità, il ripristino dei boschi degradati o colpiti da eventi estremi, gli interventi di prevenzione antincendi boschivi e per l’aumento della resistenza delle foreste alle tempeste, incentivando l’acquisto da filiere corte e di prodotti legnosi certificati, prevedendo programmi formativi per tutti gli operatori boschivi, e chiedendo a chi redige i piani forestali di effettuare una analisi puntuale delle vulnerabilità climatiche e di progettare interventi di mitigazione e adattamento. Per ogni azione, la strategia indica a quali risorse si potrebbe attingere per realizzarla, nella speranza che questi “suggerimenti” servano per “indirizzare” al meglio la tipologia di interventi ammessi a ricevere finanziamenti dai fondi pubblici comunitari e nazionali.
Parliamo del verde urbano. Le foreste urbane sono il nostro futuro? Ma come mantenere ciò che abbiamo?
Le foreste urbane hanno senso e non solo per assorbire carbonio. Le città sono luoghi dove gli impatti del calore sono più forti, dove si sfogano gli eventi metereologici estremi perché il suolo è impermeabile, dove gli effetti dell’inquinamento sono massici. Gli alberi possono fare tanto, per prevenire i danni da alluvione, assorbire il particolato che genera infezioni respiratorie e rinfrescare le temperature. Molte città sono partite con piani di riforestazione, non solo Milano, ma anche Napoli. Nel decreto clima di sono 30 milioni da spendere su questo fronte, poi sono tantissime anche le iniziative dal basso. Noi abbiamo lanciato la fondazione Alberitalia.it, https://www.alberitalia.it per dare consulenza scientifica a chiunque abbia progetti di impianto, per capire come e dove ripiantumare.
Quali comportamenti singoli aiuterebbero?
Il primo problema è quello della deforestazione dei paesi tropicali con perdita della biodiversità ed effetti sul clima, quindi il primo punto è non importare, né mangiare, prodotti responsabili di questo fenomeno. Nel Green Deal ci saranno strategie per mettere un freno all’importazione di questi prodotti. Sul legno già oggi i consumatori possono cercare il bollino di gestione sostenibile.
Quanto la preoccupa personalmente il cambiamento climatico?
Io vedo tantissime soluzioni a portata di mano e non mi riferisco solo alle foreste ma
soprattutto ai trend incoraggianti sull’energia rinnovabile, sulla decarbonizzazione dei trasporti e sull’economia circolare. Molte aziende ormai hanno capito che la conservazione del capitale naturale è parte integrante del loro business, e non un accessorio a cui dedicare rimasugli di bilancio o azioni di CSR di mera facciata. Se poi dovesse arrivare, come credo, una tassa sul carbonio le cose miglioreranno ulteriormente, ma già oggi è tecnicamente possibile una alimentazione energetica al 100% da fonti rinnovabili, anche in Italia (www.thesolutionsproject.org) . Arrivarci non è più tanto una questione di convenienza economica quanto di volontà politica. E il grande movimento popolare dei giovani per la lotta al cambiamento climatico potrebbe fornire la spinta che finora è mancata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/04/giorgio-vacchiano-non-basta-piantare-alberi-le-foreste-vanno-aiutate-a-resistere/5887082/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=fatto-for-future&utm_term=2020-08-04

L’ascia o raddoppia. - Marco Travaglio

Sondaggi elettorali Piepoli: taglio parlamentari, 81% italiani per ...
Mi unisco al grido di dolore che si leva dalle spiagge di tutta Italia, raccolto da Antonio Padellaro con giusta trepidazione. Dall’Alpi al Lilibeo è tutto un allarme, uno sgomento, un’insonnia per la nuova legge elettorale che sciaguratamente non c’è e per la tirannide contiana che invece purtroppamente c’è (il premier pretende financo di confermare i capi dei servizi segreti, anziché farli nominare da Amadeus e Milly Carlucci, per dire come siamo messi). Ma c’è di più e di peggio, come mi faceva notare ieri mattina la sora Augusta in ciabatte che dava da mangiare ai piccioni a Trastevere: “Adesso non vorranno mica tagliare il numero dei parlamentari, che sono appena un migliaio? Io ne vorrei almeno diecimila! E la democrazia rappresentativa, dove la mettiamo? E poi a me chi mi rappresenta? La prego, lei che può faccia qualcosa contro la deriva populista, antipolitica e antidemocratica. Basta un niente e ci ritroviamo un Orbán e un Bolsonaro a Palazzo Chigi, che poi sarebbe tanto di guadagnato dopo il führer Giuseppi!”.
Attorno a lei, oltre ai piccioni, si è radunata una piccola folla plaudente. Chi recitava a memoria l’ultima intervista di Goffredo Bettini, da queste parti più popolare del fornaio e del pizzicagnolo (“Senza una nuova legge elettorale, dimezzare il numero dei parlamentari può persino diventare pericoloso per il regime democratico”). Chi sventolava l’editoriale di Stefano Folli su Repubblica: “Il pasticcio del referendum”, “disastro incombente”, “operazione temeraria”, “taglio cervellotico”, “un Parlamento a macchia di leopardo, alcune parti d’Italia sono rappresentate più di altre e qualcuna non lo è per nulla”, “Parlamento scardinato nelle sue funzioni istituzionali”, “amputazione fatta per motivi demagogici, per dare una lezione alla ‘casta’”, “scarsa o nulla considerazione della democrazia rappresentativa”, “nel Pd è troppo tardi per cambiare idea, visto che ci si è consegnati al patto di governo con Conte e i 5S”. Chi sbandierava il Buongiorno di Mattia Feltri su La Stampa: “I partiti più piccoli sparirebbero, i parlamentari sarebbero soldatini agli ordini del capo, il governo schiaccerebbe le Camere e farebbe come gli pare più di quanto faccia ora” e i parlamentari passerebbero per “cialtroni, scaldapanche, mangiapane a ufo e pure ladri”. C’era persino un lettore de Il Dubbio, guardato con comprensibile curiosità dagli altri, che declamava un pezzo di Mario Lavia, l’ex Sallusti di Renzi: “Il No al referendum fa proseliti nell’area del centrosinistra”, “la battaglia dei grillini e della destra sensibile alla gran litania dell’anticasta”, “accarezzano gli umori popolari dalla parte del pelo”.
Fortuna che “il ‘carfagnano’ di FI Cangini è fra i leader del comitato per il No assieme al dem Nannicini”, al grande Gori, ma soprattutto – e qui al passante brillavano gli occhi – “a cattolici democratici come Pierluigi Castagnetti”. Al nome Castagnetti, si levava in piazzetta un grido di giubilo, accompagnato da trombette e tricchetracche. Quando poi si apprendeva, sempre dal discepolo di Lavia, che “il manifesto e il Domani, oltre all’Espresso già in battaglia, faranno campagna per il No”, due fra i più giovani accendevano petardi e fuochi d’artificio per una piccola festa di quartiere che rischiava di arrostire un piccione. E diventava assembramento alla notizia che “si opporranno Sabino Cassese, Paola Severino, Angelo Panebianco e Leonardo Becchetti”, ma solo “probabilmente”. “Senza escludere pronunciamenti di peso e fortemente evocativi: Prodi, Arturo Parisi, Claudio Petruccioli, Claudia Mancina” e altri trascinatori di folle, non so se mi spiego. Gli astanti, incuranti della canicola, costituivano lì su due piedi un comitato del No al referendum di settembre.
Io avrei voluto rammentare alcune cosette: di ridurre gli eletti si parla molto autorevolmente da 40 anni; abbiamo le Camere più pletoriche, costose e improduttive d’Europa; molti attuali alfieri del No erano per il Sì alla controriforma Renzi-Boschi-Verdini del 2016 (che tagliava i parlamentari, ma solo al Senato, abolendone l’elettività e riducendolo a una cameretta-dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci a mezzo servizio); la democrazia rappresentativa non dipende dal numero di eletti, che sono una convenzione, non le tavole della legge affidate da Dio a Mosè sul Sinai (sennò sarebbero antidemocratici gli Usa, che hanno 435 deputati e 100 senatori col quintuplo e più di abitanti, e la Germania, che ha 172 parlamentari meno e 20 milioni di abitanti più di noi); col taglio di un terzo (da 315+5 senatori a 200+5 e da 630 deputati a 400) avremmo 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, in linea con la media dei grandi Paesi d’Europa (1 nel Regno Unito, 0,9 in Germania e Francia, 0,8 in Spagna); l’antipolitica e l’antiparlamentarismo escono indeboliti da una riforma così popolare; l’asservimento degli eletti ai capi-partito dipende dalle leggi elettorali fatte dalle destre (Porcellum), dal Pd (Italicum) e da Pd, FI e Lega (Rosatellum) che riempiono il Parlamento di nominati anziché di eletti e non impongono dimissioni a chi passa da sinistra a destra o viceversa. Ma l’entusiasmo in piazza mi ha contagiato: così ho lanciato l’idea di raddoppiare i parlamentari dagli appena 945+5 a 1890+10. Così la democrazia raddoppia e i problemi dell’Italia si dimezzano. Mi hanno fatto la ola.

I test della DiaSorin e quelle strane fatture della società leghista. - Antonio Massari e Davide Milosa

I  test della DiaSorin e quelle strane fatture della società leghista

Intrecci - All’attenzione dei pm i rapporti tra la Servire Srl (presidente del cda il salviniano Gambini) e la multinazionale degli esami sierologici.
Il Covid-19 oltreché un’emergenza sanitaria si è rivelato un affare per molti. Soprattutto in Lombardia. Accordi opachi, affidamenti diretti senza gare pubbliche, il tutto grazie alla politica che ha fatto da volano per il giro del denaro. In questo contesto si inserisce la non chiarita vicenda dell’accordo tra la multinazionale DiaSorin e l’ospedale San Matteo di Pavia per la commercializzazione dei test sierologici. Poi acquistati grazie a un affidamento diretto per due milioni dalla giunta del governatore Attilio Fontana. In questa storia, deflagrata dopo le perquisizioni del 22 luglio disposte dalla Procura di Pavia e l’iscrizione nel registro degli indagati dei vertici del San Matteo e di DiaSorin con le accuse di peculato e di turbata libertà nella scelta del contraente, si innesta oggi una novità di rilievo che rischia di terremotare la Lega. Il partito padano, stando agli atti delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Mario Venditti, appare il vero convitato di pietra.
Gli accertamenti della Procura proseguono soprattutto sulla figura di Andrea Gambini (perquisito ma non indagato), leghista della prima ora, già commissario provinciale del partito a Varese e titolare di diversi incarichi, dall’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano di cui è presidente alla direzione generale della Fondazione Istituto Insubrico di Gerenzano (Varese) che ha sede all’interno dell’Insubrias Biopark così come anche la Servire srl di cui Gambini è presidente del Cda. Sempre a Gerenzano si trova una seconda sede di DiaSorin. Ed è proprio sui rapporti commerciali tra Servire e DiaSorin che gli inquirenti puntano la lente. L’obiettivo è analizzare le fatture emesse dalla società di Gambini verso DiaSorin per capire quanto siano reali. Secondo i primi accertamenti molte causali allegate alle fatture risultano troppo generiche. Quasi tutte, secondo gli inquirenti, hanno le indicazioni “servizi vari”. Un elemento che se pur ancora da confermare ha messo la procura di Pavia sulla pista investigativa di fatture false per operazioni inesistenti. Al momento però nessun nuovo capo di imputazione è stato aggiunto. Di certo i rapporti tra Servire e DiaSorin sono molto stretti. Con le fatture emesse tra il 2019 e il 2020 si arriva a circa 1,5 milioni di euro. Nel solo 2019 la cifra è stata di 1,2 milioni a fronte di un volume d’affari dichiarato dalla società del leghista di 1,3 milioni. Dai numeri si comprende come DiaSorin sia quasi l’unico cliente di Servire. C’è poi da capire come la società di Gambini, con appena sette addetti dichiarati al 30 marzo, riesca a fornire servizi a DiaSorin per oltre un milione di euro. Giorno dopo giorno si capisce come l’accordo tra la multinazionale e il San Matteo sia stato orchestrato tra la Regione e la Provincia di Varese, vera culla leghista. Non pare un caso se i vertici del San Matteo e in particolare il presidente Alessandro Venturi (indagato) a partire dal 5 febbraio affidino un incarico legale a un penalista che lavora presso lo studio varesino dell’avvocato Andrea Mascetti, nome noto del cerchio magico leghista, vicino all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti e, pur mai indagato, più volte citato negli atti dell’inchiesta “Mensa dei poveri” sul sistema delle tangenti gestito dall’ex coordinatore provinciale di Fi a Varese Nino Caianiello. Fino al 2018 Mascetti è stato vicepresidente della Fondazione Istituto Insubrico, nato nel 2006 grazie all’allora presidente della Provincia di Varese, il leghista Marco Reguzzoni. E così l’avvocato dello studio Mascetti, dopo una riunione con i vertici del San Matteo, lavora alla stesura di un esposto, firmato da Venturi, col quale si chiede alla Procura di indagare eventuali illeciti nel ricorso al Tar fatto dalla società Technogenetics esclusa dopo l’affidamento a DiaSorin.
L’esposto viene depositato un mese dopo la sentenza del Tar e dieci giorni prima che il Consiglio di Stato annulli la sospensiva per DiaSorin. E se i vertici del San Matteo si rivolgono a uno studio legale vicino alla Lega, le intercettazioni fissano i contatti tra alcuni vertici dell’ospedale indagati e Giulia Martinelli (non indagata), capo segreteria di Fontana nonché ex compagna di Matteo Salvini. Si tratta di colloqui sui quali la Procura sta facendo approfondimenti. Sul fronte, invece, dell’accordo San Matteo-DiaSorin la Procura si sta concentrando sui giorni precedenti il 20 marzo, data della firma. Per farlo ha acquisito le mail tra il virologo Fabio Baldanti (indagato) e la multinazionale. Tra le mail interne all’ospedale c’è poi quella di una funzionaria che il 16 marzo scrive al direttore scientifico Giampaolo Merlini (indagato) sollevando dubbi sulla bozza dell’accordo, a suo dire troppo sbilanciato a favore di DiaSorin. La donna è già stata sentita dai pm che vogliono capire da chi arrivò la bozza e chi ne decise il contenuto.