giovedì 22 ottobre 2020

Corte Ue ri-taglia i vitalizi agli eurodeputati italiani. - Ilaria Proietti

 

Non c’è trippa per gatti, almeno in Europa. Perché i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione (Cgue), con sede in Lussemburgo, hanno promosso il taglio dei vitalizi caduto come una mannaia anche sugli assegni degli europarlamentari italiani eletti in passato a Bruxelles che sono parametrati a quelli degli ex inquilini di Camera e Senato. Come noto questi ultimi stanno facendo fuoco e fiamme dopo la sforbiciata operativa dal 1° gennaio 2019. E da ultimo sono tornati a sperare di riavere il malloppo grazie a una decisione della Commissione Contenziosa di Palazzo Madama presieduta dal forzista Giacomo Caliendo a cui si erano appellati.

È invece andata malissimo ai loro colleghi eurodeputati, che per ottenere lo stesso risultato hanno trascinato in giudizio il Parlamento europeo. I cui uffici si erano permessi di applicare le regole, comunicando loro una notizia che mai avrebbero voluto ricevere: ossia che pure per i loro cedolini era imminente il ricalcolo e pure l’intenzione di procedere al recupero delle somme che fossero eventualmente indebitamente versate in eccedenza dopo l’entrata in vigore del taglio agli assegni deciso dai due rami del Parlamento nostrano.

Apriti cielo: quelli, gli ex eurodeputati si sono precipitati a chiedere aiuto all’avvocato di Maurizio Paniz che li aveva accolti ben volentieri, avendo già collezionato centinaia di clienti tra i parlamentari desiderosi di fare ricorso per riavere tutto intero il vitalizio erogato da Montecitorio e Palazzo Madama. Nonostante i suoi ottimi uffici, però, resteranno però a bocca asciutta. Perché secondo la sentenza dell’alta Corte europea non sono stati affatto violati i loro diritti: né quello di proprietà, né il legittimo affidamento, né qualsiasi altro argomento che pure invece ha fatto breccia alla corte di Caliendo&C.

Per i giudici europei il taglio deciso in Italia che si è riverberato nei suoi effetti anche sui trattamenti degli eurodeputati ha come obiettivo quello di adeguare l’importo delle pensioni versate a tutti i deputati al sistema di calcolo contributivo. Un obiettivo legittimo, anzi di più.

Perché gli Stati membri “dispongono di un ampio margine discrezionale in sede di adozione di decisioni in materia economica e si trovano nella posizione migliore per definire le misure idonee a realizzare l’obiettivo perseguito”. Ossia risparmio pubblico e austerità “imposti da una grave crisi economica”. E non è tutto.

Hanno anche messo nero su bianco che il taglio agli assegni degli ex onorevoli operativo dal 1° gennaio 2019 non è stato sproporzionato rispetto agli scopi perseguiti. Ché, del resto, tra i ricorrenti nessuno ha neppure provato a dimostrare di essere indigente in modo da avvalersi del diritto all’incremento dell’assegno sforbiciato. Hanno invece provato, senza successo a invocare l’immutabilità delle regole pensionistiche e anche l’intangibilità degli assegni che però in passato sono mutati al ribasso ma pure al rialzo, in applicazione del calo o dell’aumento dell’importo dell’indennità parlamentare.

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No al nuovo San Siro: lo chiede l’antimafia. - Nando dalla Chiesa

 

Che Paese schizofrenico è questo. La scorsa settimana a Vienna la delegazione italiana all’Assemblea delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale ha presentato la “Risoluzione Falcone” per fare recepire in quel consesso i principi di lotta alla criminalità organizzata propugnati dal grande giudice palermitano. Approvazione all’unanimità e gioia, giustificata, del ministro Bonafede. Italia faro della lotta alla mafia. Poi guardi bene e vedi invece che troppe cose, in Italia, vanno in “direzione ostinata e contraria”.

Rappresentanti delle istituzioni impegnati 24 ore su 24 ad abbattere abusivamente il 41-bis. Procure passate per la cura Palamara trasformate in dormitori. E fantasmi di grandi affari che dovrebbero far schizzare le antenne al cielo. Tra i quali ce n’è uno che mi inquieta, quello del nuovo stadio di San Siro a Milano. Un affare che assomiglia al sarchiapone. Per dire, come nella gag di Walter Chiari, che mi appare un terribile animale al solo sentirlo evocare, pur senza averlo mai visto.

Amo San Siro, ho portato stranieri a visitarlo, senza partite in corso. Perché in mezzo secolo di calcio (e che mezzo secolo!) si è guadagnato l’appellativo di “Scala del calcio”. E dubito molto che se si facesse un referendum tra i milanesi i sì al sarchiapone supererebbero il 20 per cento. Certo ci sono interessi enormi che spingono in questa sciagurata direzione. E sappiamo anche bene che le economie arretrate stravedono per il cemento. Campano di quello. Fu così nella Milano che vedeva disfarsi velocemente la sua industria e chiuder bottega le grandi dinastie d’impresa. La moda e il design salvarono il côté urbano, per fortuna. Ma non fu poi casuale se proprio in quel passaggio esplose Tangentopoli.

Oggi però Milano è cambiata. Anche se il Covid incombe, è in salute e ha risorse formidabili nella progettazione, nella comunicazione, nelle scienze mediche, nel turismo, nell’intermediazione di mille cose, nelle università. Ha anche una preziosa risorsa immateriale, sviluppatasi nell’ultimo decennio: il suo spirito pubblico. Senza il quale nulla vale, e con il quale tutto vale di più. Ha preso forma nelle sindacature Pisapia e Sala. Città aperta, solidale, civile, che nella vicenda nazionale ha saputo alla fine da che parte stare. Anche sulla legalità, che è il versante più problematico per il paese (quello di Falcone…). Senza voler fare torto ai due sindaci, anzi dando loro un grande riconoscimento, direi che, al di là di cose non condivisibili, sia stato questo il più grande dono che hanno fatto a Milano. Dono che sarebbe criminoso buttare alle ortiche, basta un attimo. Perciò è fondamentale che nella vicenda San Siro, prima di discutere del sarchiapone, si sappia chi lo tiene al guinzaglio. Sapere cioè chi sono i veri proprietari di Milan e Inter. Cosa che pare difficilissima. Mentre sarebbe per certo la linea Maginot di Falcone, principio assoluto e insuperabile di uno Stato serio: le risorse pubbliche (territorio, spazi, architetture, paesaggio, clima umano) non si possono dare agli sconosciuti, esattamente come i bambini non devono prenderne caramelle. Punto e a capo.

I poteri pubblici non possono trattare con degli enigmi. Il presidente della commissione antimafia comunale, David Gentili, sta cercando da mesi di dare l’allarme. Il sindaco Sala è però incalzato da quei poteri visibili dietro i quali sta il potere invisibile con i suoi capitali. E la mia sensazione personale è che non tutti i suoi assessori lo appoggino e lo sorreggano come sarebbe doveroso in questo tornante infido. Per fortuna, seguendo l’esempio di Pisapia, il sindaco si è dotato della consulenza di un comitato antimafia formato da esperti non lottizzati. I quali, richiesti di un parere, gliel’hanno scritto. Nitido, colto, garbato e perentorio come consentono dottrina e buon senso: non si può.

Si attenga a quel parere. Non passi ora la palla all’Anac, come sento dire che voglia fare. No, sindaco, quel comitato che è un suo fiore all’occhiello vale più dell’Anac di oggi, anche se lavora senza prendere un euro mentre l’altro è pagato profumatamente dagli italiani. Quest’Anac sarà la tomba di tutte le authorities, lo ricordi, mentre il suo comitato è credibile: non ha carneadi politicizzati. L’ha costituito lei, lo ascolti in nome della città e del suo spirito pubblico.

L’economia si riprenderà per altre vie: con il green, che lei stesso caldeggia, con gli investimenti nella sanità, con la cultura cosmopolita, con il commercio multiforme, con le professioni e le università. E poi con il suo capitale civico, stroncando ogni abuso amministrativo, per dare finalmente aria ai giovani talenti della città e a quelli pronti a venire da fuori, nella fioritura di vitalità che esploderà dopo questo Covid maledetto. Così scommettono i primi della classe.

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Clownterapia. - Marco Travaglio

 

Più la seconda ondata peggiora, più si comprende il vero motivo dell’esistenza in vita della destra italiana: tenerci allegri. Fontana, dopo aver sistemato tutta la famiglia (tranne forse la seconda figlia, che bisognerà prima o poi piazzare da qualche parte per un fatto di equità), attende l’ok di Salvini per firmare il ridicolo coprifuoco dopo le 23, come se prima il virus riposasse. Però ha scoperto di poter chiudere territori per emergenza sanitaria in base alla legge 833/ ’78: l’avesse scoperto prima, ci saremmo risparmiati centinaia di morti nella Bergamasca. Gallera, che incredibilmente è ancora assessore e ancora parla, “rivendica” i premi dati ai manager della cosiddetta sanità lombarda che hanno tagliato i posti Covid negli ospedali. Più disastri combina, più rivendica. I contagi raddoppiano nella Regione modello? Lui rivendica: “Situazione meno critica che altrove”. Il Cts lombardo chiedeva il lockdown totale a Milano da venerdì: lui non l’ha fatto manco ieri, però rivendica. E poi ora – udite udite – “riapriremo i reparti alle Fiere di Milano e di Bergamo”. Quello di Bergamo ha 48 posti, ergo quello di Milano dovrebbe averne 152 (senza bagni, ma che sarà mai). Ma il Giornale parla di 53. Strano: a marzo Gallera ne aveva annunciati “600 in sei giorni”. Però rivendica. Intanto il commissario Arcuri attende notizie sui 2900 ventilatori per terapie intensive già comprati ma inutilizzati dalle Regioni. Però Gallera rivendica.
Per completare la clownterapia, mancava giusto il terzo del trio: Bertolaso. Che si rifà vivo per candidarsi un’altra volta a sindaco di Roma. Lo vuole B., o quel che ne resta: “È l’uomo giusto per il Covid”, forse perché l’ha già avuto. Ma allora tanto vale candidare Fabrizio Corona o Paolo Brosio. Sgarbi la prende male: “A questo punto, meglio Zalone”, che però il Covid non l’ha fatto. L’ideale sarebbe se corresse a sindaco della Maddalena, così potrebbe spiegare agli isolani l’utilità del mega-Centro Congressi di cristallo a strapiombo sul mare e di altre opere imperiture costate mezzo miliardo – il doppio dei preventivi – per un G8 mai fatto, perché dirottato in extremis a L’Aquila. Oppure ecco: potrebbe candidarsi a L’Aquila, dove lo ricordano tutti commossi, ma con un lievissimo prurito alle mani. Però non vanno trascurate le messi di voti che assicurerebbe nei paraggi del Salaria Sport Village, specie fra le massaggiatrici brasiliane specializzate in cervicale. E poi garantisce buonumore, merce rara di questi tempi. Già pregustiamo i teleconfronti con Calenda: chiacchiere contro chiacchiere, distintivo contro distintivo. A riprova di una vecchia ma sempre attuale teoria di Paola Taverna: “A Roma c’è un complotto per far vincere la Raggi”.

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Renzi e Calenda emuli di Rossi e Turigliatto. - Antonio Padellaro

 

Ai tempi del Prodi bis, viva sensazione suscitarono le imprese di una coppia di senatori comunisti col botto, Franco Turigliatto (di Rifondazione) e Fernando Rossi (PdCi), i quali a mezzogiorno votavano con la maggioranza mentre all’imbrunire gli manifestavano contro. Finché una mattina del gennaio 2008, i due si svegliarono male e, forse innervositi dal clima rigido o perché ancora appesantiti dalla cena, tagliarono la testa al toro e al governo Prodi. Alla fulgida figura di Turigliatto può oggi essere accostato un senatore più contemporaneo, Matteo Renzi, la cui natura smaniosa e oscillante lo costringe a camminare piroettando per non accoltellarsi alle spalle. L’ex tutto ha infatti incaricato due suoi pseudonimi di Italia Viva (tali D’Alessandro e De Filippo) di partorire l’intergruppo parlamentare “Mes subito”, a cui hanno entusiasticamente aderito, tra gli altri, l’allegro forzista Renato Brunetta (Forza Italia), lo spensierato Maurizio Lupi (uno che s’imbuca sempre dai tempi del liceo), e il pidino Andrea Orlando che passava di lì. Non v’è chi non veda come l’esclusivo scopo dell’intergruppo renziano sia quello di rompere le scatole a Giuseppe Conte, alle prese con problemucci come la pandemia e il tentativo di evitare la catastrofe economica del Paese.

Così ieri, a Palazzo Madama, mentre al piano di sopra il premier si smazzava con il Dpcm d’emergenza, al piano di sotto la combriccola cospirava allegramente per creargli qualche intralcio di troppo. Soltanto che, a differenza del Turigliatto di lotta e di governo, il Matteo double face fa sempre molta attenzione a non tirare troppo la corda perché se la maggioranza di cui fa parte va a casa, lui e Iv a casa rischiano di restarci per sempre. Magari giocando online a Fantapolitica con l’altro 2 per cento targato Azione. Alla domanda su chi potrebbe essere il Fernando Rossi del Turigliatto-Renzi, l’immediata risposta è infatti Carlo Calenda. Entrambi sono già entrati nel climaterio politico che non è molto diverso, nei sintomi, da quello fisiologico, caratterizzato da lunghe e tumultuose crisi smanianti, cui succedono inopinate fasi di stagnazione. Inconvenienti curabili con infusi di magnesio e rodiola, somministrati da Brunetta mentre Lupi si occuperà degli impacchi.

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Salvini tenta il blitz sul “coprifuochino”. Fontana però firma. - Gianni Barbacetto

 

Nel giorno nerissimo in cui Milano si consacra ufficialmente capitale italiana del Covid, la politica mostra tutta la sua incapacità a fronteggiare l’emergenza. Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, ha firmato l’ordinanza che impone il coprifuoco in tutta la regione dalle 23 alle 5, a partire da oggi e fino al 13 novembre 2020; e che chiude le scuole superiori, ma non i bar della movida. Un “coprifuochino”: una misura inadeguata alla gravità della situazione, secondo lo stesso Comitato tecnico scientifico regionale. Eppure il leader della Lega Matteo Salvini ha tentato di frenare anche quel provvedimento così blando. “Voglio capire, a me piace capire le cose”, aveva dichiarato martedì sera, al termine di una riunione con gli altri esponenti del centrodestra lombardo, convocata “per farsi spiegare” le misure in arrivo. “Salvini ha preso per le orecchie Fontana – aveva poi dichiarato il sindaco di Bergamo Giorgio Gori – è una ingerenza insopportabile, quella del leader della Lega, arrabbiato per questa decisione della Regione Lombardia che contraddice le sue precedenti posizioni”. Fontana, incalzato dai numeri angoscianti di ieri, ha infine firmato il “coprifuochino” deciso lunedì, con l’accordo dei sindaci dei capoluoghi lombardi, tra cui Giuseppe Sala e Gori. Impossibile tornare indietro. Ma Salvini ha confermato di avere dubbi sul coprifuoco notturno: “E non li ho soltanto io”. Il senatore leghista Gian Marco Centinaio ha dichiarato: “È un provvedimento senza senso. Non serve”. E ha annunciato che violerà il coprifuoco.

Salvini ha comunque negato ogni “ingerenza” nella decisione lombarda: “Io non mi permetto di intervenire nel lavoro di governatori e sindaci. Semplicemente ho chiesto più coordinazione”. Così la politica si è trovata a difendere con i denti una trincea considerata già arretrata da medici e scienziati, insufficiente a fronteggiare la situazione: il contagio sta avanzando senza freni, soprattutto nell’area metropolitana milanese, che ieri ha registrato 1.858 nuovi contagi, 264 ricoveri, di cui 11 in terapia intensiva, e 20 morti. Il Comitato tecnico scientifico regionale lombardo aveva chiesto almeno la chiusura di tutto già dalle 21 e dei bar dalle 18, ma non è stato ascoltato. Raggiunti i 15 mila casi alla settimana, la misura suggerita dal Cts era quella più radicale: il lockdown. La politica invece non ha avuto il coraggio di prendere misure ritenute impopolari. Così è nato il “coprifuochino” dalle 23, quasi indolore, ma anche davvero quasi inutile, visti i numeri del contagio e la velocità con cui si moltiplica soprattutto a Milano.

Fontana, varata una misura così prudente, ha dovuto comunque subire le rimostranze del capo del suo partito, Salvini. Chissà se, accusato da Gori di subire ingerenze esterne, a Fontana è tornata in mente la definizione che di lui ha dato, intervistato da Report, Nino Caianiello, il ras di Forza Italia arrestato e condannato per concussione: “Attilio Fontana non fa la politica, è un gestore della politica e risponde agli accordi. Attilio Fontana è un front office della politica”. È lo stesso Fontana, del resto, che dopo aver scelto i suoi assessori, nel 2018 dice a Caianiello (intercettato): “Hai visto Ninuzzo? I tuoi consigli per la giunta regionale li ho seguiti quasi tutti. Mi sembra che sia una giunta abbastanza bella”. Tra i “consigli” di Caianiello a Fontana c’erano i nomi di due assessori oggi molto pesanti: Giulio Gallera, al Welfare, che gestisce il budget da 20 miliardi della sanità lombarda e che si è trovato a gestire l’emergenza Coronavirus; e Raffaele Cattaneo, all’Ambiente, che sta gestendo l’approvvigionamento del materiale necessario ad affrontare la pandemia, dalle mascherine ai camici protettivi (compresi quelli arrivati dall’azienda del cognato e della moglie di Fontana).

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mercoledì 21 ottobre 2020

Il Covid e i sindaci Presunti sceriffi, ma con indosso la stella di un altro. - Alessandro Robecchi

 

Quante cose si vengono a sapere con una pandemia in corso! Per esempio che esiste una “chat dei sindaci”, dove i primi cittadini esprimono la loro “indignazione” per quel passaggio del Dpcm che li autorizza a chiudere vie e piazze a rischio, o luoghi dove il contagio minaccia di diventare incontrollabile. Tutti frementi, e/o furibondi, e/o sbalorditi (aggiungete a piacere) nelle dichiarazioni alle agenzie. Poi, all’apparir del vero, si è visto che si trattava di un’indignazione un po’ peregrina: i sindaci molti di quei poteri ce li hanno già, ci saranno accordi con le prefetture, il ministero dell’interno, eccetera eccetera. Insomma, pare che l’incidente diplomatico governo/sindaci sia un po’ rientrato, riportato alle sue giuste dimensioni.

Eppure la cosa – i sindaci italiani che declinano la responsabilità di chiudere o limitare zone che loro per primi conoscono meglio di tutti – lascia un po’ perplessi, almeno per come ci hanno abituati i sindaci italiani che solitamente fanno una polemica contraria (cioè vogliono decidere di più, non di meno). Anche se si tratta di archeologia politica, forse qualcuno ricorderà i decreti Maroni del 2008, che davano ai sindaci la possibilità di deliberare in modo “creativo” su tutto e tutti. Fu una specie di meravigliosa ordalia della cazzata: kebab vietati se non c’erano corrispondenti dosi di polenta, parchi frequentabili in non più di due persone, divieti tra i più assurdi e grotteschi. Prima che la Corte Costituzionale facesse a pezzi quelle leggi, l’entusiasmo per i sindaci sceriffi, sfiorò l’apice assoluto, il sindaco divenne una specie di legislatore superiore, un crociato del decoro, un poeta del divieto estemporaneo (spesso totalmente cretino). Stupisce quindi vederli ora, in situazione d’emergenza, storcere il naso (di più “indignarsi in chat”) davanti a nuovi poteri che gli verrebbero concessi. Probabile che i sindaci pensino più all’elettorato che a tutto il resto, e dire al barista che deve chiudere, o a un quartiere che deve spegnersi due ore prima, non è che porta molti voti, meglio che glielo dica il governo. Insomma, sceriffi, ma con la stella di un altro, ecco. Fa specie, solo per fare un caso, vedere il sindaco di Firenze Nardella dolersi che gli vengano dati poteri di controllo del territorio, proprio lui che si vantava di installare più telecamere di tutti.

In più, il Paese dei sindaci, dove periodicamente si alza qualche bel tomo a dire che ci vuole “il sindaco d’Italia”, ci ha abituato a un culto locale della personalità, per cui molti sindaci giocano la loro partita politica o personale. Vero che a virus inoltrato questo ruolo da protagonisti è stato usurpato dai governatori (si pensi a De Luca, o a Zaia Superstar, o al pasticcione della Lombardia), ma anche vero che i sindaci potranno ora riprendersi la scena. Bene, se questo garantirà decisioni rapide, efficaci e tempestive, dopotutto se c’è pericolo in via Pincopallino lo sa per primo il sindaco, non il ministro dell’Interno. Male, invece, se ricomincerà il valzer delle vanità, della visibilità, della gara mediatica, del chi la spara più grossa. Probabilmente assisteremo a un’impennata delle cronache locali, con i sindaci intenti a usare l’arte del bilanciamento: ora ottimisti-aperturisti (Hurrà! Si riparte!), ora allarmisti-chiusuristi (Tutti a casa!) a seconda del bilancino del consenso contingente, delle pressioni di categoria, delle opportunità politiche, insomma, se tutto diventerà soltanto altro materiale di consumo da talk show.

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Csm, non scordiamoci i tanti meriti di Davigo. - Gian Carlo Caselli

 

La maggioranza del Csm ha deciso: Piercamillo Davigo, regolarmente eletto a far parte dell’Organo di governo autonomo della magistratura per gli anni 2018-2022, deve lasciare la carica prima della scadenza del mandato, in ragione del compimento dell’età pensionabile.

Festeggiano, anche in maniera scomposta, tutti coloro che hanno sempre sostenuto (e ancora oggi ne rivendicano le ragioni) le crociate contro il pool di Milano anti corruzione nel quale aveva un ruolo centrale proprio il “dottor sottile” Davigo. Crociate avviate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in seguito – non è un mistero – ai numerosi processi a suo carico e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Questi processi non potevano essere credibilmente contestati da soli. Meglio mettere sotto accusa l’intera stagione giudiziaria in cui essi si inserivano, così da nascondere l’interesse di parte.

Il primo punto di attacco era suggestivo: perché le indagini esplodono solo nei primi anni Novanta? In verità c’erano stati anche prima significativi processi per fatti di corruzione politica: vicende come l’Italcasse, i Fondi neri Iri, la Lockeed, i vari scandali petroliferi, i casi Teardo, Zampini, Longo e Nicolazzi appartengono purtroppo alla storia italiana. Il successivo imponente aumento dei processi per corruzione si spiega con il concorso di molteplici fattori: primo, uno sviluppo del malaffare diventato incompatibile con le esigenze dell’economia; secondo, lo “scaricamento” di personaggi intorno ai quali il sistema aveva in precedenza fatto quadrato, a seguito di uno scontro politico senza esclusione di colpi; terzo, la crescita di efficienza e di capacità investigativa di alcuni apparati di polizia; quarto, il graduale incrinarsi di quel sostanziale blocco omogeneo fra potere politico e parte della magistratura (consapevole o inconsapevole) di cui per lustri era stata simbolo la Procura di Roma, “porto delle nebbie” responsabile di artifici e acrobazie arditi pur di non turbare gli assetti di potere esistenti; quinto, la contestuale riduzione della tradizionale prudenza e sobrietà della cosiddetta “giustizia politica” nelle autorizzazioni a procedere (emblematica al riguardo la prima indagine genovese sul contrabbando petrolifero dei primi anni Settanta; accertati versamenti illeciti per oltre tre miliardi di lire in favore di cinque ministri dell’Industria per alcuni provvedimenti; ma alla fine tutto prescritto, grazie anche – obiettivamente – al tempo trascorso per le “cure” assicurate alla vicenda dal Parlamento).

Un altro punto di attacco riguardava specificamente quanto accaduto dopo l’arresto nel febbraio 1992, del mariuolo milanese Mario Chiesa. Una sorta di effetto valanga, battezzato dai media come Tangentopoli o Mani pulite. Secondo il presidente del Consiglio, “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri che hanno fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. A questa garbata sintesi si contrappose (anche tra i magistrati) la trionfalistica evocazione di una rivoluzione per via giudiziaria, alla base del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa, ma più semplicemente l’emergere in sede giudiziaria (tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica) di un intreccio diffuso e apparentemente inarrestabile, diretto prevalentemente (ma non solo) al finanziamento illecito dei partiti. Mani pulite e le inchieste che si diffusero da Milano (epicentro del fenomeno) in tutt’Italia di certo non furono un’operazione indolore. Furono anzi un vero e proprio terremoto. Ma il problema vero è: fu un terremoto fondato su fatti, o su sospetti infondati, o su forzature, o su impropri teoremi? La risposta è nelle carte e negli esiti processuali.

E oggi, ad anni di distanza, si può agevolmente constatare che Mani pulite non è stata una stagione di persecuzioni giudiziarie (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso e corretto dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

E tuttavia i componenti del pool di Milano sono stati ingiustamente sbattuti nell’occhio del ciclone di un assalto spesso selvaggio. Davigo in testa. Anche per la sua indiscutibile abilità nel ribattere le accuse, intervenire sui problemi della giustizia con posizioni, sempre argomentate, esposte con linguaggio non felpato (bandito il “giuridichese”) e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene.

Tutti meriti che gli vanno riconosciuti anche in questo momento difficile, che per qualcuno potrebbe costituire una rivincita.

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