venerdì 15 maggio 2020

Stampa senza speranza. - Gaetano Pedullà

MARIO ORFEO

In un Paese normale, un Governo che vara una delle manovre finanziarie più poderose di sempre raccoglie gli applausi. Ma di normale in Italia non è che ci sia rimasto molto, e così ieri in tutti i talk show televisivi, di qualunque canale, è stato un tiro al bersaglio contro il provvedimento, con la solita compagnia di giro di opinionisti riusciti ad andare oltre il senso del ridicolo, perché anche i sassi sanno che gli ultimi 55 miliardi tirati fuori da Conte, con effetti per 155 miliardi, nelle casse dello Stato prima non c’erano.
Tutto, ma proprio tutto, è stato contestato perché troppo poco, dato tardi o dato male. Con punte comiche, come i mille euro riconosciuti ai medici eroi nella guerra al Covid definiti una “mancetta” perché duemila euro erano meglio, e se la cifra fosse stata questa allora si doveva fare tremila, e così via all’infinito, tanto chi conduce quasi tutti i programmi Rai, Mediaset e La7 non c’è rischio che intervenga per spiegare che anche le fesserie hanno un limite. In questo contesto oggi la Rai toglie la direzione del Tg3 a una professionista che ne ha fatto crescere gli ascolti, Giuseppina Paterniti, per darla a Mario Orfeo (nella foto), già direttore generale della tv pubblica ai tempi di Renzi premier.
Un bel segnale a chi sui giornali e in video ci racconta il mondo come vuole la politica e il padrone, a senso unico e senza obiettività, purché non si disturbi il sistema e si assecondi il racconto mainstream, come quello che una manovra da 55 miliardi è una caccola, chi li ha trovati è debole e tra poco cade, i 5 Stelle sono pasticcioni e qui tutto va male pure per madama la marchesa.

Linciaggio neofascista. - Tommaso Merlo

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Dai social media al parlamento, il linciaggio di Silvia Romano non ha fine. Le squadracce sovraniste si sono scatenate contro la giovane cooperante. Da sgualdrina a neo-terrorista. Le hanno vomitato addosso di tutto. Senza pietà. Leoni da tastiera, presunti onorevoli. Una vergogna. Invece di gioire per una giovane vita salvata, è venuto a galla quel neofascismo che si cela dietro ai sorrisini di Salvini e della Meloni. L’Italia peggiore. Cattiva, violenta, retrograda. La vera colpa di Silvia Romano è quella di essere una cittadina libera che invece di disprezzare il diverso è andata ad abbracciarlo addirittura fino in Africa. La colpa di Silvia Romano è quella di non avere paura, di non rinchiudersi dietro qualche muro o confine anche mentale ma di rimboccarsi le maniche per un mondo migliore. La colpa di Silvia Romano è quella di non essere razzista e di credere nella solidarietà. La sua sola testimonianza urta i pilastri della propaganda sovranista e se non bastasse ha cambiato pure religione scatenando l’ipocrita bigottismo nero. Quello di coloro che vorrebbero sfruttare perfino il cristianesimo per perorare la causa sovranista. Facendo fuori il Papa comunista e mondialista per salvare la razza pura e tornare alla rigorosa famiglia tradizionale. È bastato quel velo per trasformare Silvia Romano da compatriota ad infame traditrice schierata dalla parte dei negri e degli islamici e dei terroristi e di tutti quei nemici invasori della patria. Cupe chimere delle destre vecchie e nuove. Il neofascismo non è mai scomparso dalla scena politica italiana. Si è solo dovuto camuffare per sopravvivere. A volto scoperto non lo votava nessuno e così si è nascosto dietro ai sorrisini complici di Salvini e della Meloni. Dietro ad una confezione più appetibile. Dietro ad un’immagine social più amichevole. Un neofascismo che negli ultimi anni è cresciuto lucrando sulle crisi. Quella economica, quella dell’immigrazione, quella europea. Lucrando sulle frustrazioni dei cittadini e sulle nuove paure. Una strategia che sta funzionando. Salvini e la Meloni hanno raggiunto percentuali vertiginose. È sparito il centro, è sparita la destra moderata. Sono rimasti solo i sovranisti che scalpitano per il potere e che dal neofascismo che pullula nelle loro viscere non hanno mai preso le distanze. Le lobby si riposizionano e l’Italia si appresta a diventar nera alla prima occasione. Come si trattasse di un normale avvicendamento democratico. Poi Silvia Romano viene liberata. E’ una giovane cooperante e ormai non ci sperava più nessuno. Sbarca con un velo in testa e invece di gioire per una vita salvata si scatena un linciaggio neofascista senza precendeti. Leoni da tastiera, presunti onorevoli. Le vomitano addosso di tutto. Perfino minacce. L’Italia peggiore. Cattiva, violenta, retrograda. Una vergogna. E una sciagura politica da evitare.

https://repubblicaeuropea.com/2020/05/13/linciaggio-neofascista/

Indignazione. - Massimo Erbetti.



Indigniamoci tutti, arrabbiamoci, protestiamo, ma mi raccomando facciamolo a corrente alternata. Non per tutto mi raccomando. Indigniamoci ad esempio per i 4 milioni di riscatto pagato per la liberazione di Silvia Romano. Ma siamo certi che sia stato realmente pagato? Si...cioè no...forse...comunque lo ha detto il fratello del cugino di mia zia, che conosce un tizio, che ha sentito dire da un suo conoscente al bar, che in una conferenza stampa uno dei sequestratori di Silvia Romano, avrebbe affermato che lo stato ha pagato!... Per cui è vero e allora Indigniamoci, Indigniamoci tutti,perche sai quanti italiani potevamo aiutare con quattro milioni? Eh? Ma tu lo sai? Ma anche Silvia Romano è italiana, si è vero, ma si è convertita e allora non si merita il nostro aiuto. Si giusto hai ragione, Indigniamoci, Indigniamoci anche se non sappiamo nemmeno se il riscatto è stato pagato, Indigniamoci anche se la costituzione dice che tutti gli italiani sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione. Indigniamoci e basta.
Non Indigniamoci invece per l'ospedale alla fiera di Milano, no per quello no, 600 posti letto, poi 500, poi 250 e alla fine 57, di cui solo 10 occupati, anzi no, 8 perché due pazienti sono stati dimessi. Non Indigniamoci assolutamente per i 26 milioni di euro spesi per costruirlo, quelli a differenza del riscatto (che ricordo non sappiamo neanche se è stato pagato) della Romano, sono soldi ben spesi. Ben 26 milioni che divisi per 8 pazienti, fanno ben 3.250.000 euro a persona...questo non ci fa indignare? Eh no questo assolutamente no, perché noi ci indignato a comando, noi l'indignazione la proviamo a corrente alternata..una volta si e una no...ci indigniamo quando ci fa comodo, anzi quando fa comodo a "qualcuno".
Buona indignazione "alternata" a tutti.


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Niente tamponi e morti che spuntano dal nulla, Agnoletto: “Commissariare la Lombardia per salvare il salvabile”. - Daniale Nalbone



Dietro questa richiesta non c’è una battaglia politica ma “la rabbia della gente”. L’hashtag #commissariarelalombardia è stato per giorni in “trend topic”, segno di una mobilitazione dal basso per chiedere l’intervento del governo nella gestione dell’emergenza. Al centro, ci spiega Vittorio Agnoletto, docente di Globalizzazione e politiche della salute all’università Statale di Milano, non solo le responsabilità della fase uno ma le modalità con cui si sta gestendo la fase due.

Dottor Agnoletto, partiamo dal lavoro che state facendo con Osservatorio Coronavirus, realizzato da Medicina Democratica in collaborazione con 37e2, trasmissione che conduce su Radio Popolare. Com’è nato questo progetto?

Partiamo da un presupposto: l’informazione ufficiale, istituzionale, in questo scenario ha mostrato tutte le sue lacune. Gli organi ufficiali della Regione Lombardia in particolare continuano a raccontare una realtà che non corrisponde minimamente alla quotidianità che vivono i cittadini. C’è un totale scollamento e la gente si sente abbandonata. Da qui la necessità delle persone di aggrapparsi ad altre realtà con il rischio, però, di incappare nelle tantissime bufale che stanno girando in rete. La televisione, poi, è diventata il regno del chiacchiericcio e delle polemiche che trasmettono solo, a parte qualche raro caso, confusione. Da qui è emersa la necessità di fare un’informazione seria e rigorosa dal punto di vista scientifico e divulgativo. Il risultato è che ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni da parte di medici e infermieri, che il più delle volte chiedono di restare anonimi, e da cittadini.

Quali sono le “segnalazioni tipo” che vi arrivano?

In assenza di un riferimento sono molti i medici e gli operatori sanitari che si rivolgono a noi per denunciare le tantissime lacune del sistema sanitario lombardo in questa emergenza: negli ultimi giorni, ad esempio, ci è arrivata una segnalazione su ospedali dove operatori sanitari “covid positivi” sono rientrati al lavoro dopo aver fatto un solo tampone. In queste settimane abbiamo raccolto decine di casi che dimostrano il fallimento della gestione della pandemia. Ve ne racconto solo un paio. Sono stati i medici di medicina generale, i cosiddetti medici di famiglia, a denunciare di essere stati contattati dall’Agenzie di tutela della salute (Ats)– la Asl – per andare a ritirare le mascherine. Era il 2 marzo e la distribuzione sarebbe avvenuta il giorno seguente. Nel tardo pomeriggio del 3 marzo le mascherine erano già finite e il primo contagio accertato risale al 21 febbraio. Per 11 giorni i medici di base hanno lavorato senza che l’Ats procurasse al proprio personale alcun dispositivo di protezione. Pochi giorni fa, invece, ci è arrivata una lettera, umanamente bellissima, da parte di una ragazza che ci ha raccontato l’odissea vissuta dalla sua famiglia: la nonna è morta di Covid in una RSA. Durante l’ultimo periodo del ricovero non solo non sono mai riusciti a parlarle ma non sanno, ancora oggi, nemmeno il giorno in cui è deceduta. Questi sono solo due esempi delle segnalazioni che ci arrivano, tanto dal personale sanitario che dalla cittadinanza. Noi raccogliamo tutto questo materiale e avviamo indagini che, spesso, vengono poi riprese dai magistrati o dal Difensore civico regionale.

In questi giorni si parla tanto di commissariamento della sanità regionale. La richiesta, almeno guardando a quanto avviene sulle reti sociali, è spinta dal basso, tanto che su Twitter l’hashtag #commissariarelalombardia è stato per giorni in “trend topic”.

La gente è furibonda. Chi non è qui non si rende conto della situazione. Questo è il fallimento di tutti noi perché il servizio sanitario regionale è patrimonio comune delle persone. Non si tratta di una richiesta ideologica o politica. È una richiesta materiale, che arriva dalla drammatica esperienza quotidiana delle persone.

Volevo arrivare proprio qui: quanto c’è di battaglia politica dietro la richiesta di commissariamento della sanità regionale e quanto, invece, di decisione da prendere per la salute delle persone?

Qui non si tratta di “battaglia politica”! Abbiamo migliaia di persone, decine di migliaia, che sono a casa, in quarantena, e non saprebbero dirti perché: se sono a casa perché in convalescenza dopo essere stati colpiti dal Covid oppure no. Sanno di aver avuto la febbre e basta, nessuno gli ha mai fatto un tampone. Poi ci sono altre migliaia di persone costrette a casa per aver avuto contatti con parenti che, a loro volta, sono positivi, lo sono stati, o potrebbero esserlo stati. Ma non lo sanno. È un effetto domino inaccettabile che ha degli effetti incredibili sulla quotidianità delle persone.
Può farci qualche esempio per capire?

Anche qui ne basta uno e riguarda sempre quelle persone che avrebbero un bisogno disperato di fare il tampone per sapere se sono stati infettati o se sono ancora contagiosi. Nell’accordo del 24 aprile tra Governo e parti sociali, inserito poi nel decreto del 26 aprile, si prevede che il medico del lavoro debba attestare, fra coloro che sono risultati positivi al Covid, chi può tornare al lavoro. Ebbene, l’accordo prevede esplicitamente che il “nulla osta” per il rientro al lavoro debba essere certificato dopo due tamponi risultati negativi. Ma se il tampone non viene fatto a nessuno, cosa può fare il medico del lavoro? E il lavoratore? Va o non va a lavorare? Senza considerare il dramma che stanno vivendo i miei colleghi medici di famiglia: alcuni mi hanno scritto, disperati, chiedendo che gli fornissi indirizzi di laboratori in cui fare i tamponi o almeno il test sierologico, e iniziano ogni messaggio con le scuse per avermi chiesto di indirizzarli verso il privato. Ovviamente io gli rispondo di insistere a richiedere il tampone alle strutture pubbliche, ma sono esasperati. Eccolo il fallimento del sistema sanitario lombardo.

Le responsabilità, in questo scenario, però sono politiche. È inevitabile quindi che anche le polemiche intorno a questo fallimento siano politiche, non trova?

Sono “anche” politiche. Qui parliamo di un fallimento generale, strutturale, per aver sottomesso tutta la sanità regionale all’ideologia del privato. Il guadagno, in una sanità “privatizzata”, è nella cura del malato, non nella prevenzione che può diventare addirittura controproducente in relazione al proprio interesse economico. Non è un caso che le cliniche convenzionate siano concentrare negli ambiti più produttivi della sanità: niente pronto soccorso ma “tanta” cardiologia o alta chirurgia. La Regione Lombardia negli anni ha dato al privato uno spazio enorme e, soprattutto, non complementare ma sostitutivo del pubblico, che di riflesso ha introiettato ideologie e valori del privato arrivando a distruggere il sistema preventivo e la medicina sul territorio. Basta ricordare la tristemente famosa frase del leghista Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario, quando alla festa di Comunione e Liberazione dichiarò: “I medici di base appartengono al passato”.

La sensazione è che si stia andando un po’ al buio. Sbaglio?

In una pandemia si fa l’esame diagnostico, in questo caso il tampone, a chi ha sintomi, poi a chi è entrato in contatto con un positivo. Quindi si inizia a inseguire, letteralmente, ogni contagiato. Contatto dopo contatto si costruiscono cerchi concentrici e, soprattutto, si “mappano” gli operatori sanitari. Qui non è stato fatto nessuno studio, non esiste alcun campione di popolazione stratificata da analizzare. Nessuno sa ancora dire con esattezza come si è mosso il virus e come si sta muovendo. La medicina preventiva e territoriale è stata totalmente ignorata. Però nella medicina di alta tecnologia la Lombardia è un modello …

Non mi ha ancora risposto sulle responsabilità politiche, però.

Non le ho risposto perché non c’è molto da dire. La scelta dei dirigenti delle aziende sanitarie regionali avviene, da anni, per assoluta fedeltà politica. Veniamo da venti anni di regno Formigoni e ora abbiamo una giunta a trazione leghista che sta operando in perfetta continuità. Sa perché in Lombardia ci sono stati tanti morti nelle Residenze sanitarie assistenziali? Perché sono stati chiusi vari ospedali e molti reparti per far posto allo sviluppo di nuove strutture private, contemporaneamente non sono state realizzate le necessarie e previste strutture intermedie e i posti in emergenza erano pieni, così i malati “non gravi” sono stati mandati nelle Rsa. La politica in questo caso doveva fare solo una cosa: obbligare le cliniche private a partecipare alla gestione dell’emergenza fino ad arrivare a requisirle. E ovviamente non lo ha fatto.

Torniamo sulla richiesta di commissariamento. Ora che la “fase uno” è, almeno a parole, alle spalle, è ancora necessario a suo avviso procedere in quella direzione?

Stanno gestendo la fase due nella stessa modalità con cui è stata gestita la fase uno, cioè senza fare tamponi. Un governo nazionale come fa a fidarsi di un governo regionale che il 2 maggio tira fuori, così, dal nulla, 282 morti di Covid che non erano stati segnati ad aprile? Parliamo di 282 persone decedute, non di una ventina di morti in più da mettere nella contabilità dell’anno a livello nazionale come avviene con altre patologie. Il problema è che in Lombardia non funziona nemmeno il sistema di sorveglianza. E l’intera fase due è incentrata sul sistema di sorveglianza.

Veniamo a un altro tema caldo, i luoghi di lavoro. Lei è specializzato in medicina del lavoro, ci può spiegare qual è la situazione?

Le fabbriche, ma è un discorso che vale per tutti i luoghi di lavoro, sono state – diciamo così – chiuse e poi riaperte. Il messaggio arrivato dal governo è stato: non si può riaprire nelle stesse condizioni di prima. Quanti datori di lavoro si sono dati da fare per organizzare i luoghi della produzione in maniera diversa? Sono state messe in atto tutte le forme di prevenzione? La risposta non la sappiamo perché la medicina del lavoro è stata smantellata. Il medico del lavoro oggi è una partita iva che lavora con il proprietario dell’azienda e se non si adegua alla linea viene sostituito. Il medico di una fabbrica non è un medico del servizio sanitario nazionale, ma “della fabbrica”. Contestualmente nei servizi di Medicina del Lavoro delle ASL/ATS è stato ridotto il personale sanitario che si deve occupare di verificare quello che accade. In questo scenario uno degli errori più gravi è stato quello di non prevedere sanzioni per i datori di lavoro che non applicano le misure di sicurezza: il rischio che si corre è la chiusura della ditta fino alla sua messa in regola. La ratio, quindi, di un proprietario di fabbrica è la seguente: “Io riapro, se mi beccano, chiudo, investo nella sicurezza e riapro. Se non mi beccano, tanto di guadagnato”. Un altro problema riguarda i prezzi: è assurdo che lo stato non sia intervenuto per una calmierazione dei costi di sanificazione e ora molte aziende del settore stanno sfruttando questa emergenza facendo impennare le tariffe.

Quali sono gli scenari che abbiamo davanti?

Nessuno sa cosa succederà in autunno e poi in inverno, se avremo farmaci per contenere il virus e se questo evolverà in maniera più o meno aggressiva. Quel che è certo è che in futuro dovremo confrontarci e convivere con una moltitudine di agenti infettivi: attenzione, non si tratta di “nuovi” virus ma di agenti che non venivano a contatto con gli esseri umani. E qui entrano in gioco le responsabilità dell’uomo: dai cambiamenti climatici agli allevamenti intensivi fino alla deforestazione. L’unica strada è modificare radicalmente l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Dobbiamo pensare a una medicina fondata sulla collaborazione tra cittadino e mondo sanitario. Saremo davanti a patologie in cui sarà determinante il nostro comportamento: puntare solo sulla cura, che poi è il modello lombardo, sarebbe un errore imperdonabile. Educazione sanitaria e comportamentale e rafforzamento della medicina territoriale, non c’è altra strada. Non si tratta, attenzione, di un “modo nuovo” di concepire la tutela della salute: fin dal 1978, l’Oms ha messo come punto fondamentale, e uno degli indicatori dello sviluppo di un paese, la primary care ed è la medicina di base territoriale che si occupa della cura primaria, dove il cittadino è parte attiva. La strada da seguire è solo una: fare un’inversione a U, ridare centralità al pubblico ad un vero servizio sanitario universale sostenuto dalla fiscalità generale.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/agnoletto-commissariare-la-lombardia-per-salvare-il-salvabile/

È tornato Capannelle. - Marco Travaglio

Viterbo, l'informazione online: l'invasione dei "copincollisti ...
E niente, volevo assegnare il premio “Oggi le comiche” della settimana, ma ho dovuto arrendermi per eccesso di pretendenti, tutti meritevoli. Ex aequo.
Francesco Merlo, sulla nuova Repubblica alla Sambuca, non sapendo più cosa inventarsi contro Conte, spiega che fascisti e odiatori insultano Silvia Romano per colpa del governo che l’ha “esibita sul red carpet degli squilibrati”. Giusto: dovevano carrucolarla direttamente sui tetti di casa sua, onde evitare fotografi e telecamere.
A proposito di Silvia: Toni Capuozzo, inviato di guerra Mediaset con la sindrome di Rambo in tempo di pace, già noto per le equilibrate posizioni sul Covid, si associa su La Verità al frullo del Merlo e dice che “al governo hanno agito da cazzari e fatto pubblicità ai terroristi”, oltre ad aver “pagato il riscatto”. Sono opinioni rispettabili, o meglio lo sarebbero se il Capuozzo le avesse mai esternate quando a pagare i riscatti e a far pubblicità ai terroristi erano Berlusconi e Gianni Letta. Cioè quei cazzari che gli pagano lo stipendio. Ma non risulta.
A proposito di Mediaset: Elisabetta Casellati Alberti Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, interpellata sui vergognosi delirii alla Camera del siculoleghista Alessandro Pagano su Silvia “neo-terrorista”, risponde che “la stigmatizzazione di questo intervento esula dalle mie competenze”, essendo lei (inopinatamente) presidente del Senato. È fatta così: ha l’indignazione selettiva, retrattile e perimetrale. Al metro quadro.
Il Giornale, sul governo che stanzia 55 miliardi (oltre ai 25 dell’altro decreto: cifre mai viste tutte insieme) per le vittime dell’emergenza Covid, titola “Le mancette di Conte”. Urge colletta per Sallusti.
A proposito di mancette e anche di red carpet: la Regione Lombardia ha buttato dalla finestra una cinquantina di milioni di donazioni private (inclusi i 3 raccolti dagli incolpevoli lettori di Libero e Giornale) per il famoso ospedale alla Fiera di Milano, orgoglio e vanto della Nazione e di Bertolesso, che ora ospita 4 malati dopo aver raggiunto la vetta di 12 e ora – parola del capo delle Terapie intensive della Regione stessa – verrà presto chiuso per manifesta inutilità. Alla fine della Fiera.
A proposito di Lombardia: leggiamo su Libero che “Le Regioni sono stufe di aspettare” il governo. Povere stelle. E in prima fila c’è “la Lombardia in pressing sul governo”, cioè la Regione che – in tandem col gemello Piemonte – non ne ha azzeccata una, infatti continua a moltiplicare i morti e i contagi e a costringere tutte le altre a restare ferme. Stufe di aspettare.
A proposito di Vien dal Mare. Per imperscrutabili motivi, Pd e M5S vogliono promuovere direttori di Rai3 e Tg3 due sugheroni quattro-stagioni: Franco Di Mare, che faceva le marchette ai pannolini alle convention della Pampers con la scenografia del Tg1; e Moiro Orfeo, il cui curriculum spazia fra De Benedetti, Caltagirone e la Rai, in quota ora B., ora Monti, ora Renzi, plurimedagliato per aver cacciato la Berlinguer dal Tg3 e la Gabanelli e Giletti dalla Rai, ultimamente segnalato dalle parti del Pd ma anche del M5S. Due tipini di bosco e di riviera. Anzi, Di Mare.
A proposito di sugheroni galleggianti: l’emerito Sabino Cassese è tornato a colpire sul Corriere con uno dei suoi celebri editoriali senza capo né coda. Nel senso che si capisce sempre che ce l’ha con Conte, ma mai perché. Stavolta gli fa schifo il dl Rilancio: “Le ombre sui tempi (e sui modi)”. La data del 13 maggio non va bene, forse per via dell’anniversario della Madonna di Fatima. Peggio ancora i modi di Conte che, direbbe Totò, sono interurbani. Eppoi ’sto decreto ha un “intento risarcitorio” (orrore) e “il mezzo consiste nelle elargizioni” (paura). Lo fanno in tutto il mondo, i tipi studiati lo chiamano helicopter money, ma lui ci è rimasto male. E poi “lo strumento prescelto è il decreto legge, atto al quale si dovrebbe ricorrere ‘in casi straordinari di necessità e urgenza’. Il governo non ha tenuto conto dell’urgenza” perché il dl doveva arrivare a fine aprile e invece siamo a maggio: ergo – seguite la logica – tanto valeva arrivare a dicembre con un bel disegno di legge. Del resto 35 mila morti e qualche milione di contagiati non saranno mica motivi di necessità e urgenza: “Le opposizioni hanno ragione a lamentare che lo Stato di diritto è violato e il Parlamento non è messo nelle condizioni di vagliare questa massa di atti”. Infatti Conte ha lucchettato gli ingressi di Montecitorio e Palazzo Madama. Anche per l’impressionante somiglianza fisica, Scassese ricorda sempre più Capannelle, il malmostoso vecchietto de I soliti ignoti che ha sempre qualcosa da imprecare, ma non sa nemmeno lui il perché (“Che hai da guardare, mi sono vestito spurtivo!”, “Ma quale spurtivo, tu sei vestito da ladro!”. “Ma guarda un po’ dove son capitato: fra i lavoratori!”. “Ehi, dove vai, vedi che quelli ti fanno lavorare davvero!”). Poi però, a fine articolo, i motivi di tanto rosichìo vengono a galla: Incassese butta lì “la storica inadeguatezza degli uffici di staff dei ministri”. Che sono da sempre infestati da allievi suoi, ma ultimamente un po’ meno. Tutti i Capannelle del mondo sempre lì finiscono: nella pignatta della pasta e ceci.

“Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini”. - Gianni Barbacetto

“Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini”

“Il Dap non ha agito in malafede. Non do pagelle ad altri giudici”.
“L’effetto delle scarcerazioni di questi mesi è stato devastante. Ha minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni”. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, magistrato antimafia, è anche sicuro che le organizzazioni criminali stiano già sfruttando l’emergenza coronavirus per mettere le mani su pezzi dell’economia italiana.
Il decreto Bonafede del 10 maggio è riuscito a fermare l’epidemia di scarcerazioni avvenute negli ultimi mesi?
Obbliga almeno a controllare, prima di scarcerare, se è attuale e concreto il pericolo che il detenuto possa infettarsi di Covid-19; e a trovare eventuali soluzioni alternative alla detenzione domiciliare. Nei mesi scorsi sono stati mandati a casa molti detenuti per ragioni di salute: nell’ipotesi che, se contagiati, sarebbero potuti morire. L’ipotesi si basa sulla possibilità di essere contagiati. Ebbene, due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione: i contagiati in carcere sono 159 su 62 mila detenuti. Intanto ottomila persone sono uscite di cella, diminuendo il sovraffollamento carcerario. Ma intanto sono state scarcerate 400 persone che erano detenute al 41 bis o in alta sicurezza. In nome di un pericolo di contagio che non si è manifestato. I detenuti avevano il 99,5 per cento di possibilità di non infettarsi: a dirlo è il Garante nazionale delle private libertà. Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere.
Il decreto Bonafede impone anche di chiedere il parere, prima di scarcerare, alle Procure distrettuali antimafia e alla Procura nazionale.
Le Direzioni distrettuali devono rilasciare il parere in due giorni: troppo pochi, ce ne vorrebbero almeno cinque. Anche perché la Direzione nazionale antimafia, che invece ha a disposizione quindici giorni, il parere lo chiede a noi delle Procure distrettuali.
L’ondata di scarcerazioni è stata causata dalla circolare del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) del 21 marzo?
Non credo sia stata fatta in malafede. Chiunque l’ha pensata non voleva certo favorire i mafiosi e non prevedeva neppure l’ondata di uscite dal carcere.
La responsabilità è allora dei magistrati di sorveglianza?
Non voglio dare pagelle e non posso sovrappormi alle decisioni di altri magistrati, perché non conosco gli atti.
L’effetto delle scarcerazioni è stato comunque un rafforzamento dei gruppi criminali?
Le ragioni poste a fondamento delle scarcerazioni sono legate a rischi di salute per il detenuto; purtuttavia un rafforzamento c’è stato in ragione dell’alto valore simbolico del rientro nei territori di provenienza degli appartenenti ai gruppi criminali. Un effetto devastante. La gente è smarrita di fronte a certe scarcerazioni. Ho visto una ricerca secondo cui i cittadini calabresi sono quelli con maggiore fiducia nella giustizia in Italia: da calabrese sono fiero di questo risultato che mi riempie d’orgoglio. Spero che l’effetto delle scarcerazioni non venga interpretato come debolezza dello Stato.
Un effetto collaterale: a causa del coronavirus si è ripreso a parlare di mafia.
Sì, e una gran parte dell’informazione ha fatto un ottimo lavoro. Ora dovremmo fare dei passi avanti. Per esempio istituendo i Tribunali distrettuali antimafia, per celebrare i processi di criminalità organizzata. Ogni mattina dal mio ufficio, qui a Catanzaro, partono sette auto per portare i pm in sette diversi Tribunali della Calabria, perché i processi si celebrano nel luogo dove è stato commesso il reato. Ma sarebbe più razionale unificarli tutti nei capoluoghi sedi delle Direzioni distrettuali antimafia. Otterremmo anche dei giudici con maggiore specializzazione ed esperienza.
L’emergenza virus non ha fermato le attività dei gruppi mafiosi.
Per niente. Le difficoltà di tante attività produttive o commerciali spingerà a chiedere soldi a usura ai gruppi criminali, i quali prestano soldi per poi rilevare le attività, che saranno usate per fare riciclaggio. Dopo il traffico di cocaina, l’usura è l’attività criminale più facile e frequente. Le cosche sono già al lavoro.

giovedì 14 maggio 2020

Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”. - Lucio Musolino


 Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”

I rapporti con i Graviano - Al processo ’ndrangheta stragista il capo dell’Anticrimine Messina spiega: “Non ci fecero indagare”.
“C’era un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che, tramite lui, erano interessati al finanziamento del nascente movimento politico Forza Italia perché erano convinti che questo li avrebbe garantiti e avrebbe garantito i loro interessi”. Il contenuto delle confidenze di Salvatore Baiardo lo riferisce in aula, ieri a Reggio Calabria, il capo della Direzione centrale anticrimine della polizia, Francesco Messina. È stato lui, assieme all’allora dirigente della Direzione investigativa antimafia di Firenze, Nicola Zito, a redigere il 4 novembre 1996 l’informativa sul colloquio avuto con Salvatore Baiardo, uno dei principali fiancheggiatori del boss di Brancaccio oggi imputato nel processo ’ndrangheta stragista.
A due anni dalla fondazione di Forza Italia e pochi mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, le rivelazioni di Baiardo avrebbero provocato un terremoto non solo all’interno di Cosa Nostra ma anche nella politica italiana. Quella nota finì sulla scrivania del procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. E poi? Alla domanda del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Messina risponde senza tentennamenti: “Noi non abbiamo ricevuto delega come Dia. Almeno fino a quando ci sono stato io a Firenze e fino a quando era operativo il gruppo Stragi”.
In quell’informativa non c’è il nome di Salvatore Baiardo: “All’epoca – spiega Messina – non voleva comparire e fu utilizzato il termine ‘persona indagata nel procedimento penale 3309/93 (il processo sulle stragi, ndr) e per la quale pende richiesta di archiviazione a Firenze’”.
In sostanza, quelle informazioni “non furono sviluppate” dalla Procura che “diede atto del fatto che si trattava di un soggetto che non intendeva apparire”. Nel corso della deposizione, il capo dell’Anticrimine più volte definisce “ondivago” l’atteggiamento di Salvatore Baiardo, di fatto un potenziale pentito che, a metà degli anni Novanta, prima dei colloqui investigativi con la Dia era stato sentito a sommarie informazioni anche dai carabinieri di Palermo. “Fu convocato dai dottori Patronaggio e Caselli, ma si rifiutò di parlare”. “Io l’ho visto due volte – ricostruisce Messina –. Ci furono dei contatti preliminari finalizzati a capire se lui avesse intenzione di fare questo passo. Ci fu un tentativo di interrogatorio. Fu convocato ma all’atto dell’apertura del verbale disse che non aveva niente da dire. Nelle fasi in cui sembrava orientato a dare un contributo, ascoltammo questo signore per capire che spazio c’era e lui rappresentò genericamente di essere in possesso di informazioni che potevano essere strategiche per ricostruire tutto il periodo della latitanza dei Graviano e fornirci delle indicazioni che potevano essere utili”.
Al centro dell’informativa della Dia ci sono proprio quei colloqui investigativi: “Accennò – aggiunge il capo dell’Anticrimine – all’esistenza di un rapporto tra i fratelli Graviano e alcuni soggetti in particolar modo milanesi. Parlò di un tale Rapisarda, di origine siciliana, con cui c’erano degli interessi economici. E poi accennò anche a un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Graviano e in particolare con Filippo, ritenuto la mente finanziaria dei Graviano”.
Agli investigatori della Dia, il fiancheggiatore Baiardo raccontò un episodio avvenuto a casa sua tra il 1991 e il 1992: “Ci disse – ricostruisce Francesco Messina – di avere assistito a due conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri. Conversazioni da cui emergeva che i due avevano in comune interessi economici”.
“Baiardo – continua Messina – disse di avere avuto informazioni particolari in merito alla natura dei rapporti che legavano Dell’Utri ai fratelli Graviano. Aveva capito che in questo contesto era coinvolto tale Fulvio Lima di Palermo, a suo dire parente del noto onorevole Salvo Lima (ucciso dalla mafia nel 1992, ndr)”. Sempre nella stessa informativa, il direttore dell’Anticrimine aveva appuntato che “Baiardo disse di avere accompagnato fisicamente, tra il 1992 e il 1993, i fratelli Graviano al ristorante ‘L’Assassino’ di Milano dove i due si sono incontrati con Dell’Utri” anche se lui non l’ha visto.
Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo insiste, riprova a chiedere che fine abbia fatto quell’indagine. Al termine dell’udienza, Messina ribadisce: “Fino alla mia permanenza nel gruppo investigativo della Dia non ho mai avuto deleghe”. E ritorna attuale la frase detta a mezza bocca da Baiardo in un’intervista fatta da Peter Gomez e Marco Lillo e pubblicata dal Fatto nel giugno del 2012: “Di queste cose non voglio parlare adesso. C’è già la Dia di Firenze che mi martella, l’ultima volta son venuti tre mesi fa”.