venerdì 23 ottobre 2020

Csm, convertiti e astenuti: così hanno messo fuori Davigo. - Antonella Mascali (20 ottobre 2020)

 

13 voti a favore, 6 contrari e 5 non si pronunciano.

Nel giro di poche ore, Piercamillo Davigo è magistrato in pensione perché oggi compie 70 anni, ed ex consigliere del Csm proprio perché collocato a riposo. Ieri, a determinare la fuoriuscita dal Consiglio, come anticipato dal Fatto, il Comitato di presidenza costituito dal vicepresidente David Ermini, dal presidente della Cassazione Piero Curzio, e dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi. Ergo, il Quirinale.

Sono scesi in campo per dire che la via dell’uscita è tracciata dalla Costituzione. Una posizione che ha portato all’astensione anche chi aveva annunciato in punto di diritto il voto pro Davigo: Giuseppe Cascini, di Area (progressisti), seguito dai colleghi di gruppo Giovanni Zaccaro e Mario Suriano, non Alessandra dal Moro ed Elisabetta Chinaglia rimaste per il no alla decadenza; Filippo Donati, laico M5S, è passato dall’astensione al sì alla decadenza. Astenuti, ma della prima ora, anche i laici Carlo Benedetti, M5S, e Stefano Cavanna, Lega. Chi cambia voto all’ultimo precisa che lo fa “per rispetto istituzionale” verso il Comitato, come se mancasse a chi vota in modo diverso. Tanto che Fulvio Gigliotti, laico M5S, tra i 6 consiglieri pro Davigo, dichiara: “Non per mancanza di senso istituzionale, ma per radicamento del mio convincimento giuridico, confermo” il no alla decadenza. Sebastiano Ardita, di AeI annuncia il suo voto contro come i colleghi Ilaria Pepe e Giuseppe Marra ed esprime sconcerto, senza nominarlo, per il cambio di rotta di Cascini. C’è, però, una stessa premessa in tutti gli interventi, a partire da quello della presidente della Commissione verifica titoli Loredana Micciché, che ha proposto la decadenza: “Stima” per Davigo, “nessuna logica correntizia” dietro al voto. Nino Di Matteo è per la decadenza “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”. Chi, in minoranza, avrebbe voluto la permanenza, invece, ha sostenuto che né la Costituzione né la legge ordinaria prevedono la decadenza da consigliere di un magistrato in pensione e che, quindi, può intervenire solo il legislatore. Ma “se la condizione di magistrato viene meno – ha sostenuto il presidente Curzio, in condivisione con il Pg Salvi – viene meno il rapporto tra laici (8, ndr) e togati (16, ndr)” che la Costituzione prevede per i Csm”. David Ermini a sorpresa parla di “un’amicizia con Davigo irrinunciabile. La Costituzione, però, ci impone di rinunciare all’apporto che Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare”. E conclude: “Sono convinto che proprio in nome dell’amicizia, stima e affetto che ci lega, saprà comprendere”. Alla fine 13 voti per la decadenza, 6 contrari e 5 astenuti.

Al posto di Davigo, il più votato, subentra Carmelo Celentano, primo dei non eletti in Cassazione con la centrista Unicost, che per colpa dello scandalo Palamara ha perso 3 togati su 5. Ora ne recupera uno, ma in teoria: Celentano a gennaio si è dimesso da Unicost. E, comunque, la partita non è affatto chiusa. Davigo, ci risulta, presenterà ricorso al Tar, convinto che la Costituzione, invece, gli consenta di restare.

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giovedì 22 ottobre 2020

La guerra dei manager allo smart working. - Domenico De Masi

 

Tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020, senza nessuna preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio e cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo a tre miliardi di colletti bianchi.

In tutta la storia delle scienze organizzative, l’unica rivoluzione paragonabile a questa è avvenuta in America all’inizio del Novecento ma, per estendersi da Detroit e da Filadelfia su tutto il pianeta, ha impiegato parecchi decenni. Quella rivoluzione riguardava i colletti blu; questa riguarda i colletti bianchi. In entrambi i casi, l’innovazione non è salita dal basso, ma è calata dall’alto ed è stata opera di ingegneri, non di sociologi o di politici: allora si trattò di ingegneri metalmeccanici; questa volta si è trattato di ingegneri elettronici.

Il grande esperimento ci ha improvvisamente esibito gli stati d’animo, il livello di professionalità, il grado di predisposizione al cambiamento degli impiegati, dei manager, delle aziende, dei sindacati, degli studiosi, degli intellettuali.

Prima che iniziasse, il mondo del lavoro italiano aveva già metabolizzato, quasi senza accorgersene, alcune certezze. Una di queste era che ormai negli uffici si lavorava sempre meno con persone vicine di scrivania, e sempre più con interlocutori che potevano essere fisicamente ovunque. Tra gli impiegati, senza che nessuno lo avesse deciso, vigeva la cosiddetta “regola dei 15 metri” per cui, se una persona lavorava a una certa distanza dal collega, finiva per comunicare con lui tramite email. piuttosto che a voce. A questo punto non vi era nessuna differenza tra lavorare entrambi in ufficio o lontano, magari ai punti opposti del pianeta.

Un’altra certezza era che, per la diffusione dello smart working, si trattava solo di una questione di tempo. Chi è nato nello stesso anno di Facebook, cioè nel 2004, fra dieci anni ne avrà 26; chi è nato con Instagram, cioè nel 2010, ne avrà 20. In altri termini, fra dieci anni tutti gli italiani in età lavorativa saranno digitali e, salvo in caso di mansioni non lavorabili a distanza, nessuno accetterà di lavorare per un’azienda che non gli assicura lo smart working.

Un’altra certezza evidente a tutti, consisteva nella constatazione che già prima del lockdown quasi tutti i colletti bianchi ormai lo praticavano a livello informale nei treni, nelle stazioni, nei bar, nei ristoranti, anche se l’azienda non lo riconosceva a livello contrattuale.

Se è vero che alla vigilia del lockdown vi erano 570.000 lavoratori in remoto e pochi giorni dopo ve ne erano tra i 6 e gli 8 milioni, se è vero che con il lavoro agile la produttività aumenta del 15-20%, se è vero che nulla impediva di introdurre lo smart working già da anni, in modo pianificato, come mai non è stato fatto? Perché la produttività delle aziende è stata così lungamente e intenzionalmente depressa? Chi porta la responsabilità di tutto questo? La struttura aziendale ha una forma piramidale che attribuisce potere, responsabilità e gratificazioni ai capi. Supponendo che nelle organizzazioni vi sia mediamente un capo ogni dieci dipendenti, ciò significa che, dietro 6-8 milioni di smart workers vi sono almeno 600-800mila capi diretti e migliaia di capi del personale. Questi, impedendo l’adozione del lavoro agile, hanno causato alle loro aziende e alle loro pubbliche amministrazioni – per mancanza di professionalità o di coraggio o di onestà intellettuale – un danno incalcolabile. Mettiamoci nell’ottica di uno studioso di organizzazioni come J. C. Flanagan e applichiamo la sua Critical incident technique al lockdown considerandolo appunto come un incidente critico rivelatore di pericolose disfunzioni. Del resto la parola greca “apocalisse” non significa soltanto distruzione, ma anche “rivelazione di cose nascoste”. Ebbene, il Coronavirus ci ha rivelato che questa inadempienza dei capi – soprattutto dei capi del personale – per cui hanno ignorato un’innovazione organizzativa di accertato vantaggio per l’azienda, per i lavoratori e per la società, rinvia a una sub-cultura che va messa a nudo e combattuta perché dannosa e contagiosa non meno del virus rivelatore.

Ma in che cosa consiste? Ripeto qui ciò che ho già scritto più volte: consiste nel primato onnivoro dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni fino alla sistematica identificazione con i vertici e all’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita e della professione; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come negazione del piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili come la parità di genere; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.

Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale agli albori. Qui, l’impresa resta una istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipende quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni. Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.

Per evitare il collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, o non potranno mai diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resterà un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.

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Purtroppo, la guerra dei manager al lavoro a distanza ha una sua logica, anche se alquanto discutibile.
Un manager si sente manager non solo perchè gli viene affidato un incarico di responsabilità, ma perchè quello stesso incarico lo rende possessore di un potere che esercita come meglio crede: favorendo qualche raccomandato per avanzare di ruolo; mortificando i suoi sottoposti per gratificare il suo ego; esercitando la sua posizione di capo per molestare sessualmente le collaboratrici promettendo possibili ed eventuali vantaggi... e via discorrendo.
E' il potere ciò che vuole la maggior parte della gente, per cui accetta ogni incarico di responsabilità, dimenticando, una volta ottenuto il piccolo potere, la responsabilità affidatagli, e mettendo in atto ciò che il potere gli permette... anche irresponsabilmente.
Un manager è manager quando può esercitare il potere.
E poi, come far fare carriera ai raccomandati, se con il lavoro a distanza emergesse la meritocrazia?
Cetta.


Corte Ue ri-taglia i vitalizi agli eurodeputati italiani. - Ilaria Proietti

 

Non c’è trippa per gatti, almeno in Europa. Perché i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione (Cgue), con sede in Lussemburgo, hanno promosso il taglio dei vitalizi caduto come una mannaia anche sugli assegni degli europarlamentari italiani eletti in passato a Bruxelles che sono parametrati a quelli degli ex inquilini di Camera e Senato. Come noto questi ultimi stanno facendo fuoco e fiamme dopo la sforbiciata operativa dal 1° gennaio 2019. E da ultimo sono tornati a sperare di riavere il malloppo grazie a una decisione della Commissione Contenziosa di Palazzo Madama presieduta dal forzista Giacomo Caliendo a cui si erano appellati.

È invece andata malissimo ai loro colleghi eurodeputati, che per ottenere lo stesso risultato hanno trascinato in giudizio il Parlamento europeo. I cui uffici si erano permessi di applicare le regole, comunicando loro una notizia che mai avrebbero voluto ricevere: ossia che pure per i loro cedolini era imminente il ricalcolo e pure l’intenzione di procedere al recupero delle somme che fossero eventualmente indebitamente versate in eccedenza dopo l’entrata in vigore del taglio agli assegni deciso dai due rami del Parlamento nostrano.

Apriti cielo: quelli, gli ex eurodeputati si sono precipitati a chiedere aiuto all’avvocato di Maurizio Paniz che li aveva accolti ben volentieri, avendo già collezionato centinaia di clienti tra i parlamentari desiderosi di fare ricorso per riavere tutto intero il vitalizio erogato da Montecitorio e Palazzo Madama. Nonostante i suoi ottimi uffici, però, resteranno però a bocca asciutta. Perché secondo la sentenza dell’alta Corte europea non sono stati affatto violati i loro diritti: né quello di proprietà, né il legittimo affidamento, né qualsiasi altro argomento che pure invece ha fatto breccia alla corte di Caliendo&C.

Per i giudici europei il taglio deciso in Italia che si è riverberato nei suoi effetti anche sui trattamenti degli eurodeputati ha come obiettivo quello di adeguare l’importo delle pensioni versate a tutti i deputati al sistema di calcolo contributivo. Un obiettivo legittimo, anzi di più.

Perché gli Stati membri “dispongono di un ampio margine discrezionale in sede di adozione di decisioni in materia economica e si trovano nella posizione migliore per definire le misure idonee a realizzare l’obiettivo perseguito”. Ossia risparmio pubblico e austerità “imposti da una grave crisi economica”. E non è tutto.

Hanno anche messo nero su bianco che il taglio agli assegni degli ex onorevoli operativo dal 1° gennaio 2019 non è stato sproporzionato rispetto agli scopi perseguiti. Ché, del resto, tra i ricorrenti nessuno ha neppure provato a dimostrare di essere indigente in modo da avvalersi del diritto all’incremento dell’assegno sforbiciato. Hanno invece provato, senza successo a invocare l’immutabilità delle regole pensionistiche e anche l’intangibilità degli assegni che però in passato sono mutati al ribasso ma pure al rialzo, in applicazione del calo o dell’aumento dell’importo dell’indennità parlamentare.

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No al nuovo San Siro: lo chiede l’antimafia. - Nando dalla Chiesa

 

Che Paese schizofrenico è questo. La scorsa settimana a Vienna la delegazione italiana all’Assemblea delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale ha presentato la “Risoluzione Falcone” per fare recepire in quel consesso i principi di lotta alla criminalità organizzata propugnati dal grande giudice palermitano. Approvazione all’unanimità e gioia, giustificata, del ministro Bonafede. Italia faro della lotta alla mafia. Poi guardi bene e vedi invece che troppe cose, in Italia, vanno in “direzione ostinata e contraria”.

Rappresentanti delle istituzioni impegnati 24 ore su 24 ad abbattere abusivamente il 41-bis. Procure passate per la cura Palamara trasformate in dormitori. E fantasmi di grandi affari che dovrebbero far schizzare le antenne al cielo. Tra i quali ce n’è uno che mi inquieta, quello del nuovo stadio di San Siro a Milano. Un affare che assomiglia al sarchiapone. Per dire, come nella gag di Walter Chiari, che mi appare un terribile animale al solo sentirlo evocare, pur senza averlo mai visto.

Amo San Siro, ho portato stranieri a visitarlo, senza partite in corso. Perché in mezzo secolo di calcio (e che mezzo secolo!) si è guadagnato l’appellativo di “Scala del calcio”. E dubito molto che se si facesse un referendum tra i milanesi i sì al sarchiapone supererebbero il 20 per cento. Certo ci sono interessi enormi che spingono in questa sciagurata direzione. E sappiamo anche bene che le economie arretrate stravedono per il cemento. Campano di quello. Fu così nella Milano che vedeva disfarsi velocemente la sua industria e chiuder bottega le grandi dinastie d’impresa. La moda e il design salvarono il côté urbano, per fortuna. Ma non fu poi casuale se proprio in quel passaggio esplose Tangentopoli.

Oggi però Milano è cambiata. Anche se il Covid incombe, è in salute e ha risorse formidabili nella progettazione, nella comunicazione, nelle scienze mediche, nel turismo, nell’intermediazione di mille cose, nelle università. Ha anche una preziosa risorsa immateriale, sviluppatasi nell’ultimo decennio: il suo spirito pubblico. Senza il quale nulla vale, e con il quale tutto vale di più. Ha preso forma nelle sindacature Pisapia e Sala. Città aperta, solidale, civile, che nella vicenda nazionale ha saputo alla fine da che parte stare. Anche sulla legalità, che è il versante più problematico per il paese (quello di Falcone…). Senza voler fare torto ai due sindaci, anzi dando loro un grande riconoscimento, direi che, al di là di cose non condivisibili, sia stato questo il più grande dono che hanno fatto a Milano. Dono che sarebbe criminoso buttare alle ortiche, basta un attimo. Perciò è fondamentale che nella vicenda San Siro, prima di discutere del sarchiapone, si sappia chi lo tiene al guinzaglio. Sapere cioè chi sono i veri proprietari di Milan e Inter. Cosa che pare difficilissima. Mentre sarebbe per certo la linea Maginot di Falcone, principio assoluto e insuperabile di uno Stato serio: le risorse pubbliche (territorio, spazi, architetture, paesaggio, clima umano) non si possono dare agli sconosciuti, esattamente come i bambini non devono prenderne caramelle. Punto e a capo.

I poteri pubblici non possono trattare con degli enigmi. Il presidente della commissione antimafia comunale, David Gentili, sta cercando da mesi di dare l’allarme. Il sindaco Sala è però incalzato da quei poteri visibili dietro i quali sta il potere invisibile con i suoi capitali. E la mia sensazione personale è che non tutti i suoi assessori lo appoggino e lo sorreggano come sarebbe doveroso in questo tornante infido. Per fortuna, seguendo l’esempio di Pisapia, il sindaco si è dotato della consulenza di un comitato antimafia formato da esperti non lottizzati. I quali, richiesti di un parere, gliel’hanno scritto. Nitido, colto, garbato e perentorio come consentono dottrina e buon senso: non si può.

Si attenga a quel parere. Non passi ora la palla all’Anac, come sento dire che voglia fare. No, sindaco, quel comitato che è un suo fiore all’occhiello vale più dell’Anac di oggi, anche se lavora senza prendere un euro mentre l’altro è pagato profumatamente dagli italiani. Quest’Anac sarà la tomba di tutte le authorities, lo ricordi, mentre il suo comitato è credibile: non ha carneadi politicizzati. L’ha costituito lei, lo ascolti in nome della città e del suo spirito pubblico.

L’economia si riprenderà per altre vie: con il green, che lei stesso caldeggia, con gli investimenti nella sanità, con la cultura cosmopolita, con il commercio multiforme, con le professioni e le università. E poi con il suo capitale civico, stroncando ogni abuso amministrativo, per dare finalmente aria ai giovani talenti della città e a quelli pronti a venire da fuori, nella fioritura di vitalità che esploderà dopo questo Covid maledetto. Così scommettono i primi della classe.

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Clownterapia. - Marco Travaglio

 

Più la seconda ondata peggiora, più si comprende il vero motivo dell’esistenza in vita della destra italiana: tenerci allegri. Fontana, dopo aver sistemato tutta la famiglia (tranne forse la seconda figlia, che bisognerà prima o poi piazzare da qualche parte per un fatto di equità), attende l’ok di Salvini per firmare il ridicolo coprifuoco dopo le 23, come se prima il virus riposasse. Però ha scoperto di poter chiudere territori per emergenza sanitaria in base alla legge 833/ ’78: l’avesse scoperto prima, ci saremmo risparmiati centinaia di morti nella Bergamasca. Gallera, che incredibilmente è ancora assessore e ancora parla, “rivendica” i premi dati ai manager della cosiddetta sanità lombarda che hanno tagliato i posti Covid negli ospedali. Più disastri combina, più rivendica. I contagi raddoppiano nella Regione modello? Lui rivendica: “Situazione meno critica che altrove”. Il Cts lombardo chiedeva il lockdown totale a Milano da venerdì: lui non l’ha fatto manco ieri, però rivendica. E poi ora – udite udite – “riapriremo i reparti alle Fiere di Milano e di Bergamo”. Quello di Bergamo ha 48 posti, ergo quello di Milano dovrebbe averne 152 (senza bagni, ma che sarà mai). Ma il Giornale parla di 53. Strano: a marzo Gallera ne aveva annunciati “600 in sei giorni”. Però rivendica. Intanto il commissario Arcuri attende notizie sui 2900 ventilatori per terapie intensive già comprati ma inutilizzati dalle Regioni. Però Gallera rivendica.
Per completare la clownterapia, mancava giusto il terzo del trio: Bertolaso. Che si rifà vivo per candidarsi un’altra volta a sindaco di Roma. Lo vuole B., o quel che ne resta: “È l’uomo giusto per il Covid”, forse perché l’ha già avuto. Ma allora tanto vale candidare Fabrizio Corona o Paolo Brosio. Sgarbi la prende male: “A questo punto, meglio Zalone”, che però il Covid non l’ha fatto. L’ideale sarebbe se corresse a sindaco della Maddalena, così potrebbe spiegare agli isolani l’utilità del mega-Centro Congressi di cristallo a strapiombo sul mare e di altre opere imperiture costate mezzo miliardo – il doppio dei preventivi – per un G8 mai fatto, perché dirottato in extremis a L’Aquila. Oppure ecco: potrebbe candidarsi a L’Aquila, dove lo ricordano tutti commossi, ma con un lievissimo prurito alle mani. Però non vanno trascurate le messi di voti che assicurerebbe nei paraggi del Salaria Sport Village, specie fra le massaggiatrici brasiliane specializzate in cervicale. E poi garantisce buonumore, merce rara di questi tempi. Già pregustiamo i teleconfronti con Calenda: chiacchiere contro chiacchiere, distintivo contro distintivo. A riprova di una vecchia ma sempre attuale teoria di Paola Taverna: “A Roma c’è un complotto per far vincere la Raggi”.

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Renzi e Calenda emuli di Rossi e Turigliatto. - Antonio Padellaro

 

Ai tempi del Prodi bis, viva sensazione suscitarono le imprese di una coppia di senatori comunisti col botto, Franco Turigliatto (di Rifondazione) e Fernando Rossi (PdCi), i quali a mezzogiorno votavano con la maggioranza mentre all’imbrunire gli manifestavano contro. Finché una mattina del gennaio 2008, i due si svegliarono male e, forse innervositi dal clima rigido o perché ancora appesantiti dalla cena, tagliarono la testa al toro e al governo Prodi. Alla fulgida figura di Turigliatto può oggi essere accostato un senatore più contemporaneo, Matteo Renzi, la cui natura smaniosa e oscillante lo costringe a camminare piroettando per non accoltellarsi alle spalle. L’ex tutto ha infatti incaricato due suoi pseudonimi di Italia Viva (tali D’Alessandro e De Filippo) di partorire l’intergruppo parlamentare “Mes subito”, a cui hanno entusiasticamente aderito, tra gli altri, l’allegro forzista Renato Brunetta (Forza Italia), lo spensierato Maurizio Lupi (uno che s’imbuca sempre dai tempi del liceo), e il pidino Andrea Orlando che passava di lì. Non v’è chi non veda come l’esclusivo scopo dell’intergruppo renziano sia quello di rompere le scatole a Giuseppe Conte, alle prese con problemucci come la pandemia e il tentativo di evitare la catastrofe economica del Paese.

Così ieri, a Palazzo Madama, mentre al piano di sopra il premier si smazzava con il Dpcm d’emergenza, al piano di sotto la combriccola cospirava allegramente per creargli qualche intralcio di troppo. Soltanto che, a differenza del Turigliatto di lotta e di governo, il Matteo double face fa sempre molta attenzione a non tirare troppo la corda perché se la maggioranza di cui fa parte va a casa, lui e Iv a casa rischiano di restarci per sempre. Magari giocando online a Fantapolitica con l’altro 2 per cento targato Azione. Alla domanda su chi potrebbe essere il Fernando Rossi del Turigliatto-Renzi, l’immediata risposta è infatti Carlo Calenda. Entrambi sono già entrati nel climaterio politico che non è molto diverso, nei sintomi, da quello fisiologico, caratterizzato da lunghe e tumultuose crisi smanianti, cui succedono inopinate fasi di stagnazione. Inconvenienti curabili con infusi di magnesio e rodiola, somministrati da Brunetta mentre Lupi si occuperà degli impacchi.

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Salvini tenta il blitz sul “coprifuochino”. Fontana però firma. - Gianni Barbacetto

 

Nel giorno nerissimo in cui Milano si consacra ufficialmente capitale italiana del Covid, la politica mostra tutta la sua incapacità a fronteggiare l’emergenza. Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, ha firmato l’ordinanza che impone il coprifuoco in tutta la regione dalle 23 alle 5, a partire da oggi e fino al 13 novembre 2020; e che chiude le scuole superiori, ma non i bar della movida. Un “coprifuochino”: una misura inadeguata alla gravità della situazione, secondo lo stesso Comitato tecnico scientifico regionale. Eppure il leader della Lega Matteo Salvini ha tentato di frenare anche quel provvedimento così blando. “Voglio capire, a me piace capire le cose”, aveva dichiarato martedì sera, al termine di una riunione con gli altri esponenti del centrodestra lombardo, convocata “per farsi spiegare” le misure in arrivo. “Salvini ha preso per le orecchie Fontana – aveva poi dichiarato il sindaco di Bergamo Giorgio Gori – è una ingerenza insopportabile, quella del leader della Lega, arrabbiato per questa decisione della Regione Lombardia che contraddice le sue precedenti posizioni”. Fontana, incalzato dai numeri angoscianti di ieri, ha infine firmato il “coprifuochino” deciso lunedì, con l’accordo dei sindaci dei capoluoghi lombardi, tra cui Giuseppe Sala e Gori. Impossibile tornare indietro. Ma Salvini ha confermato di avere dubbi sul coprifuoco notturno: “E non li ho soltanto io”. Il senatore leghista Gian Marco Centinaio ha dichiarato: “È un provvedimento senza senso. Non serve”. E ha annunciato che violerà il coprifuoco.

Salvini ha comunque negato ogni “ingerenza” nella decisione lombarda: “Io non mi permetto di intervenire nel lavoro di governatori e sindaci. Semplicemente ho chiesto più coordinazione”. Così la politica si è trovata a difendere con i denti una trincea considerata già arretrata da medici e scienziati, insufficiente a fronteggiare la situazione: il contagio sta avanzando senza freni, soprattutto nell’area metropolitana milanese, che ieri ha registrato 1.858 nuovi contagi, 264 ricoveri, di cui 11 in terapia intensiva, e 20 morti. Il Comitato tecnico scientifico regionale lombardo aveva chiesto almeno la chiusura di tutto già dalle 21 e dei bar dalle 18, ma non è stato ascoltato. Raggiunti i 15 mila casi alla settimana, la misura suggerita dal Cts era quella più radicale: il lockdown. La politica invece non ha avuto il coraggio di prendere misure ritenute impopolari. Così è nato il “coprifuochino” dalle 23, quasi indolore, ma anche davvero quasi inutile, visti i numeri del contagio e la velocità con cui si moltiplica soprattutto a Milano.

Fontana, varata una misura così prudente, ha dovuto comunque subire le rimostranze del capo del suo partito, Salvini. Chissà se, accusato da Gori di subire ingerenze esterne, a Fontana è tornata in mente la definizione che di lui ha dato, intervistato da Report, Nino Caianiello, il ras di Forza Italia arrestato e condannato per concussione: “Attilio Fontana non fa la politica, è un gestore della politica e risponde agli accordi. Attilio Fontana è un front office della politica”. È lo stesso Fontana, del resto, che dopo aver scelto i suoi assessori, nel 2018 dice a Caianiello (intercettato): “Hai visto Ninuzzo? I tuoi consigli per la giunta regionale li ho seguiti quasi tutti. Mi sembra che sia una giunta abbastanza bella”. Tra i “consigli” di Caianiello a Fontana c’erano i nomi di due assessori oggi molto pesanti: Giulio Gallera, al Welfare, che gestisce il budget da 20 miliardi della sanità lombarda e che si è trovato a gestire l’emergenza Coronavirus; e Raffaele Cattaneo, all’Ambiente, che sta gestendo l’approvvigionamento del materiale necessario ad affrontare la pandemia, dalle mascherine ai camici protettivi (compresi quelli arrivati dall’azienda del cognato e della moglie di Fontana).

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