mercoledì 27 gennaio 2021

Crisi, la diretta – Oggi le consultazioni al Colle: si parte da Casellati e Fico. Al Senato nasce gruppo Europeisti, ma è già lite sul simbolo.

 

CRONACA ORA PER ORA - La presidente del Senato è attesa alle 17, subito dopo le celebrazioni per la Giornata della memoria. Poi toccherà al presidente della Camera dei deputati. Le delegazioni dei partiti sono attese a partire da domani: si inizia con il gruppo delle Autonomie e si chiude venerdì alle 17 con il Movimento 5 stelle. Intanto a Palazzo Madama è nato il gruppo Europeisti-Maie-Cd: è guidato da Raffaele Fantetti. Fuori Ciampolillo e Lonardo Mastella.

A poco più di un anno dalle consultazioni che portarono al governo giallorosso, ora dimissionario, cominciano al Quirinale i nuovi colloqui del presidente della Repubblica. Ieri il premier Giuseppe Conte è infatti salito al Colle per rimettere il suo mandato e, come di consueto, resterà in carica solo per il disbrigo degli “affari correnti”. Il conto alla rovescia per tentare di varare un Conte ter, quindi, è ufficialmente partito. Anche se la strada auspicata da Palazzo Chigi, Pd, M5s e Leu è lastricata di insidie: da un lato pesano le diffidenze nei confronti di Matteo Renzi, l’artefice della crisi, e dall’altro le difficoltà nell’allargare il campo della maggioranza, al momento troppo risicato per garantire stabilità a un eventuale nuovo esecutivo senza Italia viva. La prima novità della giornata è la nascita in Senato del gruppo “Europeisti Maie Centro Democratico“, guidato dall’ex forzista Raffaele Fantetti. Potrebbe essere questa la “casa politica” dei costruttori, ma per ora non sposta gli equilibri: ad aderire sono stati 10 senatori che già martedì 19 avevano votato la fiducia a Conte. Rispetto ai nomi già noti, entrano la dem Rojc e Marilotti (Autonomie), mentre si sono chiamati fuori Sandra Lonardo Mastella e Lello Ciampolillo. La palla, ora, è nelle mani di Sergio Mattarella, che tenterà di sbrogliare i nodi che hanno portato alla caduta dell’esecutivo per capire se ci sono margini di ricucitura tra quello che resta della maggioranza giallorossa e i renziani o se Conte ha davvero i numeri in tasca per poter auspicare in un reincarico. Come da prassi, i primi a sfilare al Quirinale sono la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, attesa alle 17, e alle 18 il presidente della Camera dei deputati Roberto Fico. Da domani si partirà con le delegazioni dei partiti.

Il calendario delle consultazioni – Il primo incontro è previsto nel pomeriggio: alle 17 Mattarella vedrà Casellati e Fico. Giovedì alle 10.00 tocca al gruppo per le Autonomie (SVP-PATT, UV). Tra le 10.30-12.30 e le 16.00-16.45 ci saranno poi gli incontri con i rappresentanti dei gruppi Misti del Senato e della Camera dei deputati. Alle 16.45 il capo dello Stato vedrà il gruppo parlamentare “Liberi e Uguali“. Alle 17.30 toccherà invece ai gruppi di Italia Viva – PSI e Italia Viva. Alle 18.30 ci saranno i gruppi parlamentari del Partito Democratico. La mattina del 29 gennaio si svolgerà la Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario della Corte Suprema di Cassazione e le consultazioni seguiranno nel pomeriggio: ore 16.00 Fratelli d’Italia; “Forza Italia – Berlusconi Presidente – UDC” del Senato della Repubblica e “Forza Italia Berlusconi Presidente” della Camera; “Lega – Salvini Premier”; rappresentanti delle componenti “Idea e Cambiamo”. Alle 17.00 chiude il Movimento 5 stelle.

Le condizioni del Quirinale – Quali sono gli scenari? Mentre il centrodestra ostenta compattezza nel chiedere le elezioni al capo dello Stato – anche se Forza Italia non esclude un esecutivo di unità nazionale – Pd, pentastellati e Leu si presenteranno al Colle con il nome di Conte, considerato l’unico punto di equilibrio possibile dell’alleanza. Per poter sperare in un reincarico, però, il Corriere della Sera riferisce che per il Quirinale servono tre condizioni: una maggioranza coesa, un programma definito insieme ai potenziali alleati, numeri in Parlamento che permettano di governare in sicurezza. Italia viva continua a offrire il suo appoggio (“No a veti sui nomi, ma svolta sui contenuti”, dice Maria Elena Boschi al Messaggero), mentre nella serata di ieri il presidente del Consiglio dimissionario ha deciso di rilanciare quell’appello ai responsabili che, solo una settimana fa, aveva fatto a Camera e Senato: “È il momento che emergano in Parlamento le voci che hanno a cuore le sorti della Repubblica“, ha scritto su Facebook. “Le mie dimissioni sono al servizio di questa possibilità: la formazione di un nuovo governo che offra una prospettiva di salvezza nazionale. Serve un’alleanza, nelle forme in cui si potrà diversamente realizzare, di chiara lealtà europeista, in grado di attuare le decisioni che premono”.

Nascono gli Europeisti in Senato, no di Lonardo – Per allargare ulteriormente la platea di costruttori, Conte è poi tornato a rilanciare la carta della legge elettorale proporzionale. Un appello a cui è seguita l’ufficializzazione del gruppo “Europeisti Maie Centro Democratico” a Palazzo Madama, composto da 10 senatori: si tratta dei 5 già iscritti al Maie (il sottosegretario Merlo, De Bonis, Cario, Buccarella e l’ex FI Fantetti), a cui si aggiungono De Falco, gli ex azzurri Causin e Rossi, e le new entry Gianni Marilotti (in arrivo dalle Autonomie) e la dem Tatjana Rojc. Due nomi, questi, che si sono resi necessari per raggiungere la soglia dei 10 senatori prevista dal Regolamento del Senato per la nascita dei nuovi gruppi. A guidare la squadra sarà Fantetti, con Causin vice: smentite le ricostruzioni del Corriere su presunte divisioni per decidere a chi dovesse spettare il ruolo di capogruppo. Si sono chiamati fuori dalla partita, infatti, Lello Ciampolillo e Sandra Lonardo Mastella, su cui avrebbe pesato una lite con Rossi per il simbolo. Entrambi però già martedì scorso avevano votato la fiducia a Conte. “Rimane il mio impegno a sostenere il presidente Conte, ma un nuovo gruppo senza omogeneità politica e con esperienze diversissime non è quello che auspico in vista di un nuovo progetto, quello del ‘Meglio Noi’, cui, con altri all’esterno del Parlamento, stiamo dando vita”, ha dichiarato la senatrice Sandra Lonardo. “I responsabili, singolarmente – spiega – sono stati fondamentali per evitare che si precipitasse nella crisi di sistema, ora, però, occorre ricomporre ed allargare il più possibile senza esclusioni”.

Il pallottoliere – All’appello però, stando ai calcoli fatti dai quotidiani, mancano almeno sette costruttori per garantire la maggioranza assoluta in Senato. I nomi che circolano sono sempre gli stessi, dai tre dell’Udc a una quota di forzisti che sarebbe pronta a entrare in rotta con il partito. Ma nessuno ha ancora fatto un passo: Paola Binetti continua a chiedere un “progetto politico” per arrivare a una maggioranza “giallo-bianca”, il gruppo Cambiamo di Giovanni Toti smentisce qualunque appoggio al governo. Nelle discussioni tra i corridoi del Parlamento aleggiano sempre le divisioni sulla giustizia, come certifica il senatore Luigi Vitali in un’intervista al quotidiano di via Solferino: “Se il nuovo governo cambiasse radicalmente linea sulla giustizia, potrei anche starci“.

CRONACA ORA PER ORA

10.37 – Lonardo Mastella: “Resta sostegno a Conte ma no a gruppo disomogeneo”
“Rimane il mio impegno a sostenere il presidente Conte, ma un nuovo gruppo senza omogeneità politica e con esperienze diversissime non è quello che auspico in vista di un nuovo progetto, quello del ‘Meglio Noi’, cui, con altri all’esterno del Parlamento, stiamo dando vita”. Lo dichiara la senatrice Sandra Lonardo. “Non avevo rifiutato la proposta in sé, ma poi ho scoperto che il gruppo si sarebbe chiamato Maie-Centro democratico con una particolare attenzione quindi a una forza politica esistente come quella di Tabacci. Non ho niente contro di lui e il Cd ma io sono di una componente diversa. A quel punto il progetto non mi convinceva e non ho aderito. Sul nome e le varie anime politiche collegate non si era discusso prima. Ho proposto di togliere il nome Cd tornando solo al Maie o di aggiungere ‘Noi campani’ (lista e associazione politica fondata dal marito Clemente Mastella per sostenere il centrosinistra in Campania, ndr) a cui tengo molto, ma non è stato così. Comunque auguro lunga vita a questo gruppo”. La senatrice ribadisce il proprio sostegno all’attuale maggioranza: “Finché c’è Conte, gli darò la mia fiducia e ora mi auguro che possa mettere da parte le diatribe e che sia lui che Renzi facciano un passo avanti. Anche perché con questo nuovo gruppo non cambia nulla dal punto di vista dei numeri..”.

10.30 – La direzione PD spostata alle 16
La direzione nazionale del Pd è stata spostata alle 16 a causa di votazioni in Parlamento. Lo rende noto l’ufficio stampa del Pd.

10.21 – Marilotti (Europeisti-Maie-Cd): “I numeri arriveranno”
“Ho votato la fiducia il 19 gennaio e ho sempre sostenuto il governo Conte. Quando mi hanno proposto di far parte di questo nuovo gruppo, ho accettato perché ritengo che ora bisogna mettere Conte nelle condizioni di costruire un nuovo governo e rilanciarne l’azione con una maggioranza allargata, anche a Italia viva”. L’ha detto il senatore Gianni Marilotti, uno dei 10 ‘responsabili’ del neogruppo Europeisti-Maie-Cd nato al Senato. “Dal punto di vista dei numeri non cambia nulla, lo so – ha ammesso – ma può essere un inizio per aggregare altri politicamente. Poi i numeri arriveranno”.

10.03 – Mario Giarrusso: “Io nel gruppo Europeisti? Per ora no”
“Se passerò con gli europeisti? Per ora no”. Taglia corto con l’AdnKronos il senatore del Misto, Mario Michele Giarrusso, ex Cinque stelle, tra i nomi più gettonati tra coloro che potrebbero dare sostegno al premier dimissionario Giuseppe Conte, in vista di un Conte ter. Poi Giarrusso spiega che “le novità dovete chiederle al Maie”.

10.01 – Romani (Cambiamo) dopo l’appello di Conte: “Per ora non cambia nulla”
“Per ora mi pare che non cambi nulla, per eventuali novità bisogna aspettare venerdì”. Lo dice all’AdnKronos Paolo Romani, senatore di Cambiamo, rispondendo a una domanda sulla situazione al Senato, dove si riaccende il ‘dialogò con i possibili responsabili, dopo l’appello Facebook, fatto ieri sera dal premier dimissionario, Giuseppe Conte.

9.33 – Amendola ribadisce: “Conte punto di equilibrio”
Una “maggioranza di europeisti” costruita “su punti di equilibrio”: lo ha auspicato ai microfoni di Radio Anch’io il ministro per gli Affari Europei, Vincenzo Amendola, rispondendo a una domanda sul futuro governo. E il Pd, ha sottolineato il ministro, vede “come punto di equilibrio di questa nuova maggioranza larga e solida, con un programma di fine legislatura, il presidente Conte”.

9.26 – Nasce al Senato il gruppo “Europeisti-Maie-Cd”
Nasce al Senato il nuovo Gruppo Europeisti-Maie-Centro democratico. Lo ha annunciato il presidente, Elisabetta Casellati. Ne fanno parte i senatori Buccarella, Cario, Causin, De Bonis, De Falco, Fantetti, Marilotti, Merlo, Rossi, Rojc. Capogruppo sarà Raffaele Fantetti, vice Andrea Causin.

8.32 – Boschi: “No a veti sui nomi, ma svolta sui contenuti”
“Non poniamo pregiudiziali sui nomi, ma chiediamo una svolta sui contenuti”, ha dichiarato la presidente dei deputati di Italia Viva Maria Elena Boschi in un’intervista al Messaggero. “La crisi politica si è aperta ieri, la crisi sanitaria, economica, educativa è aperta da tempo. È tempo di fare un salto di qualità: basta chiacchiere, preoccupiamoci dell’Italia”. Rispetto al confronto con il suo ex partito, “il Pd mi sembra più interessato a parlare di noi che non delle questioni che stiamo ponendo – commenta -. Ho visto attacchi personali contro Renzi e contro i nostri parlamentari sinceramente inspiegabili. Ma questo non è il momento delle polemiche. E devo constatare che chi nel Pd ha passato la prima settimana a mettere veti su di noi oggi chiede il dialogo”. Il punto “non è chi fa il ministro, ma quali idee costituiscono il programma. Capisco che possa sembrare innaturale visto il suk ancora in corso al Senato, ma noi siamo l’unica forza politica che alle poltrone ha rinunciato”. Rispetto alle posizioni diverse di Iv e M5s sulla giustizia, Boschi sottolinea di non avere nulla contro Bonafede (“lo conosco dai tempi dell’università”), “ma che il governo si sia dimesso perché il ministro rischiava la bocciatura in Senato è un dato di fatto. Serve più garantismo e meno giustizialismo”.

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La crisi di governo: come è scoppiata, come se ne esce e perché c’entra ancora la giustizia. - Martina Castigliani, Giuseppe Pipitone

 

Dalla prima minaccia il 7 dicembre al ritiro delle ministre, cronistoria dell'escalation che ha portato allo strappo definitivo. Quali strade si aprono ora per Mattarella e l'esecutivo. E perché per decifrare quello che succede bisogna tenere presenti almeno due nodi: i miliardi in arrivo dall'Europa e le riforme per punire chi vuole appropriarsene indebitamente.

In principio fu una minaccia, pronunciata a inizio dicembre, abbandonando un vertice di maggioranza notturno. Sembrava uno spauracchio per cambiare giusto un po’ gli equilibri, era l’inizio di un’escalation. Sono partiti così quasi due mesi di ricatti quotidiani, interviste h24 a edicole ed emittenti unificate, e persino un intervento gridato in Senato con un leader della maggioranza che ricatta la sua stessa maggioranza. Più che impronte digitali la crisi del governo Conte 2 porta una firma chiara ed evidente. Una soltanto: quella di Matteo Renzi. Il leader di Italia viva ha voluto e ottenuto che la maggioranza saltasse in aria in un momento cruciale per il Paese: il cuore della seconda ondata della pandemia, l’inizio della campagna di vaccinazione contro il Covid, la consegna del Recovery plan a Bruxelles. Così, mentre nel suo discorso di fine anno Sergio Mattarella cercava di indicare il percorso della responsabilità e inaugurava “il tempo dei costruttori“, l’ex premier ha tirato dritto per la sua strada, ignorando ogni tentativo di mediazione, con un unico grande obiettivo: far saltare il banco.

Una mossa da giocatore d’azzardo prestato alla politica che gli italiani, lo dicono i sondaggi, hanno fin da subito ritenuto “incomprensibile” nei modi, nelle ragioni e soprattutto nei tempi. O peggio, il 73% ritiene che Renzi abbia rotto “per interessi personali”. Lo spregiudicato copione del leader di Rignano sull’Arno era abbastanza prevedibile: prima è uscito dalla maggioranza ritirando le sue ministre, poi subito dopo si è offerto per tentare d’iniziare un nuovo dialogo. Una mossa da palazzo di Prima Repubblica compiuta in uno dei momento più delicati della recente storia italiana. Se di governi saltati e legislature interrotte sono pieni gli annali, infatti, nessuno si sarebbe aspettato di vedere scene simili mentre il Paese conta centinaia di morti ogni giorno. “Sgomento” è la parola che è trapelata dal Quirinale nelle ore più calde. Una volta aperta la breccia però, a venire giù è stata tutta l’impalcatura che un anno e mezzo fa era stata montata tra incertezze e diffidenze reciproche. Evocata col pretesto della cabina di regia del Recovery, nutrita con una serie di recriminazioni varie – dalla delega ai servizi al Mes – non è un caso che la crisi sia deflagrata definitivamente non quando Conte si è presentato alla Camere per la fiducia, ma quando in agenda c’era la relazione sulla Giustizia di Alfonso Bonafede. Soldi e riforme: è per questo che è caduto il governo. Cosa succede ora è la domanda che da giorni si fanno tutti: la strada per un Conte ter è molto stretta e rischia di finire in uno scivolo che conduce direttamente al voto anticipato.

Come ci siamo entrati – Comunque la si guardi, la crisi del Conte 2 ha le sembianze della crisi più di “palazzo” possibile. Distante dagli umori e dai bisogni degli elettori, indecifrabile per i più. Volendo ignorare quelli che erano i primi segnali di un anno fa, con i piedi puntati proprio sulla Giustizia (e per la precisione sulla prescrizione), il giorno in cui inizia lo strappo è il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio e vigilia dell’Immacolata. Mentre il Paese si prepara suo malgrado a sacrificare gran parte delle abitudini natalizie a causa del virus, Italia viva abbandona il vertice sul Recovery plan convocato prima del consiglio dei ministri. I renziani non vanno a Palazzo Chigi, mentre il loro leader decide di parlare ai giornali per lanciare la minaccia zero: era pronto a ritirare le ministre senza modifiche al Recovery. Che tipo di modifiche? In sintesi: la spartizione dei fondi e la governance, cioè la gestione dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa. Entrambi i temi, si scoprirà poi, erano stati già discussi prima in Parlamento e poi in una lunga serie di vertici di maggioranza: presenti, ovviamente, ministri e capigruppo di Italia viva. Per Renzi, però, quei temi già affrontati diventano all’improvviso il motivo dirimente per mettere a rischio la maggioranza. Il ricatto lo esplicita in Aula il 9 dicembre: il Recovery plan non va più bene, prima non dicevano sul serio, e va ridiscusso da capo. Iniziano lunghissime mediazioni, ma per l’ex presidente del consiglio non bastano mai. Il 28 dicembre presenta il suo contropiano e lo chiama Ciao. Sono trenta pagine di critiche e tredici di proposte (le abbiamo contate qui): attacca personalmente il premier, l’esecutivo, la maggioranza. Nonostante i toni nel governo si cerca fino all’ultimo di ricucire. Conte, nella conferenza stampa di fine anno, dice per la prima volta un concetto banale e scontato: “Se mancano i numeri andrà in Aula”. Ma “non sfido nessuno”. E intanto invoca una sintesi sul piano. I renziani capiscono l’opposto: “Il premier ci ha sfidati”, dicono a ogni tg, talk show e quotidiano che li intervista.

Il clima è sempre più teso, mentre le preoccupazioni degli italiani sono rivolte soltanto al secondo inverno trascorso in piena emergenza sanitaria. Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica chiede distensione, chiama in causa il senso di responsabilità necessario per affrontare tempi di grave crisi. Mattarella dice che questo è tempo di “costruttori” e che “non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”: ai renziani fischiano le orecchie. Per un attimo sembra possibile che tutti lo ascoltino, ma non è così. Il governo continua a lavorare sul testo del Recovery, Conte fa vari giri di consultazioni e cerca di estenderli a più rappresentanti dei partiti possibile: una delle accuse fatte dai renziani era che non volesse condividere le decisioni, il premier cerca di rimediare. L’11 gennaio il Colle telefona a Renzi: non è accettabile che si rallenti un piano da 200 miliardi per risollevare l’Italia. L’ex premier, almeno di fronte a Mattarella, non se la sente di insistere e assicura che i suoi non voteranno contro. Sembra quasi che la crisi stai rientrando. Ecco allora che il 12 gennaio esce la nuova bozza del Recovery plan: ci sono più soldi alla sanità, agricoltura, infrastrutture e turismo. Cambiamenti chiesti anche da Italia viva. E invece niente: per i renziani non è ancora sufficiente. Il resto è cronaca di un lento precipitare: le ministre renziane si astengono in Consiglio dei ministri, Conte sale al Colle e poi tenta una mediazione definitiva annunciando un patto di legislatura davanti alle telecamere. Ma Renzi ha già deciso, chissà da quando: va in conferenza stampa con Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto e, monopolizzando la scena per oltre un’ora, spiega che loro si chiamano fuori. E’ la mossa che parlamentarizza la crisi. Nei fatti è il tasto del telecomando che fa saltare in aria la maggioranza.

Come si può uscire – Se entrare nella crisi è stato facile, uscirne si preannuncia molto più complesso. Oggi iniziano le consultazioni del presidente della Repubblica: proseguiranno fino a venerdì. Pd, M5s e Leu ribadiranno il sostegno a un nuovo governo Conte. I leader del centrodestra, invece, hanno già fatto sapere che saliranno insieme al Colle: vuol dire che Forza Italia manterrà ufficialmente la stessa posizione di Lega e Fratelli d’Italia, cioè quella per il ritorno alle urne. Ago della bilancia saranno quindi i piccoli partiti: tra Conte e il voto cosa sceglierà Italia viva? E le componenti del gruppo Misto? E nasceranno nuove componenti composte magari da senatori di Forza Italia che temono il ritorno alle urne? E tutti i parlamentari d’Italia viva saranno d’accordo con le decisioni prese dal loro leader? Quando questi interrogativi saranno sciolti, Mattarella avrà essenzialmente tre strade. La prima: se ci fossero i margini di manovra potrebbe conferire un nuovo incarico a Conte per varare un esecutivo con una maggioranza più larga dell’attuale. Da capire se grazie all’arrivo di quei 10/15 senatori responsabili o dopo un riavvicinamento con Italia viva. Al momento sembra favorita la prima ipotesi, anche se i cosiddetti “costruttori” faticano fino a questo momento a palesarsi. Su ritorno di Renzi in maggioranza, invece, pesano interrogativi legati soprattutto alla sua affidabilità: anche se Italia viva non dovesse porre veti su un nuovo incarico a Conte, i 5 stelle e una parte del Pd non sembrano fidarsi della lealtà dell’ex segretario del Pd, vero killer del Conte 2. Mancando i voti dei responsabili ed essendo escluso il ritorno dei renziani in maggioranza, tramonterebbe invece l’ipotesi di una permanenza a palazzo Chigi dell’attuale inquilino.

A quel punto si aprirebbero altri scenari: dal cambio di premier con una coalizione allargata a Italia viva (ma i 5 stelle dovrebbero essere d’accordo), a una eventuale nuova maggioranza di governo. Si discute di un esecutivo sostenuto dalla cosiddetta “maggioranza Ursula“, di uno di larghe intese o di unità nazionale. Tutte formule alchemiche che Mattarella dovrà vagliare solo dopo un giro completo di consultazioni. Se dunque non dovesse affidare un nuovo incarico a Conte, potrebbe optare per un mandato esplorativo a un personaggio diverso dall’attuale presidente del consiglio. Se invece non dovesse esserci la possibilità di risolvere la crisi il capo dello Stato sarà costretto a imboccare la strada che porta alle inevitabili elezioni anticipate. In quest’ultimo caso Mattarella dovrà decidere se mandare gli italiani alle urne a strettissimo giro, sciogliendo subito le Camere (le elezioni vanno fissate entro 70 giorni). Oppure se temporeggiare per aspettare che cali l’impatto dell’epidemia: e quindi nominare un “governo elettorale” senza maggioranza che traghetti il Paese verso il voto, che sarebbe presumibilmente fissato la prima domenica di giugno. A fine luglio, infatti, comincia il semestre bianco, ovvero i sei mesi che precedono l’elezione del nuovo capo dello Stato e durante i quali non possono essere sciolte le Camere. Proprio il nodo elezione del Quirinale è centrale in queste ore: il ritorno al voto con il Rosatellumstando agli ultimi sondaggi, consegnerebbe la vittoria nelle mani del centrodestra. E quindi poi avrebbe il centrodestra i numeri per eleggere il nuovo capo dello Stato.

Perché il governo è caduto sulla Giustizia – Come era già accaduto col precedente esecutivo – quello sostenuto da Lega e M5s – anche questa volta Conte ha cominciato ad avere problemi non appena il capitolo giustizia è entrato nell’agenda dei lavori parlamentari. Nell’estate del 2019 Matteo Salvini decise di rompere l’alleanza con i 5 stelle per scongiurare – tra le altre cose – l’odiata riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Contenuta nel ddl Spazzacorrotti, la legge è poi entrata in vigore nel gennaio del 2020, ma ha animato feroci guerre intestine anche durante il governo Conte 2. Molti retroscena suggeriscono come Renzi avrebbe voluto fare cadere il governo già nell’inverno scorso proprio per boicottare la riforma di Bonafede. E infatti più volte Italia viva aveva votato col centrodestra in commissione. Alla fine, dopo una serie di lunghissimi vertici notturni, la maggioranza aveva trovato la quadra con il cosiddetto “lodo Conte“: una mediazione che inseriva due meccanismi diversi della prescrizione a seconda che gli imputati siano stati condannati o assolti alla fine del processo di primo grado. Quella norma è arrivata insieme a tutta la riforma del processo penale sul tavolo della commissione nell’agosto scorso. A dicembre sarebbe scaduto il termine per produrre emendamenti ma i renziani, spalleggiati dall’opposizione, hanno chiesto più tempo: il nuovo termine è stato fissato per il primo giorno di febbraio. Nel frattempo, però, è caduto il governo.

Sette giorni dopo aver incassato la fiducia alle Camere, infatti, la maggioranza rischiava seriamente di andare sotto – almeno al Senato – sulla relazione Bonafede. È per questo che Conte si è dimesso: per evitare di essere sfiduciato in Parlamento. Come ogni anno il guardasigilli avrebbe dovuto comunicare alle Camere quanto fatto nel 2020, quando al governo c’era pure Italia viva. E quindi la riforma sul processo penale e penale, quella della prescrizione col “lodo Conte” e quella su Csm: tutte leggi attualmente bloccate in commissione. Il guardasigilli, però, avrebbe anche riassunto le linee guida per il 2021. Vuol dire essenzialmente quanto è contenuto nel Recovery plan, che stanzia quasi 3 miliardi di euro proprio per la giustizia. Soldi che serviranno soprattutto – 2,3 miliardi – per assumere magistrati, cancellieri, dipendenti che fanno parte del personale tecnico. In totale si tratta di 16mila persone che avranno come obiettivo quello di eliminare l’arretrato che grava sui giudici, velocizzando i processi. Soldi e giustizia, miliardi e riforme per punire chi vuole appropriarsene indebitamente: è su questo che è caduto il governo. Di nuovo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/27/la-crisi-di-governo-come-e-scoppiata-come-se-ne-esce-e-perche-centra-ancora-la-giustizia/6078671/

Giustizia gratta e vinci. - Marco Travaglio

 

Le “rivelazioni” dell’ex pm Luca Palamara nel libro-intervista con Alessandro Sallusti, al netto delle balle, possono stupire tutti, fuorché i lettori del Fatto. Che dalle nostre cronache hanno potuto seguire passo passo, non fuori tempo massimo, la sistematica demolizione di tutti i pm non allineati al sistema per mano delle cosche correntizie e dei loro mandanti politico-istituzionali: Scarpinato, Ingroia, Di Matteo, De Magistris, Nuzzi, Apicella, Verasani, Forleo, Woodcock, Robledo, De Pasquale, Esposito e altri, fino alla defenestrazione di Davigo dal Csm. È la stessa logica delinquenziale che in questi giorni orienta la congiura per cacciare Conte e riconsegnare il Paese ai soliti ladri con la benedizione dei loro giornaloni. La magistratura di Mani Pulite e della Primavera di Palermo è diventata un’altra cosa: non più l’istituzione sana rappresentata dai Borrelli, i Caselli, i D’Ambrosio, i Maddalena, i Guariniello che oscuravano poche mele marce; ma un’entità indistinta dominata da burocrati, carrieristi, correntisti, menefreghisti, in cui si annidano pochi magistrati che si ostinano a compiere il proprio dovere a proprio rischio e pericolo. Le indagini non fatte o mal fatte superano di gran lunga quelle svolte a regola d’arte, molte sentenze sembrano terni al lotto e la giustizia – con le dovute eccezioni – si riduce a gratta e vinci. Le “riforme” e i “moniti” finalizzati a non disturbare i manovratori, sono riusciti là dove la guerra di B. aveva fallito: a “mettere in ginocchio i magistrati” (Davigo dixit) come negli anni 50, 60 e 70, quando la giustizia era forte coi deboli e debole coi forti.

Oggi è prevista la sentenza del processo a Chiara Appendino, una delle sindache più oneste e perbene mai viste. Risponde di omicidio e lesioni colpose per la tragedia di piazza San Carlo del 3 giugno 2017, quando – durante la proiezione sul maxischermo della finale di Champions Juventus-Real Madrid – due donne morirono e 1500 persone furono ferite nel fuggifuggi scatenato da una banda di rapinatori armati di spray al peperoncino, scambiati per terroristi bombaroli. La più classica delle disgrazie imprevedibili e inevitabili, come può testimoniare il sottoscritto, che accorse in piazza a recuperare sua figlia ferita. Molti dei feriti, fra cui lei, erano caduti nella calca su un tappeto di vetri rotti, cioè di bottiglie di birra che incredibilmente la polizia aveva consentito venissero vendute da abusivi nella zona transennata. Soltanto in seguito si scoprì la banda dello spray urticante che aveva scatenato il panico, i cui membri sono già stati condannati per omicidio preterintenzionale. Resta da capire che senso abbia ormai il processo alla sindaca.

E che avrebbe potuto fare la Appendino per evitare l’accaduto se non, col senno di poi, vietare la manifestazione? Cosa che ovviamente non le venne in mente di fare, non potendo prevedere l’imprevedibile. La stessa piazza era stata concessa ai tifosi l’anno prima per la finale Juve-Barcellona dall’allora sindaco Piero Fassino pochi mesi dopo le stragi Isis a Parigi, e con gli stessi protocolli di sicurezza. Eppure oggi l’Appendino rischia 1 anno e 8 mesi (tanti ne ha chiesti il pm), che andrebbero ad aggiungersi ai 6 mesi per falso rimediati a ottobre in un altro processo kafkiano: quello sul “caso Ream”. Breve riepilogo: nel 2012 la giunta Fassino contrae uno strano debito con la società Ream, che versa al Comune una caparra di 5 milioni per avere il diritto di prelazione su un’area destinata a centro congressi. Nel 2013 il progetto viene aggiudicato a un’altra società, anche perché incredibilmente Ream ha versato la caparra senza partecipare alla gara. E i 5 milioni vanno restituiti. Ma la giunta Fassino non paga. E, ai solleciti di Ream, risponde che ridarà i soldi solo quando il vincitore della gara avrà la concessione e il Tar avrà sentenziato sul ricorso di una ditta esclusa. Nel 2016 arriva la Appendino e, trovando le casse vuote, tratta con Ream per rinviare la restituzione dei 5 milioni, che intanto restano fuori bilancio, tantopiù che l’affare è sempre fermo al Tar. Ma i capigruppo di opposizione, il leghista Morano e il pd Lorusso (compagno di chi ha contratto e non saldato il debito), la denunciano.

L’Appendino viene indagata per due abusi e due falsi (sui bilanci 2016 e 2017), ma rivendica la scelta, stanti le trattative con Ream per rinviare il pagamento: tant’è che poi ottiene di effettuarlo nel 2018 e iscrive il debito nel bilancio di quell’anno, col via libera della Corte dei Conti. La Procura però, malgrado il centro congressi sia rimasto bloccato al Tar fino all’autunno 2020, sostiene che l’aggiudicazione si fosse perfezionata già quattro anni prima, dunque la caparra andasse iscritta a bilancio e restituita nel 2016. Alla fine il gup, con rito abbreviato, condanna la sindaca, sia pure solo per il falso del 2016: 6 mesi per aver favorito il suo Comune iscrivendo un debito atipico nel bilancio 2018 anziché 2016. Nelle motivazioni, a tratti esilaranti, si legge che il dolo che fa dell’errore un reato è dimostrato anche dagli esposti di Lorusso e Morano (nel frattempo condannato in appello a 2 anni e 4 mesi per induzione indebita): cioè degli oppositori della sindaca. L’altroieri, con comodo, la Procura ha indagato Fassino per turbativa d’asta sulla folle caparra del 2012. Tanto è tutto prescritto. A questo punto, spiace dirlo, ma è sempre più arduo distinguere la giustizia dalla burla.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/27/giustizia-gratta-e-vinci/6079517/

SCUSACI GIUSEPPE, NOI SIAMO ABITUATI AD ALTRO... - Marco Cristi

 

Caro Presidente Conte, ci scusi. Noi non siamo abituati alle persone perbene che fanno i politici, noi non siamo abituati alla diplomazia, all'eleganza, noi non siamo abituati a chi va in Europa e porta risultati che non hanno precedenti e che viene riconosciuto dai colleghi una persona seria. ..
Noi siamo abituati a presidenti che dopo aver svenduto l'Alitalia agli arabi, si sono dovuti accollare un bidone da 168 milioni di euro che sta marcendo a Ciampino perchè non ci sono hangar che lo possano custodire. Noi siamo abituati a presidenti che la sera, per sciogliere lo stress, organizzavano "cene eleganti" con mignotte e menestrello al seguito e che hanno lasciato il loro incarico con 575 punti spread e asserendo che "i ristoranti e gli aerei erano pieni" e, contemporaneamente, abbiamo dovuto prendere un tagliatore di teste per evitare il default.
Noi siamo il popolo del "Papeete", che incoraggia il Ministro dell'interno a ballare con la testa nelle tette delle ragazze, che fa il DJ sorseggiando un mojito . Noi siamo abituati a politici che asserivano che Ruby rubacuori era la nipote di MubaraK . Noi siamo abituati alle igieniste dentali che dopo aver fatto i "cioppini" al presidente del consiglio diventano consigliere Regionale e, stessa sorte, è toccato al figlio rincoglionito dell' ex leader del carroccio. Noi siamo abituati ad avere in parlamento gente come Razzi e Scilipoti, alle sgallettate siliconate di Forza Italia. Noi siamo abituati a gente che ha messo in condizione la Senatrice Segre ad avere la scorta!
Noi siamo abituati a gente che ha distrutto la sinistra di Berlinguer, il centro di Moro e la destra di Almirante .
Lascia stare Giuseppe, ritorna ad insegnare e a fare l'avvocato, questo paese ormai è senza speranza per la vergognosa e inaccettabile ignoranza di parte del suo elettorato .
Vediamo oggi cosa accadrà, in tutti i casi, per quanto mi riguarda, in questi pochi mesi sono stato orgoglioso di essere stato rappresentato da Lei come Presidente.
Comunque vada, grazie di tutto.

Fb - Marco Cristi

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martedì 26 gennaio 2021

Grazie, Presidente.

 

Presidente,
averti come rappresentante del mio paese in giro per il mondo, mi ha restituito l'orgoglio che non provavo più da tempo immemorabile.
Sei stato l'espressione della politica intesa come arte di governare.
Hai saputo affrontare il periodo tremendo che stiamo attraversando con capacità, consapevolezza, responsabilità, infondendo, allo stesso tempo, la tranquillità di sentirsi, finalmente, nelle mani giuste.
Grazie, presidente, sei stato una gradevole esperienza.
Durata poco, troppo poco.
A presto, spero.

cetta

Oggi il premier si dimette: tentato dalle urne, ma proverà il Conte III. - Luca De Carolis

 

La scelta - Al Senato mancano i numeri per “salvare” Bonafede: l’ultimo tentativo per “rifare” i giallorosa.

Niente sfida in aula, niente partita all’ultimo voto. Ma le dimissioni, questa mattina, e poi le consultazioni al Quirinale, da domani pomeriggio. Una scommessa, una strada piena di rischi eppure obbligata, per provare a risorgere dalla terza crisi in tre anni: ancora a Palazzo Chigi, ancora da presidente del Consiglio. Con un Conte ter, con dentro perfino l’avversario, Matteo Renzi. Ma questa volta solo come uno dei tanti leader, non più decisivo, non più in grado di tenere in ostaggio la maggioranza. In un lunedì mattina romano di pioggia e brutti segnali, Giuseppe Conte prende atto di non poter più andare avanti. “I numeri per reggere in Senato non ci sono”, gli hanno appena detto gli sherpa del Movimento. Non ci sono abbastanza voti per salvare il Guardasigilli Alfonso Bonafede nell’ordalia prevista tra mercoledì e giovedì, cioè nella votazione sulla sua relazione sulla giustizia.

Italia Viva, la creatura di Renzi, è ferma sul no, e anche tanti possibili Responsabili hanno fatto sapere che una mano proprio non potranno darla, se in gioco ci sarà la testa del ministro della Spazzacorrotti e della riforma della prescrizione. “Non posso mandare Alfonso al macello”, riflette Conte con i suoi collaboratori, mentre le agenzie di stampa raccontano del dem Goffredo Bettini che improvvisamente tende la mano a Renzi e perfino tra i 5Stelle affiorano altri nostalgici del fu rottamatore. I numeri e i segnali dei partiti mettono l’avvocato di fronte alla realtà. Se cade Bonafede, addio governo. Ma senza i nuovi gruppi centristi e senza numeri solidi, per sopravvivere non possono bastare promesse generiche e un rimpasto chirurgico, magari scorporando qualche ministero. E allora, che fare? Il Pd gli indica la strada, un Conte ter con una maggioranza più larga. Con Renzi di nuovo dentro, ma normalizzato dai gruppi centristi che con un nuovo governo potrebbero prendere. È tutto un condizionale, “ma non c’è altra via” teorizzano i dem. L’avvocato però non è convinto. E per ore accarezza un’altra idea: dimettersi, sì, ma per andare alle urne in primavera da candidato premier dei giallorosa.

Puntare sulla sua popolarità ancora alta nei sondaggi, e liberarsi di Renzi. Ci pensa seriamente il premier, e ne discute con lo staff e i ministri più vicini. Ma il cerchio contiano si divide. “Non ci seguiranno, il voto non lo vuole nessuno” gli obiettano. Non il Quirinale, non certo i grillini fragili come non mai, e neppure il Pd che pure lo ha agitato fino a poche ore prima come minaccia anche per prendersi qualche renziano. Conte ascolta, riflette, telefona. E con il passare delle ore cambia idea, capisce che rischierebbe di ritrovarsi solo. Così accetta di andare a vedere il gioco, allargando la maggioranza. “Vediamo chi ci sta, ma Renzi non dovrà più essere centrale” è il senso dei suoi ragionamenti.

Servono numeri ampi, “per un’alleanza europeista”, come aveva scandito la scorsa settimana in occasione delle votazioni di fiducia. Ma Conte sa che non sarà una passeggiata. “Giuseppe nelle consultazioni rischia grosso” lo dicono in tanti tra i grillini. Convinti che Renzi non resisterà alla tentazione di dare il morso dello scorpione, ossia di fare un altro nome al Quirinale. “E poi i Responsabili, terranno? Chi può dirlo?”. Non può garantirlo neppure Conte, nella sera in cui nella Roma dei Palazzi circolano nomi per sostituirlo. E il più gettonato è quello di Di Maio. Terrebbe (quasi) unito il M5S e piacerebbe anche a Renzi. E a diversi dem non dispiace. Persone vicine al ministro degli Esteri negano: “Sono solo polpette avvelenate”. Ma tra i grillini se ne parla, parecchio. Invece altre fonti fanno il nome di Luciana Lamorgese, la ministra dell’Interno cara al Colle. Perché anche questa è una tesi diffusa, nei partiti: “Sarà stallo e alla fine sarà il Quirinale a dover trovare un nome”. Nell’attesa i giallorosa provano a reggere su Conte, “ma con soluzioni di chiarezza e non per vivacchiare” scandisce Federico Fornaro (LeU). La certezza è che stamattina Conte riunirà il Consiglio dei ministri per spiegare la sua scelta e poi salirà al Colle. “Un modo per condividere e per non sembrare solo in un passaggio così delicato”, spiegano. Dal Nazareno aspettano. E sussurrano: “Noi siamo sempre stati leali con Conte, certi grillini magari no…”. Segnali, da crisi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/26/oggi-il-premier-si-dimette-tentato-dalle-urne-ma-provera-il-conte-iii/6078144/

Conte alla rovescia. - Marco Travaglio

 

Alla fine ci sono quasi riusciti. I poteri marci, con giornaloni e onorevoli burattini al seguito, non potevano perdere l’ultima occasione di mettere le zampe sui 209 miliardi del Recovery Fund piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome. Subito, con le larghe intese. O dopo le elezioni, che dovrebbero regalare Parlamento, governo, Quirinale e Costituzione alla cosiddetta destra, cioè agli stessi che hanno appena spedito la Lombardia in zona rossa perché ignorano la tabellina del 2. Gli italiani che attendono notizie sui vaccini, i ristori, il Recovery Plan e si ritrovano una crisi di governo assistono a questo spettacolo con un misto di sgomento e disgusto. Avevano appena ritrovato un po’ di fiducia nelle istituzioni per la partenza a razzo della campagna vaccinale e i contagi in calo qui e in aumento all’estero. Erano financo disposti a perdonare i trasformismi dei responsabili pur di neutralizzare i trasformismi degli irresponsabili. Ma il caso ha voluto che la risicata fiducia in Senato fosse seguita a stretto giro dalla relazione di Bonafede sulla giustizia: il marrano minaccia addirittura di impiegare 2,75 miliardi di Recovery per rendere più rapidi i processi e più capienti le carceri e, quel che è peggio, senza ripristinare la prescrizione. Una tripla minaccia a mano armata per chi vuole rubare in pace. Infatti alcuni che martedì avevano dato la fiducia al governo han subito precisato che una giustizia efficiente ed equa non la voteranno mai. Anche la crisi del Conte-1, per mano dell’altro Matteo, era scattata sulle due ragioni sociali del partito trasversale del marciume: affari (il Tav) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Ora la scena si ripete: affari (Recovery senza Conte e 5Stelle fra i piedi, né cabine di regia a controllare sprechi e mazzette) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Completa il quadro la candidatura di B. al Quirinale per bocca di Salvini. E in un sol giorno tutti i nodi vengono al pettine: nella crisi più demenziale e delinquenziale del mondo, tutto è possibile. Anche l’avverarsi delle barzellette più fantasiose: tipo un capo dello Stato pregiudicato, plurimputato, indagato per strage.

Oggi sapremo se i poteri marci faranno cappotto o verranno fermati in extremis. Basterebbe pochissimo, cioè che 5Stelle e Pd restassero fermi in blocco sulla linea decisa e ripetuta per dieci giorni: porte chiuse a chi ha scatenato la crisi, nessun altro governo, o Conte o elezioni. A quel punto i renziani che ancora credono al loro capo (accade anche questo) capirebbero che Iv ha chiuso e le urne sono dietro l’angolo. E magari si ricorderebbero chi li ha votati. Oppure andremmo alle elezioni e potremmo persino avere una lieta sorpresa.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/26/conte-alla-rovescia-2/6078143/