mercoledì 10 febbraio 2021

Rousseau, memento Monti. - Marco Travaglio

 

Se anche gl’iscritti 5Stelle gli diranno sì, Mario Draghi avrà la fiducia più larga della storia repubblicana: 596 deputati su 629 e 302 senatori su 321. Gli voterebbero contro soltanto i 33 deputati e i 17 senatori FdI (e meno male che c’è la Meloni: i governi senza opposizione esistono solo nelle dittature). Un record bulgaro che straccerebbe quello dell’altro SuperMario, Monti, “fiduciato” 10 anni fa con 556 voti alla Camera e 281 al Senato (contrari solo i 59+25 leghisti, a cui s’aggiunsero ben presto i 21+12 dipietristi di Idv, che avevano votato solo la prima fiducia per poi passare all’opposizione).

Monti per tre mesi fece il bello e il cattivo tempo sull’onda di un’emergenza drammatica: lo sfascio economico-finanziario in cui il governo B.-3 ci aveva precipitati. Poi, dinanzi alle scelte impopolari di massacro sociale dettate dalla lettera della Bce di Trichet & Draghi, che fecero pagare ai pensionati e ai lavoratori l’intero costo della crisi, la luna di miele finì e iniziarono i distinguo dei partiti.

B., capo di quello di maggioranza relativa, iniziò a fare il capo dell’opposizione con la grancassa dei suoi media: Monti passò dal consenso al dissenso e fu persino costretto a sloggiare anzitempo. Tentò di vendicarsi fondando Scelta Civica con Fini e Casini, ma nel 2013 prese poco più dei voti degli alleati Fli e Udc. Gli elettori punirono duramente anche i due azionisti principali del suo governo, FI e Pd, che persero 6,5 e 3,5 milioni di voti, regalando il 25,5% ai debuttanti 5Stelle.

Ora, Draghi non è Monti e l’Italia del 2021 non è quella del 2011: grazie a Conte e ai presunti “incompetenti”, lo Stato non ha problemi di cassa, anzi sta per incamerare 250 miliardi dall’Ue tra Recovery e fondi di coesione, non appena presenterà quel Plan che sarebbe già pronto se l’Innominabile non l’avesse preso in ostaggio dal 5 dicembre. E le altre emergenze sono avviate a soluzione da Conte e dai presunti “incompetenti”, con una gestione della pandemia e una campagna vaccinale tra le più efficaci d’Europa. Ma i frutti di quella cascata di soldi si vedranno tra qualche anno, quando anche Draghi sarà passato (forse al Colle).

Il suo governo, però, è molto simile a quello di Monti perché tiene tutti dentro. Il che oggi è un elemento di forza. Ma, quando cambieranno i sondaggi e finirà la luna di miele coi partiti, sarà un fattore di debolezza. A meno che qualcuno non creda davvero che il M5S della Spazzacorrotti, delle manette agli evasori, della legge sul voto di scambio politico-mafioso e della blocca-prescrizione possa convivere amabilmente per due anni con un corruttore seriale, pregiudicato per frode fiscale, nove volte prescritto per gravi reati, amico e finanziatore dei mafiosi.

O che Salvini si sia convertito all’europeismo, alla progressività fiscale e all’accoglienza. O che Pd e LeU abbiano archiviato per sempre le differenze destra-sinistra. Più si avvicineranno le elezioni, più ciascun partito riscoprirà le differenze dagli altri, non foss’altro che per trovare qualcosa da dire agli eventuali elettori. Ai quali ciascuno dovrà presentare i propri successi degli ultimi mesi, se ne avrà ottenuti. E sarà un guaio soprattutto per il M5S che, avendo il gruppo parlamentare più ampio e gli elettori più esigenti, avrà suscitato le maggiori aspettative. Nel Conte-1 aveva 9 ministri (più il premier) contro 8 leghisti e 3 indipendenti. Nel Conte-2, 11 ministri (più il premier) contro 9 del Pd, 1 di LeU e 2 indipendenti. Infatti è sua la gran parte delle leggi di questi tre anni. Ma con Draghi, a quel che si dice, avrà 3 o 4 ministri su 20 o più. E nessuno sa ancora quali.

Cosa potrà mai ottenere o mantenere? Che senso ha il mantra del “restare dentro per controllare meglio”? Certo, se strappasse ai vecchi e nuovi alleati Giustizia, Lavoro, Ambiente-Sviluppo e Istruzione con l’impegno scritto, in un contratto di governo, di non toccare le loro leggi-bandiera, sedersi a quel tavolo sarebbe giusto, anzi doveroso. Ma non è aria: tra qualche giorno, salvo miracoli, l’ammucchiata degli altri partiti riesumerà la prescrizione con un emendamento al Milleproroghe.

I numeri in Parlamento e nel governo sono contro i 5Stelle. I media esultano come un sol uomo per la “fine dell’incompetenza”, cioè per la loro fine, preferendo di gran lunga la competenza dei criminali e dei loro compari (nessuno scandalo per la presenza alle consultazioni di B. e del tappetino di Bin Salman). Che senso ha piazzare qualche ministro, magari nei posti sbagliati, per poi assistere impotenti ai nuovi e vecchi alleati che giocano a bowling con le loro conquiste? Se proprio non si vuole dire di no al governo Draghi, cioè a Mattarella che l’ha imposto con la manovra a tutti nota, nulla impone di dire sì, per giunta al buio (a meno che il voto su Rousseau non sia un concorso di bellezza: “Vi piace Draghi?”). Si possono dettare condizioni sui temi del M5S. E, se vengono respinte, ci si può astenere per avere le mani libere e votare di volta in volta su ciascun provvedimento.

Per questo il quesito deve prevedere “fiducia” e “sfiducia”, ma anche “astensione”. Se prevarrà la berlingueriana “non sfiducia”, il governo Draghi diventerà pienamente “politico”, perché dovrà scegliere ogni giorno se dipendere dalla Lega o dal partito di maggioranza relativa. E si vedrà anche se la futura coalizione giallorosa M5S-Pd-Leu intorno a Conte esiste ancora, o è soltanto un pezzo di antiquariato o un’esca per gonzi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/10/memento-monti/6096012/

Berlusconi alle consultazioni con Draghi ma mai in udienza. Negli ultimi 5 mesi chiesti 8 rinvii per motivi di salute in 4 processi.

 

Finiti i tempi dei lodi (più o meno costituzionali) e i problemi causati dall'uveite l'ex Cavaliere - che nel corso degli anni è riuscito a incassare otto prescrizioni - negli ultimi tempi dopo essere stato colpito dal Covid, da cui è guarito, ha accusato problemi cardiaci.

In aula mai negli ultimi cinque mesi, ma alle consultazioni presente con annuncio last minute. I legali di Silvio Berlusconi, che oggi a Roma è apparso molto stanco e affaticato, da settembre e fino al mese scorso hanno chiesto e ottenuto, in diverse occasioni (otto per la precisione) il rinvio delle udienze dei processi in cui è imputato l’ex premier – a Bari per il caso escort e a MilanoRoma e Siena per corruzione in atti giudiziari per l’affaire Ruby – per motivi di salute. Il leader di Forza Italia, 84 anni, era impossibilitato a essere presente, secondo gli avvocati, e come suo diritto ha chiesto e ottenuto slittamenti anche molto lunghi. Finiti i tempi dei lodi (più o meno costituzionali) e i problemi causati dall’uveite l’ex Cavaliere – che nel corso degli anni è riuscito a incassare otto prescrizioni – negli ultimi tempi dopo essere stato colpito dal Covid, da cui è guarito, ha accusato problemi cardiaci. A Milano per esempio negli ultimi mesi sono state celebrate solo due udienze.

I RINVII PER IL PROCESSO OLGETTINE A MILANO – La prima istanza per legittimo impedimento, con data 23 settembre, riguardava l’udienza del 28. Istanza accolta proprio perché Berlusconi risultava ancora positivo a coronavirus. L’ex premier era stato dimesso il 14 settembre dopo undici notti di ricovero. Il collegio, presieduto da Marco Tremolada, aveva rinviato al 19 ottobre. Il processo vede imputati Berlusconi e altre 28 persone, tra cui molte olgettine che avrebbero testimoniato il falso nei due processi sul caso Ruby in cambio di soldi e altre utilità, secondo l’accusa, da parte dell’ex premier. Il processo è nella fase dell’istruttoria testimoniale e sono stati già sentiti in questi mesi numerosi testi chiamati a deporre dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Luca Gaglio. E lì è rimasto perché da allora ci sono stati diversi rinvii. Il 19 ottobre il tribunale ha accolto la richiesta e ha aggiornato l’udienza al prossimo 16 novembre nell’aula della Fiera al Portello.

L’avvocato dell’ex premier, Federico Cecconi, in quell’occasione ha presentato documentazione medica per attestare che le condizioni di salute del Cavaliere, oramai 84enne, non consentivano ancora la ripresa della vita ordinaria e quindi anche di recarsi al Palazzo di Giustizia. In quell’occasione il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano aveva chiesto di fare un punto della situazione per concludere la fase dei testimoni e ricordando che Berlusconi “non si è mai presentato”. Anche l’udienza del 16 novembre è saltata – per motivi di salute di un giudice – e riprogrammata al 30 novembre. In quella data la difesa ha presentato una documentazione con l’aggravamento delle condizioni ma non ha chiesto un rinvio. Rinvio deciso per far notificare all’ex premier e a Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli una modifica di alcuni capi di imputazione. L’udienza del 21 dicembre invece era stata rinviata al 27 gennaio, su richiesta della difesa, perché non erano trascorsi i 20 giorni previsti per legge per la notifica. Il 27 gennaio la difesa ha presentato documentazione medica perché Berlusconi necessitava di un “periodo di riposo domiciliare assoluto per 15 giorni dal 19 gennaio” senza chiedere rinvio. Prossima udienza fissata per il 24 marzo.

PROCESSO MARIANI A SIENA – Rinviato sul liminare della camera di consiglio anche il processo che vede l’ex premier imputato a Siena sempre per corruzione in atti giudiziari. Il primo rinvio era stato il 1 ottobre deciso per il 25 novembre. Il giudice Ottavio Mosti aveva accolto l’istanza. Per avere un’idea della dilatazione dei tempi basti pensare che il pm Valentina Magnini aveva chiesto una condanna a 4 anni e 2 mesi il 20 febbraio 2020. All’imputato a cui viene contestato di aver pagato il pianista senese di Arcore, Danilo Mariani, a sua volta imputato, per indurlo a falsa testimonianza. Il processo è stato rinviato ancora il 15 gennaio sempre per problemi di salute. Berlusconi, che avrebbe dovuto fare dichiarazioni spontanee, ha fatto depositare una memoria scritta ai suoi difensori in cui si dichiara innocente. L’ex premier era stato ricoverato su consiglio del medico personale, il professor Alberto Zangrillo, centro Cardiotoracico di Monaco. La data che dovrebbe portare a sentenza il dibattimento è stata fissata all’8 aprile.

PROCESSO APICELLA A ROMA – È slittato da dicembre 2020 a maggio 2021 invece il dibattimento in cui Berlusconi è imputato con il cantate Mariano Apicella per la presunta corruzione per indurlo alla falsa testimonianza sulle feste avvenute ad Arcore. A determinare anche in questo caso il rinvio dell’udienza le precarie condizioni di salute. I giudici della seconda sezione penale hanno accolto la richiesta di legittimo impedimento avanzata dal difensore di Berlusconi, l‘avvocato Franco Coppi. “Dalle cartelle cliniche presentate emergano seri problemi cardiologici”. Cuore del processo il presunto versamento di circa 157mila euro.

PROCESSO ESCORT A BARI – Anche questo processo è stato rinviato per motivi di salute di Silvio Berlusconi. In questo caso al 30 aprile. L’ex presidente del Consiglio dei ministri è imputato per induzione a mentire, con l’accusa cioè di aver pagato le bugie dette dall’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini nelle indagini sulle escort. La difesa di Berlusconi, con gli avvocati Francesco Paolo Sisto e Niccolò Ghedini, ha sempre sostenuto che l’ex premier aiutò Tarantini in un momento di difficoltà ma mai lo pagò perché mentisse ai magistrati. In questo giudizio si è costituita parte civile la Presidenza del Consiglio dei Ministri per il danno d’immagine causato al Governo italiano.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/09/berlusconi-alle-consultazioni-con-draghi-ma-mai-in-udienza-negli-ultimi-5-mesi-chiesti-8-rinvii-per-motivi-di-salute-in-4-processi/6095716/?utm_content=petergomez&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3Ht5liaJMW92WRJFuDNKm6K6AnII225MECWbmzhYdNnzQgz2IeZE2197I#Echobox=1612897614

La prescrizione non piace all’Ue. - Piercamillo Davigo

 

Concetto ribadito. La Corte di Giustizia di Lussemburgo ha sentenziato, per ben due volte, che la norma precedente fosse in contrasto col Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Molti di coloro che vorrebbero il ritorno alla prescrizione che continua a decorrere anche dopo una condanna in primo grado si dichiarano europeisti, ma evidentemente ignorano la ben diversa posizione dell’Unione europea sulla questione.

La Corte di giustizia dell’Unione europea (grande sezione), con sentenza 8 settembre 2015, aveva ritenuto che la previgente prescrizione italiana fosse in contrasto con l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).

La normativa italiana prevede un termine di prescrizione il cui decorso può essere interrotto dal compimento di determinati atti processuali. Dopo l’interruzione il termine ricomincia a decorrere, ma complessivamente non può superare un quarto del termine massimo. Ad esempio, se un reato è punito con una pena non inferiore a sei anni di reclusione, la prescrizione è di sei anni che decorrono dalla commissione del reato. Se viene compiuto un atto interruttivo (ad esempio l’interrogatorio dell’imputato) i sei anni ricominciano a decorrere da tale ultimo anno, ma il termine complessivo non può superare sette anni e sei mesi.

La Corte di giustizia Ue aveva deciso che un sistema simile pregiudicava la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea come in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva). Di conseguenza con la sentenza citata (chiamata Taricco) la Corte Ue aveva stabilito che i giudici nazionali dovessero disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui poneva un limite di un quarto alla proroga del termine di prescrizione.

In alcuni casi i giudici nazionali disapplicarono tale limite, condannando anche quando, in applicazione del limite di cui all’art. 160 e 161 del codice penale, era maturata la prescrizione. Altri giudici si posero il problema che la disapplicazione loro demandata dalla Corte Ue strideva con alcuni vincoli costituzionali (divieto di retroattività di norme sfavorevoli in materia penale, riserva di legge nella stessa materia, indeterminatezza del concetto di gravi frodi) e sollevarono questioni di legittimità costituzionale.

La Corte costituzionale con ordinanza n. 24 del 2017 sollevò questione di pregiudizialità comunitaria innanzi alla Corte di giustizia Ue segnalando la possibilità di contro limiti quali la prevedibilità delle decisioni, la non retroattività e la natura sostanziale (e non processuale) della prescrizione italiana, la riserva di legge.

La Corte Ue (Grande sezione) con sentenza 5 dicembre 2017 ribadiva il contenuto della sentenza Taricco (punti 29-39), ma rilevava che – sino all’adozione della direttiva (Ue) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio – il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di Iva non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore Ue (punto 44), con la conseguenza che la Repubblica italiana era libera, “a tale data”, di assoggettare il regime della prescrizione “al principio di legalità dei reati e delle pene” (punto 45). Affermava poi che “il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile”, riflette le “tradizioni comuni agli Stati membri” e ha identica portata rispetto al corrispondente diritto garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (punti 51-55).

Spetta perciò al giudice nazionale il compito di verificare se il riferimento operato nella sentenza Taricco (punto 58) a “un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile”. Ove incertezza fosse rilevata dal giudice nazionale, essa “contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile”, con la conseguenza che “il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione” (punto 59). In ogni caso il divieto di retroattività vigente in materia penale impone di escludere che possano essere disapplicate le norme sul regime di prescrizione “interno” per i fatti commessi prima della pronuncia Taricco; altrimenti, gli accusati potrebbero essere “retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (punto 60).

Detto questo l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale richiamava la responsabilità del legislatore e la Corte di giustizia ha stabilito che “spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 Tfue”.

Questo significa che il ritorno puro e semplice al precedente sistema di prescrizione, invocato da alcune forze politiche anche in occasione della recente crisi di governo, porterebbe all’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia per violazione di tali obblighi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/10/la-prescrizionenon-piace-allue/6096064/?fbclid=IwAR3WOwIq_5v-WiTNny-Zzyosx0e8Ew5e31wHUMVo7gXAi9wLvsRmf6I_x8g

martedì 9 febbraio 2021

Perché votare no all’ammucchiata. - Tommaso Merlo

Mai come oggi Rousseau e i cittadini che voteranno online sono determinanti per la storia del paese ma anche per quella del Movimento. Questa è davvero l’ultima occasione per chi ha creduto nel progetto e per quello che rimane del 4 marzo. Ecco perché votare convintamente no all’ammucchiata.

  • Allearsi con Berlusconi vuol dire tradire clamorosamente le idee e i valori fondanti del Movimento. Vuol dire arrendersi a tutto quello contro cui il Movimento ha sempre combattuto. Il Movimento ha sempre preteso onestà anche intellettuale dagli altri e chi oggi vuole tradire dovrebbe almeno avere l’onestà di ammetterlo. Allearsi con Berlusconi vuol dire calpestare la propria storia. Vuol dire politica senza memoria. E senza memoria la politica non ha neanche una morale. Davvero un triste epilogo per un movimento emerso al grido di onestà e “fuori la mafia dallo stato”.
  • Per realizzare le sue bandiere, al governo il Movimento ha dovuto combattere ed incassare rinunce nonostante avesse un suo premier e molti ministeri chiave. Figuriamoci cosa riuscirà a realizzare come stampella di un’ammucchiata sostenuta da partiti che fino a ieri si azzuffavano e non sono d’accordo su nulla. Con l’ammucchiata il Movimento porterebbe a casa giusto briciole ovviamente in cambio di qualche contropartita. L’unico vero risultato che otterrà sarà bruciare la credibilità che ancora gli resta. E senza credibilità una forza politica è spacciata.
  • Anche Draghi rappresenta tutto quello contro cui il Movimento ha sempre combattuto. Draghi è stato un esponente di spicco della Troika. È uno dei campioni della deriva neoliberista che in nome di una illusoria crescita economica ha privato i cittadini di diritti e di sovranità per darla a tecnocrati e lobby senza scrupoli. Turbocapitalismo finanziario, una deriva fallimentare che ha fatto dilagare povertà e ingiustizia sociale. All’interno dei singoli paesi come nel mondo intero. Il Movimento nasce per rimettere il cittadino al centro della politica e per migliorare la sua “vera” qualità della vita che non ha nulla a che fare con tabelle e grafici e tantomeno con gli umori dei mercati finanziari.
  • Anche un governo tecnico o ibrido è all’opposto di quello in cui il Movimento ha sempre creduto. Il Movimento nasce addirittura per costruire la democrazia diretta, per permettere ai cittadini di partecipare sempre di più alla vita democratica. Sia entrando nei palazzi di persona che votando da casa grazie alla rete. Una democrazia sempre più allargata ed aperta e guidata dal basso che non ha nulla a che fare con un governo in mano ad un tecnocrate calato dall’alto e ad una manciata di parrucconi non eletti da nessuno che commissariano per l’ennesima volta la politica. Il Movimento ha poi sempre creduto nell’intelligenza collettiva, altro che Salvatori della Patria.  
  • Allearsi col renzismo e con tutti i voltagabbana che hanno usato il Movimento per i loro giochetti è umiliante oltre che autolesionistico. Il Movimento ha dato vita a ben due governi entrambi traditi senza un perché. Se il Movimento abboccasse all’ammucchiata i suoi nemici ricomincerebbero ad umiliarlo ed usarlo anche peggio di prima. Questo perché il loro vero scopo è sempre stato quello di distruggere il Movimento. Dopo anni a combattere il Movimento è dimezzato e malconcio ma ancora in piedi, sarebbe davvero inspiegabile se alla fine decidesse di consegnarsi ai suoi carnefici.
  • Il Movimento nasce per cambiare il paese, per rinnovare la vecchia politica e la democrazia. Non per farne parte, non per assecondare i suoi vizi peggiori come imbastire ammucchiate quando i politicanti falliscono. Finora il Movimento è stato costretto a scendere a patti con la vecchia politica a causa di una sciagurata legge elettorale. Lo ha fatto per realizzare le sue promesse e in parte ci è riuscito. Ma lo ha fatto preservando la sua diversità, la sua integrità, vero motore della sua forza propulsiva. Se si mischierà in una ammucchiata diventerà un partito come gli altri. Anzi, molto peggio visto le enormi aspettative iniziali e visto il clamoroso epilogo di approdare tra le braccia di Berlusconi, di Draghi e di chi l’ha ripetutamente tradito.  
  • L’emergenza è tutta una scusa che poteva forse valere un anno fa. La guerra sta finendo e col piano Marshall europeo riparte la ricostruzione. Il Movimento stava guidando un governo che stava egregiamente affrontando l’emergenza, se davvero avevano a cuore le sorti del paese lo avrebbero lasciato lavorare invece che sciacallare per mesi e tradirlo fino a farlo cadere. La pandemia non c’entra nulla, il senso di responsabilità ancora meno. C’entra invece la vecchia politica che in questo paese non sembra voler tramontare mai. Il Movimento si è dimostrato serio e affidabile durante la pandemia e se oggi servisse ancora qualche mese per poter votare in piena sicurezza, allora sarebbe giusto appoggiare dall’esterno un governicchio tecnocratico che ci porti al voto il prima possibile. Ma questo senza aderire a nessuna letale ammucchiata politica.

Mai come oggi quello di Rousseau è un voto decisivo per le sorti del paese e del Movimento 5 Stelle. L’ultimo atto per molti che hanno creduto nel progetto. Se il Movimento aderirà all’ammucchiata sarà una vera svolta politica e quello che resta del 4 marzo dovrà trovare altre vie democratiche per provare a cambiare davvero l’Italia. Ma comunque vada il voto, mai arrendersi. Un conto è la politica, un conto è la storia.

Tommaso Merlo

https://repubblicaeuropea.wordpress.com/2021/02/09/perche-votare-no-allammucchiata/

Pci, quel “tagliacuci” sulla rivoluzione. - Gad Lerner

Macaluso, Petruccioli & C. retrodatano la nascita del partito al rientro di Togliatti in Italia e ridimensionano la figura di Gramsci. L’imbarazzo per la questione Mosca. E la messa in soffitta dell’utopia.

Per potersi definire “Comunisti a modo nostro”, come recita il titolo del loro dialogo appena pubblicato da Marsilio, Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli hanno scelto un ben strano modo di celebrare il centesimo anniversario della scissione di Livorno: saltare a piè pari i primi ventitré anni del partito, dal 1921 al 1944.

Liquidati come “una lunga notte buia”, col loro carico di eroismo e ferocia; e pazienza se furono gli anni del sogno rivoluzionario, dell’opposizione clandestina al regime fascista, dello stalinismo, della guerra, della Resistenza partigiana… il centenario va postdatato. Macaluso lo dichiara fin dalla prima pagina: per lui la vera storia del comunismo italiano comincia dal rientro in patria di Togliatti e dall’“accantonamento” del leninismo. Che permetterà la trasformazione del Pci in partito di massa, “non dico socialdemocratico, ma che si richiama alla tradizione socialista”.

Se vorrete dedurne che nel 1921 i due autorevoli ex dirigenti comunisti sarebbero rimasti col riformista Filippo Turati al Teatro Goldoni, anziché seguire Bordiga, Terracini e Gramsci al San Marco, non avrete tutti i torti. Tanto è vero che nella meticolosa rivisitazione da essi compiuta delle svolte della sinistra nel Dopoguerra, il senno di poi li condurrà quasi sempre a dar ragione alle componenti socialdemocratiche: che si tratti di Saragat contro Nenni nel 1947; del ripudio del marxismo decretato dalla Spd nel 1959 a Bad Godesberg; o del braccio di ferro sulla struttura del salario fra Craxi e Berlinguer nel 1984.

Lungo tutto questo arco di tempo il capolavoro politico del “partito nuovo” di Togliatti viene ascritto alla capacità del Migliore di guidare una trasfigurazione programmatica sotto l’ombrello dell’ideologia, tale da consentire ai nostri di autorappresentarsi più socialisti dei socialisti. Paghi del fatto che la “via italiana al socialismo” più nulla aveva a che spartire col “fare come in Russia” d’antan. Lo stesso compromesso storico proposto alla Democrazia cristiana da Berlinguer nel 1973, altro non sarebbe che il compimento di questa strategia togliattiana. Per cui a Berlinguer andrebbe semmai rimproverata la persistente visione anticapitalista, che gli impedisce di aderire fino in fondo al modello di società occidentale.

Logico che da questo tagliacuci della propria storia esca ridimensionata la figura di Antonio Gramsci, ridotto a malinconico pensatore solitario. L’ammirazione nostalgica dei nostri va tutta al Togliatti che fin da subito aveva voltato le spalle all’esperienza consiliare torinese dell’“Ordine nuovo”, convinto com’era che il conflitto sociale debba restare solo una leva al servizio del primato della politica. Ciò che spiegherà l’eterna diffidenza del gruppo dirigente comunista nei confronti dei movimenti per i diritti civili e di quant’altro emergesse alla sinistra del Pci.

Resta da giustificare la prosecuzione fino al 1989 del legame del Pci con l’Unione Sovietica. E qui i due autori si differenziano. Macaluso, seppur con imbarazzo, definisce inevitabile finanche il plauso all’invasione dell’Ungheria nel 1956, visto che l’appartenenza al blocco comunista forniva al Pci un sostegno insostituibile. Petruccioli è più critico nel confronto con la vecchia guardia e ci regala una testimonianza impressionante. Il giorno in cui crolla il Muro di Berlino va a bussare all’ufficio di Alessandro Natta per chiedergli un consiglio su come reagire. Ne ottiene una risposta sconsolata e terribile: “Caro Petruccioli, cosa volete fare… Ha vinto Hitler!”. Certo Natta non era un bolscevico; ma per un militante come lui, iscrittosi al Pci nel 1945, anche dopo il fallimento della Rivoluzione d’ottobre permaneva la necessità di un ordinamento sociale alternativo al capitalismo.

Più coerente di Macaluso e Petruccioli, un altro ex comunista a loro vicino, Paolo Franchi, pubblica per La nave di Teseo un saggio, “Il Pci e l’eredità di Turati”, in cui sostiene che il suo partito “si farà passo passo molto, ma molto, più ‘turatiano’ di quanto dicano le storie che vanno per la maggiore”. Peccato solo – sia detto per inciso – che anche lui sposi la grossolana forzatura secondo cui Umberto Terracini nel 1982 avrebbe detto: “A Livorno aveva ragione Turati”. Falso. Ben altro dovrebbe essere lo spirito con cui guardare un secolo dopo a quella pur tragica separazione, per trarne insegnamento.

Né ci aiuta in tal senso il pamphlet di uno storico militante come Luciano Canfora, La metamorfosi (Laterza), che svolge un ragionamento opposto a quello di Macaluso e Petruccioli condividendone però l’assurda post-datazione al 1944 dell’atto di nascita del Pci. Fervente togliattiano anch’egli, Canfora non crede affatto che il “partito nuovo”, indicando l’unità nazionale e le riforme di struttura come via italiana al socialismo, fosse destinato a sciogliersi nell’indistinto “democratico”. Anzi, sostiene che Occhetto, D’Alema e gli altri coetanei di matrice togliattiana nel 1989 avrebbero trascinato il partito al suicidio, facendosi alfieri di valori antitetici a quelli delle origini. Peccato che anche Canfora scelga di trascurare l’eredità, imbarazzante ma fertile, di quei primi ventitré anni “del ferro e del fuoco” in cui il partito forgiò il suo profilo ideale di avanguardia delle classi subalterne che aspiravano a un mondo nuovo, a una redenzione collettiva, alla giustizia sociale.

L’empito di fede rivoluzionaria maturato nelle sofferenze della Grande Guerra è il grande rimosso di questo centenario. E invece andrebbe studiato con rispetto, un secolo dopo, tanto più in un tempo che di nuovo si presenta drammatico. Peccato che gli ex comunisti, rimasti togliattiani di destra e di sinistra, o divenuti turatiani fuori tempo massimo, mostrino di appassionarsi esclusivamente alle controversie successive. Sembra che per loro ragionare di utopia rivoluzionaria sia solo un’infantile perdita di tempo.

Invece, chi potrebbe aiutarli a riconoscere il valore dell’utopia come leva motrice del cambiamento e ispiratrice dei movimenti di massa, è proprio il patriarca Antonio Gramsci. Ho trovato un piccolo aneddoto significativo nel diario di Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1926, dopo l’arresto di Gramsci, gli subentrò alla guida del partito. Quando lei e Umberto Terracini al confino di Ventotene subivano l’ostracismo del partito che li aveva espulsi, perché colpevoli di aver criticato il patto Hitler-Stalin e di indicare la prospettiva unitaria della Costituente, Camilla traeva consolazione dall’amicizia con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi. Il quale era stato tradotto sull’isola dal carcere di Turi, dove aveva fraternizzato con Gramsci. Lei stessa, quand’era detenuta lì vicino, a Trani, ne ricevette notizia dall’illustre prigioniero. Scrive dunque di Schicchi la futura senatrice a vita Ravera: “Era uno di quegli anarchici con cui Gramsci amava conversare. ‘Anche l’utopia serve al cammino degli uomini – mi diceva poi Gramsci, sorridendo – fa la sua tenue luce, là dove ciò che realmente sarà non sappiamo’…”. Ecco, forse è proprio l’utopia a mancarci, cent’anni dopo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/09/pci-quel-tagliacuci-sulla-rivoluzione/6094856/

Dall’ammucchiata di potere si salvano Calenda e Meloni. - Andrea Scanzi

 

Ormai è fatta: tutti, o quasi, sono entrati nella retoricissima modalità “governo di unità nazionale”. E quando è così vale tutto. A quel punto è tutto un piovere di “Draghi santo subito” e “Franza o Spagna purché se magna”. Soprattutto: a quel punto, che è poi questo, ciò che fino al minuto prima pareva impossibile – e inaccettabile – diventa auspicabile. Anzi addirittura meraviglioso. E allora vai con Salvini che governa con Fratoianni (bum!), Calderoli con Zingaretti (daje!) e Berlusconi con Di Maio (c’mon).

Detto che Draghi è persona dal profilo inattaccabile e che gli auguriamo ogni fortuna (che sarebbe poi la nostra), il suo governo si presenta a oggi – con rispetto parlando e non per colpa sua – come una delle più grandi schifezze nella storia dell’umanità. Lega col Pd, Forza Italia con Movimento 5 Stelle, centristi e cosiddetti radicali con LeU. Una roba da vomito, ma se osi dirlo ti guardano come il cacadubbi che fa lo schizzinoso dinnanzi a ostriche & champagne. È tutto capovolto, e quando scatta il concetto di “unità nazionale” devi ingoiare tutto. Altrimenti sei un traditore.

Gad Lerner parla di “commissariamento della democrazia parlamentare” ed è vero, perché ricorrendo a Draghi si è implicitamente ammesso che la politica ha fallito. Corradino Mineo ci vede invece qualcosa di positivo, ovvero una sorta di “normalizzazione” della Lega, passata – in un secondo! – da sovranista a europeista. È vero che lo scenario è devastante e come la giri ti fai male. Ed è anche vero che, di fronte a una tragedia, un Paese dovrebbe sapersi unire. Certo. Ma questo varrebbe in un Parlamento fatto da De Gasperi, Parri e Pertini. Lì si che avrebbe senso questa sorta di Grande Partito Unico, in grado di andare oltre ogni divergenza. Ma davvero, oggi, c’è qualcuno che crede al senso dello Stato di Salvini, Berlusconi e Gasparri? Davvero qualcuno crede a Borghi & Bagnai folgorati sulla via dell’europeismo? Davvero qualcuno crede che il povero Draghi, zavorrato da una maggioranza che a oggi andrebbe dall’estrema sinistra (si fa per dire) all’estrema destra (non si fa per dire), potrà fare qualcosa di fortemente politico? A parte i ristori e il piano vaccinale (che sarebbe già tantissimo, certo), dovrà anzitutto altro tirare a campare. Altro che conflitto di interessi, prescrizione e transizione ecologica!

Giornalisticamente sarà pure una gran frattura di palle, perché vivremo in un clima mellifluo da “adesso fingiamo tutti di andare d’accordo”. E l’unico da bastonare resterà Conte, che anche dopo la crisi rimane quello più amato dagli italiani (con Draghi) e che potrebbe uscire più forte dal nuovo governo (che appoggia), essendo ormai ufficialmente il leader del campo progressista, ma che per i baccelli lessi di certi talk show iper-renziani rimarrà Il Gran Puzzone.

In questa cacofonica orgia garrula per la grande ammucchiata, si salvano giusto due leader. Il primo è Calenda, che a questa perversione ha sempre creduto e ora giustamente esulta. La seconda è la Meloni. Durante la pandemia ha dato il peggio di sé (ma i sondaggi la premiano). Ha una classe dirigente non di rado irricevibile (chiedere a Report). E i suoi interventi alla Camera sono foneticamente raggelanti. Ma è forse l’unica coerente. Lo è stata con il Conte-1, accettando il tradimento di Salvini. E lo è adesso, di fronte alle corna del solito Matteo e pure di Silvio. Di fatto farà opposizione da sola (chissà le urla!). Se Draghi farà il miracolo, ne uscirà con le ossa rotte. Ma se l’informe caravanserraglio fallirà, nel 2023 Fratelli d’Italia stravincerà a mani basse. Auguri.

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Governo Draghi: 8 punti per non dividere. Ma sui nomi vuole mediare poco. - Carlo Di Foggia e Paola Zanca

 

Da calendario, avevano un quarto d’ora a testa. Ma Mario Draghi, al secondo giro di consultazioni con i partiti, ha già imparato a prendere le misure. E dopo dieci minuti, nonostante i tempi già dimezzati, li ha congedati tutti. Gentile, ma fermo: “Ha finito di illustrare il suo programma, poi ha guardato la parete e ha detto: abbiamo solo un minuto. Ma là appeso, non c’era nessun orologio”. Lasciano la Sala della Lupa di Montecitorio un po’ interdetti: il presidente incaricato ha già finito di farli sfogare. Li ha ascoltati al primo giro, ma adesso non è già più tempo. “Ermetico”, lo descrivono. Che tradotto significa che non ha dato ai suoi interlocutori nessuna delle indicazioni che davvero gli interessavano: chi, dove, quando?

Nemmeno un accenno ai tempi per la nascita del nuovo governo. Par di capire, comunque, che non se ne parli prima di venerdì: oggi vede i partiti maggiori, domani le parti sociali e solo giovedì si conoscerà l’esito del voto su Rousseau. Neanche un indizio sulla natura tecnica o politica del governo, anche se ormai il “modello Ciampi”, ovvero il mix tra le due formule, viene dato per assodato anche dal Quirinale. Figurarsi se si è spinto a parlare del “perimetro” della maggioranza, argomento già finito negli archivi d’agenzia. E ai pochi che ieri lo hanno stuzzicato sul tema, raccontano che Draghi abbia risposto con un ragionamento che suona più o meno così: “Io cerco di trovare una mediazione sia sulla sostanza che sulla forma, ma se il problema vero è solo chi ci sta, alzo le mani…”.

Non ha intenzione, insomma di aprire troppe trattative, anche perché – va detto – non c’è nessuno che si sia messo a dettare condizioni. Lui, nel dubbio che qualcuno si svegli, evita di avvicinarsi alle questioni “scivolose” e lascia fuori tutti i cosiddetti temi “divisivi”. Così, ha buttato giù 8 punti sufficientemente vaghi e sufficientemente di buon senso da accontentare l’arco parlamentare che va da Fratoianni a Salvini. Nessuno impegno.

C’è la vocazione “europeista” e l’attenzione all’ambiente che “innerverà” (sic) tutti gli ambiti del programma. Ci sono le riforme evergreen che da 20 anni accompagnano il dibattito pubblico: quella della giustizia civile, del fisco (in teoria già in cantiere con i giallorosa) e della Pubblica amministrazione. C’è il Recovery fund, ovviamente, e c’è il piano vaccinale che deve tirarci fuori dalla pandemia. Parla di scuola e immagina modifiche al calendario per restituire ai ragazzi un po’ del “tempo perduto” quest’anno, nonché nuove assunzioni per evitare di ritrovarsi alla ripresa un’altra volta senza docenti. Questioni che riguardano giugno e settembre: l’impressione diffusa è che sia un “programma emergenziale”, che poi è quello per cui lo ha chiamato il capo dello Stato. Ma risolta l’emergenza, notano con una certa preoccupazione, “il dopo non c’è”.

Qualcosa in più oggi potrebbe arrivare su quel che non ci sarà nel programma. Consapevole dei molti temi divisivi (immigrazione, Mes, giustizia) l’ex Bce potrebbe raccogliere dai partiti le indicazioni sui temi che considerano esplosivi. Molti di questi, va detto, li ha già tolti dal tavolo e così hanno fatto i partiti (Salvini, per dire, non gli chiederà oggi di tornare alla versione originaria dei decreti Sicurezza).

Al netto della vaghezza, Draghi è tornato su alcuni punti economici. In tema di aiuti alle imprese ha spiegato che i ristori vanno bene per tamponare l’emergenza ma servirà un piano di stimoli pubblici per creare lavoro (anche se, per la verità, si troverà a gestire subito i 32 miliardi del decreto Ristori 5, in gran parte già opzionati). L’idea di fondo è che il Recovery rappresenti un embrione di bilancio comune europeo, e su questo bisognerà insistere. Su questo fronte anche dalla Lega potrebbero saltare le ultime resistenze. Oggi la plenaria dell’Europarlamento dovrebbe infatti approvare il regolamento definitivo del piano europeo. Un testo che disegna un’architettura piena di vincoli e controlli sui fondi, e con diversi rischi (chi non rispetta le regole fiscali europee rischia di vedersi bloccati i soldi). Per questo a metà giugno in commissione affari economici la Lega si era astenuta. Ieri filtrava una linea diversa. Ascoltato oggi Draghi, potrebbe arrivare il via libera a Bruxelles.

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