martedì 15 novembre 2016

Punto di non ritorno.




Grandi Opere, nella maxi-retata arrestati anche il progettista e il manager del ponte sullo Stretto. - Paolo Fior - Ferruccio Sansa

Grandi Opere, nella maxi-retata arrestati anche il progettista e il manager del ponte sullo Stretto

Proprio un mese fa, nel giorno in cui Matteo Renzi rilanciava il progetto, Michele Longo ed Ettore Pagani erano al suo fianco. Da ieri sono agli arresti nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in manette anche il figlio dell'ex ragioniere dello Stato Monorchio e in cui è finito indagato Lunardi jr. Il premier minimizza: "Processo sia rapido. Stiamo parlando di arresti legati a vicende del passato".

A un mese esatto dal roboante annuncio del rilancio del progetto del Ponte sullo Stretto, la maxi-retata di mercoledì 26 ottobre ha tolto dalla circolazione alcuni di quelli che erano gli uomini chiave del progetto e che erano proprio di fianco al premier Matteo Renzi a Milano nel giorno dell’annuncio. Si tratta del presidente e del vice-presidente del Consorzio CocivMichele Longo ed Ettore Pagani. Due uomini espressione del gruppo Salini-Impregilo. Il primo, Longo, ne è una delle figure apicali essendo general manager domestic operation e avendo quindi la responsabilità non solo delle opere del cosiddetto Terzo Valico, ma anche di tutte le altre operazioni italiane che coinvolgono il gruppo. Di più, è l’uomo del Ponte, colui con il quale lo Stato deve parlare se l’argomento è la maxi opera tra Sicilia e Calabria. E Pagani è il suo braccio destro, nonché “responsabile del progetto Ponte sullo Stretto” per conto di Impregilo, come recita il suo curriculum.
Le misure di custodia cautelare sono scattate nell’ambito di un’operazione sulle Grandi Opere, dove – secondo i magistrati – non c’è solo la solita gigantesca corruttela, ma anche e soprattutto la sistematica violazione delle normative di sicurezza, con lavori non fatti a regola e uso di materiali scadenti (“il cemento sembrava colla”, intercettano gli inquirenti). Opere costosissime, spesso inutili e soprattutto pericolose. Opere su cui il governo Renzi si è esposto molto. L’annuncio del rilancio del progetto del Ponte il premier lo ha fatto il 27 settembre intervenendo alla festa per i 110 anni del gruppo Salini-Impregilo che si è svolta alla Triennale di Milano. Accanto a lui, l’amministratore delegato del gruppo, Pietro Salini (più volte citato nelle intercettazioni dell’inchiesta), l’ambasciatore degli Stati Uniti e molti top manager, tra cui, come detto, gli stessi Longo e Pagani. “Non accetteremo che si possano spendere 6-7 miliardi per la Torino Lione, 1,2 per la Variante di Valico e poi se facciamo un’infrastruttura al Sud non si può perché rubano. O siamo italiani sempre o siamo italiani mai”, ha detto Renzi giusto qualche giorno fa. Ora che gli uomini del Ponte sono finiti nei guai lui minimizza: “Mi auguro un processo equo e rapido. Il punto centrale è che non sono le regole che fanno l’uomo ladro. E in ogni caso stiamo parlando di arresti legati a vicende del passato”.
Se le storie sono antiche, gli uomini però sono sempre gli stessi. Ma chi sono veramente Longo e Pagani e chi è il “terzo uomo”, Pier Paolo Marcheselli, di cui si parla tanto in queste ore? Riguardo a Longo e Pagani le carte dei pm riportano soprattutto due contestazioni: “Longo e Pagani decidevano di affidare l’appalto a “Grandi Lavori Fincosit spa” nonostante tale società avesse previsto nell’ambito delle spese generali un costo per la sicurezza aziendale interna senz’altro incongruo (93mila euro, un ottavo dei concorrenti, ndr)”. C’è poi la gara per realizzare la viabilità per smaltire il materiale di scavo: “Longo, Pagani e Giulio Frulloni (quest’ultimo remunerato dall’imprenditore Marciano Ricci mediante l’offerta di serate con “escort”) prima dell’indizione della gara promettevano allo stesso Ricci l’affidamento dell’appalto… e fornivano loro informazioni sul progetto che sarebbe andato in gara”.
Ci sono molti fili che legano le grandi opere italiane. Parti dal Terzo Valico e arrivi molto lontano. Al Ponte, ma non solo. La grande opera tra Milano e Genova ha già collezionato molti record. Giudiziari, prima che ingegneristici. Per non parlare dei costi: “Eravamo partiti da 3.200 miliardi di lire per 127 chilometri e siamo arrivati a 6,2 miliardi di euro per 54 chilometri”, racconta Stefano Lenzi, responsabile delle Relazioni Istituzionali del Wwf. Le rogne cominciano negli anni ‘90 quando il pm genovese Francesco Pinto indaga sui tunnel pilota. Si parlava di una truffa da 100 miliardi di lire. Gli indagati – Luigi Grillo, Ercole Incalza, Marcellino Gavio e Bruno Binasco – ne uscirono puliti: furono tra i primi a beneficiare della ex Cirielli sulla prescrizione. La storia del Terzo Valico era cominciata nel 1991. Poi le inchieste, il silenzio. Se ne riparla con il ritorno di Silvio Berlusconi nel 2001. E già allora si ritrovano nomi di oggi. Nel marzo 2005 Andrea Monorchio aveva terminato il mandato di Ragioniere Generale dello Stato e trovato altre prestigiose poltrone. Tra le altre quelle di presidente di Infrastrutture Spa e della Consap (Concessionaria dei Servizi Assicurativi Pubblici). Disse allora Monorchio Senior: “La delibera Cipe ha individuato la cifra necessaria per realizzare il Terzo Valico, 4,7 miliardi di euro, noi siamo pronti a finanziare l’opera”.
A questo punto ecco che entra in scena Giandomenico Monorchio, citato nell’inchiesta fiorentina del 2015 su Ercole Incalza (archiviato). Di Monorchio jr. (arrestato ieri nella nuova inchiesta) parla nelle intercettazioni l’imprenditore Giulio Burchi: sostiene che si “…stanno negoziando le ultime direzioni lavori… il Cociv… il Milano-Genova ce l’aveva il figlio di… nella spartizione fantastica di queste direzioni lavori commissionate dai general contractor… che sono una delle vergogne grandi di questo Paese”. Spiegano i magistrati: “Si ricorda che, di recente, il Consorzio Cociv ha affidato a Giandomenico Monorchio la direzione dei lavori per il Terzo Valico”. Ma dalle carte dell’inchiesta romana di oggi, sul Terzo Valico, potrebbero emergere altri dettagli sul ruolo di Monorchio jr. Il retroscena del Terzo Valico non viene solo dalle inchieste. Dietro il Terzo Valico c’è anche l’abbraccio tra banche e governi. Perché era Intesa (attraverso Biis, Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo) che si occupava del project financing privato. Ai vertici di Biis c’era chi parlava di un finanziamento che doveva costare 374 milioni l’anno. Mentre le Ferrovie prevedevano un ricavo da 40 milioni. Ma ecco che con Monti i banchieri vanno al Governo: Corrado Passera, ex numero uno di Intesa, finisce allo Sviluppo Economico e alle Infrastrutture. Viceministro è Mario Ciaccia, il numero uno di Biis che finanziava l’opera. Il progetto riparte. E in un attimo la spesa si riversa sulle spalle pubbliche. E ci sarebbero anche da contare le previsioni del traffico merci: si era detto di 5 milioni di container l’anno. Siamo a 1,8 e la linea attuale ne regge 3. C’è poi chi, come il Wwf, ricorda che i costi (115 milioni a chilometro) sono superiori dell’800% a quelli affrontati in Spagna.  Chi sottolinea che dopo 53 chilometri la nuova linea finirebbe nel nulla.
Ma c’è chi continua a crederci. Di sicuro la ‘ndrangheta, come ha rivelato l’inchiesta Alchemia: “Dalle intercettazioni – raccontò il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho – rileviamo l’interesse di imprenditori prestanome delle cosche a sostenere finanziariamente il movimento Sì Tav per creare nell’opinione pubblica un orientamento favorevole all’opera”.
C’è poi l’ultimo tassello: la nomina del presidente del Porto di Genova. Perché il Terzo Valico servirebbe proprio allo scalo ligure. Ormai è questione di ore: il nuovo presidente sarà Paolo Emilio Signorini, già delfino di Ercole Incalza. Il suo nome è stato proposto da Giovanni Toti. L’opposizione, soprattutto di centrosinistra, tace. Si cerca un accordo sulla figura del Segretario dell’Autorità Portuale. Altra poltrona cardine per il Porto (e il destino del Terzo Valico). Si profila un’intesa con il Pd.

"Signora, venga lei sul palco": Boschi perde la pazienza.


"Signora, la prossima volta invitano lei: viene sul palco e parla lei". Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, perde per qualche secondo il sorriso che la contraddistingue dopo l'ennesima interruzione da parte di una signora presente all'incontro organizzato dal Partito democratico alla 'Casa d'Italia' di Zurigo per promuovere la riforma costituzionale.
"Signora - dice poco dopo la ministra, interrotta ancora una volta dalla donna seduta in sala - c'è un limite alla sopportazione. Perché è una questione di educazione".
E aggiunge: "Sono contenta se rimane con noi fino alla fine ma c'è un limite all'educazione verso chi viene ad un'iniziativa organizzata da altri e si prega che ascolti rispettando le persone presenti".

Renzi e il refuso nella lettera agli italiani all’estero: link porta a comitato del No.

Renzi e il refuso nella lettera agli italiani all’estero: link porta a comitato del No

È stata dimenticata una 'N', così la scritta che avrebbe dovuto rimandare al sito del comitato 'Basta un Sì', si è trasformata in "www.bastausi.it".

La lettera inviata da Matteo Renzi agli italiani residenti all’estero, per invitarli a votare  al Referendum Costituzionaleaveva già fatto molto discutere. Ma in tutto questo caos, nessuno si era accorto di un clamoroso errore: sulla prima facciata del volantino, dove il premier è ritratto in una foto con Obama (per ribadire l’endorsement del presidente uscente degli Stati Uniti), il link al sito della campagna è sbagliato. È stata dimenticata una ‘N‘, ed ecco che la scritta che avrebbe dovuto rimandare al sito del comitato ‘Basta un Sì‘, si è trasformata in “www.bastausi.it“. Un errore di cui si è accorto per primo Roberto Calderoli: “Peccato – ha detto il senatore leghista – che questi signori siano talmente ignoranti della grammatica, e della Costituzione, che indicando il sito di riferimento abbiano scritto www.bastausi.it. Bastausi? Che sia un’espressione dialettale? Non credo proprio, come non credo che chi non è in grado di scrivere neppure una lettera correttamente possa riscrivere la Costituzione”.
Ma, questo è proprio il caso di dirlo, oltre al danno la beffa. Quello che neanche Calderoli sapeva è che il link scritto nella lettera riporta a una pagina dove si sostengono le ragioni del No. Il dominio risulta infatti intestato a Ruggero Barbetti, esponente di Forza Italia e sindaco di Capoliveri che, come spiega il sito Gli Stati Generali, notando la svista ha acquistato l’url e creato così la pagina web di un comitato per le ragioni del No. E così la contestata lettera di Renzi agli italiani all’estero rischia paradossalmente di fare pubblicità al fronte del No.

giovedì 10 novembre 2016

La madre di tutte le domande si impone: come mai la candidata sostenuta da “i poteri forti” ha perso alla grande? - Sergio Di Cori Modigliani

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   Trump e consorte                                                                           Jess Ventura

Inattesa vittoria a sorpresa di Donald Trump? Proprio per niente. Era annunciata.
Si tratta, piuttosto, dell’auto-distruzione della dinastia Clinton, un suicidio amorevolmente assistito da un Barack Obama stanco e miope, che dopo otto anni alla Casa Bianca ha gettato la spugna e si è fidato di una persona come Hillary Clinton, da lui saggiamente licenziata 4 anni fa, con la frase e non farti mai più vedere da queste parti. Si vede che Obama non ha letto bene le immortali tragedie sul potere scritte da William Shakespeare, dove gli arrogantoni super ambiziosi -di solito anche permalosi – covano risentimento, voglia di rivincita, ambizioni megalomani e finiscono per cavalcare gli insondabili binari della dimensione mentale personale, spacciandola per fatti reali e oggettivi. La realtà (che ci piaccia o meno, quella esiste, al di là delle nostre paturnie e interpretazioni soggettive che vengono pure diffuse nel mondo virtuale) era chiara, visibile, sotto gli occhi di tutti. E in Usa lo sapevano tutti che non vi era alcun dubbio che Trump avrebbe vinto. Vi cito qui di seguito un testo del più celebre antagonista statunitense pubblicato 50 giorni fa. E’ un articolo del regista documentarista Michael Moore (http://michaelmoore.com/trumpwillwin/) oppure più estesamente su http://www.alternet.org/election-2016/michael-moores-5-reasons-why-trump-will-win. il cui titolo è: “I cinque motivi per i quali Donald Trump vincerà le elezioni a novembre e nessuno lo può fermare“. Inizia con “miei cari concittadini, ho davvero delle pessime notizie per tutti voi…..” elaborando e argomentando, con profonda conoscenza delle contraddizioni del suo paese, le diverse valenze che hanno costruito l’inarrestabile successo di Donal Trump.
E’ una sorpresa anche per gran parte degli italiani. La nostra stampa, per lo più, ci ha riferito ciò che diceva la CNN e dell’America, quella vera, ci ha detto poco o nulla. Stavo in Usa, nell’ estate del1980 e lavoravo come corrispondente per “Il Lavoro” di Genova diretto da Giuliano Zincone (lui ed Oriana Fallaci erano in Vietnam nel 1964 e i loro reportage sul corriere della sera e su L’europeo erano epici, perchè veri, scritti sotto le bombe vere, stando al fronte sulla linea di fuoco. Impagabili.) C’era la campagna elettorale e il candidato indipendente che aveva sbaragliato ogni concorrente dentro il partito repubblicano era Ronald Reagan, definito un clown senza alcuna possibilità di vincere. Riuscii allora a farmi accreditare e mi conquistai il posto sull’autobus che seguiva il tour di Reagan attraversando tutti gli stati. Non c’era nessun altro giornalista italiano, se ne stavano a Manhattan e Washington (Los Angeles non esisteva ancora come piazza). La grande spinta degli anni’70 era finita, la società era cambiata ed era chiaro -seguendo il carrozzone reaganiano- che lui avrebbe vinto. Ricordo l’editoriale sulla prima pagina del corriere della sera, il giorno prima della votazione, scritto dal decano dei corrispondenti, Ugo Stille (di lì a breve sarebbe diventato il direttore) il cui titolo era “Perchè Reagan non ha alcuna possibilità di vincere”. Anche Lucio Manisco su Il Messaggero scriveva le stesse cose, e Sergio Segre su l’Unità e tutti gli altri: descrivevano un’America che da anni non esisteva più. In questi giorni si è poco parlato dell’articolo di Michael Moore (che è anche poco girato in rete) e degli interventi delle femministe post-moderne statunitensi capeggiate dalla grande intellettuale Camille Paglia, con il suo “too easy darling” (trad. “troppo facile, tesoro mio”) nel quale attaccava Hillary sostenendo che era un pessimo esempio per le femministe essendosi rifiutata di usare il suo cognome perchè mi è utile usare il cognome di mio marito. “Un’immagine obsoleta della donna, falsa e ipocrita come lei”, ha sentenziato l’autorevole femminista. Così come sarebbe stato opportuno andare a intervistare Susan Sarandon, che ha guidato la sinistra antagonista contro Hillary. O i grandi sindacalisti dei comitati di base di fabbrica a Detroit, nel Michigan (lì ha perso le elezioni la Clinton) quelli con i quali si era incontrato e scontrato Marchionne nel 2010, i quali hanno votato per Trump. Così come ha votato per Trump la stragrande maggioranza dei giovani laici (tra i 18 e i 35 anni) in Florida e in Pennsylvania, ragazzi digitali che odiano l’ipocrisia, l’opacità, la menzogna di stato, che non leggono il New York Times e gli editoriali di quelli che in Italia definiamo radical chic, e non seguono i media mainstream perchè si affidano ad altri veicoli di comunicazione che appartengono a un altro sistema mentale: quello della percezione, dell’emotività, e della denuncia di crimini nascosti. La botta definitiva a Hillary gliel’ha data l’uragano di due mesi fa ad Haiti, quello che ha causato circa 5.000 morti e 250.000 persone senza tetto (e senza nessuna assistenza) di cui nessuno ha parlato, ma sono diventati invece argomento principe nella campgana elettorale statunitense per un particolare che giudico fondamentale: la notizia diffusa con ampia documentazione provata da Jill Stein (candidata verde sostenuta dalla Sarandon, Michael Douglas e dalle prime 200 organizzazioni ambientaliste americane) in cui si spiega che la vera ragione di quel terribile disastro non è stata Madre Natura bensì un business gestito dai Clinton. Nel 2010, infatti, quando c’era stato il devastante terremoto (il 12 Gennaio) Hillary si era precipitata nell’isola con aerei pieni di medicinali e cibo pagati dalla sua fondazione, litigando con le associazioni e con ogni altro interlocutore lì presente per dare sostegno (compreso lo scontro con Bertolaso, presente nell’isola, che quasi provocò un incidente diplomatico tra Usa e Italia) riuscendo nel suo intento, cioè assumere il totale controllo degli aiuti per la popolazione locale, gestito dalla sua fondazione benefica. Due anni dopo, la fondazione dei Clinton risultava incaricata della concessione sul demanio territoriale dell’isola che affidò alla American Mining Corporation, la più importante multinazionale del carbone. Questa azienda diede inizio alla più grande opera di deforestazione mai verificatasi nell’America Centrale. Hanno tagliato migliaia e migliaia di palme che da millenni vivevano lì, aprendo 156 nuove miniere di carbone a cielo aperto. E così, l’isola di Haiti è rimasta senza la sua più potente e poderosa barriera di difesa naturale: una selva di giganteschi alberi che fermano e dirottano i venti degli uragani che da sempre devastano la zona. Senza quella difesa, le case dei poveri sono state spazzate via. Questa piccola storiella ha avuto un effetto dirompente nell’immaginario collettivo che è montato sul passaparola della solidarietà umana (quella vera) e la gente indignata ha accusato la Clinton di ipocrisia.
Ma soprattutto il “fattore Jess Ventura”  è stato davvero fondamentale. Un nome che a molti italiani non dice niente. Si tratta di un curioso personaggio, ex attore, ex campione di wrestling, ambientalista, grande complottista, (è la persona nell’immagine in bacheca) il quale nel 1997 scende in politica con una formazione inedita “Il Partito Riformista della Nazione” vince le elezioni e diventa governatore dello stato del Minnesota. Costui diventa un’icona dell’antagonismo anti-sistema. Rimane in carica fino al 2003, attaccando il potere centrale, il capitalismo americano, l’ipocrisia moralistica americana, accusando Hillary Clinton di essere la responsabile della cancellazione dello Steagall Act rooseveltiano con il quale, Bill Clinton, nell’ottobre del 1998, grazie a un decreto presidenziale votato da tutti i repubblicani, consegnava ufficialmente e formalmente l’intera economia planetaria nelle mani della finanza speculativa gestita da Wall Street e dalla City di Londra. La sua elezione fu il grande shock della vita politica americana di quei tempi. Trovò anche uno sponsor, un imprenditore di New York che si precipitò da lui iniziando a finanziarlo per cercare di convincerlo a presentarsi alle elezioni presidenziali del 2000 contro i repubblicani e i democratici. Jess Ventura non accettò (“la politica mi disgusta, è il luogo in cui si incontra il business e la psicopatia mentale” dichiarò abbandonando l’attività pubblica). Il suo sponsor di allora era Donald Trump. Quello fu il colpo di fulmine per l’attuale presidente, e quello fu l’esempio che lui ha deciso di cominciare a perseguire, dedicando i seguenti dieci anni a coltivare le relazioni necessarie e sufficienti per poter essere sostenuti in maniera credibile. Ma Jess Ventura ha iniziato a fare scuola, diventando la prima vera grande icona del cambiamento per la generazione dei millennials, quella che esploderà con “occupywallstreet” nel 2010, dando l’accelerazione imprevista e cercata da Trump.
Il vincitore di queste elezioni è un uomo che è riuscito a sintetizzare e interpretare i malumori autentici del Paese. L’unico oppositore convincente avrebbe potuto essere Bernie Sanders, avrebbe senz’altro vinto. Ma lui era un socialista, e Obama ha compiuto il miope errore di essersi fidato di Hillary cedendo al compromesso con Wall Street che ha voluto sostenere i Clinton. Così come le multinazionali, il grande Corporate America, la spina dorsale dei cosiddetti “poteri forti”. Quest’esperienza è la prova lampante della stupidità di una locuzione come questa. Ma che razza di forza avrebbe questo fantomatico potere se non è neppure in grado di vincere una elezione presidenziale?  La realtà, infatti è molto più complessa, variegata, multi-dimensionale.
Donald Trump, forse, farà del bene all’America. Di sicuro non farà del bene all’Europa di cui, francamente Trump se ne frega.
In quanto europeo sono preoccupato. Ora avremmo  bisogno di una grande compattezza della nostra civiltà, della nostra cultura, della grandiosa eredità del nostro continente. Ma appare molto chiaro che aumenta sempre di più l’insofferenza verso un sistema politico centrale che sta dimostrando di non essere capace nè di comprendere nè di gestire questo momento. Anche perchè non esiste nessun leader politico che ha il coraggio di dire la nuda verità: questa crisi non è superabile, perchè la realtà ha prodotto un inatteso boomerang: il capitalismo è finito, non è più in grado e non sarà mai più in grado di produrre benessere. O si va oltre questo paradigma oppure inevitabilmente finiranno per esplodere guerre civili dovunque e comunque.
Siamo già nel post-Maya.
Donald Trump è il primo presidente di questa fase.
Non sappiamo ancora come interpreterà questo ruolo.
Ma una cosa è certa: così come Ronald Regan ha condotto il mondo verso la fine e il crollo del comunismo senza passare per la guerra nucleare, è probabile che Donald Trump ci condurrà, paradossalmente (da miliardario arrogante) verso la fine del capitalismo, evitando una guerra globale.
Speriamo.
Nel frattempo, le borse crollano? Macchè. Volano tutte al rialzo. Come mai?
Perchè Donald Trump è il vero potere forte, questa è la chiave.
Il potere forte è soltanto quello che vince. Per questo è forte. Perchè vince.

Ddl penale, Pd chiede il rinvio: “Votare dopo il referendum”. Ma Orlando: “Rivalutare data”. Grasso: “Basta rinvii”.

Ddl penale, Pd chiede il rinvio: “Votare dopo il referendum”. Ma Orlando: “Rivalutare data”. Grasso: “Basta rinvii”

Maggioranza e governo ancora in ordine sparso sulla riforma che dovrebbe modificare prescrizione e intercettazioni. Il capogruppo Zanda vuole la discussione, ma solo dopo la consultazione popolare. Il ministro della Giustizia però chiede di rivedere il calendario. Grasso chiede che il Pd si chiarisca le idee.


Il Pd va in conferenza dei capigruppo, al Senato, e chiede il rinvio della riforma penale, l’ennesimo, dopo il referendum costituzionale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo poche ore, va in tv e chiede di rivalutare quel calendario perché il disegno di legge può essere approvato entro il 4 dicembre. Maggioranza e governo continuano a ballare intorno alla riforma penale, che – fatta e finita – aspetta di essere votata ormai da mesi dall’Aula di Palazzo Madama. Il motivo è sempre lo stesso: la paura di portare in discussione un testo che da una parte può essere stravolto o, peggio, dall’altra può diventare un rischio serio per la sopravvivenza del governo. Da qui le ripetute toccate e fughe di governo e partiti che lo sostengono, con Orlando che da mesi spiega che la legge è pronta per essere votata e dall’altro la maggioranza che – dopo aver chiesto la discussione perfino “immediata” – si è ritrovata prima a far saltare il numero legale in Aula per tre volte in 15 giorni a settembre e poi addirittura a dare la precedenza al ddl cinema. Il risultato è che la legge è stata tenuta nel limbo dal Pd per la reciproca diffidenza dei vari partiti della maggioranza. Così ora è stato il presidente del Senato Piero Grasso a dire al capogruppo Luigi Zanda che il Partito democratico come minimo deve chiarirsi le idee. Da capire se peserà più la voce del governo, qui espressa da Orlando, o i giochi politici della maggioranza. Rinviare a dicembre, per giunta, potrebbe essere ulteriormente rischioso per il fatto che a un certo punto al Senato arriverà anche la legge di bilancio che pretende ritmi serrati e ha limiti temporali obbligati.
Peraltro ora il governo non ha più nemmeno l’alibi dell’opposizione dell’Anm. Il presidente Piercamillo Davigo e il ministro guardasigilli Orlando infatti si sono presentati insieme, con un’intervista doppia, a DiMartedì, su La7, per chiedere di votare la riforma sul processo penale il prima possibile. Aver messo la riforma in calendario dopo il referendum, ha detto Davigo, “rende più aleatoria l’approvazione delle nostre richieste inserite con modifiche nel disegno di legge sul diritto penale e questo vale in qualunque modo vada il referendum”. “Sono d’accordo – ha aggiunto Orlando – spero si riconsideri la ricalendarizzazione”. Il 29 giugno Grasso e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avevano chiesto di accelerare. Era il 30 giugno 2014 quando Matteo Renzi annunciava in una scenografica conferenza stampa i 12 punti della riforma della giustizia. Dopo oltre due anni la questione resta in alto mare mentre ogni anno decine di migliaia di processi vanno al macero a spese del contribuente.
Il pressing dei Giovani Turchi, la resistenza dei centristi.
In conferenza dei capigruppo Zanda era andato a chiedere di fissare il voto sulla riforma, ma solo dopo il referendum, il 7 dicembre. Un modo per tenere insieme varie sensibilità (votiamo, sì, ma senza scossoni prima della consultazione popolare, già in bilico di suo). Zanda era stato spinto a chiedere di discutere definitivamente la riforma penale in particolare da una pattuglia di senatori del Pd, della corrente di “Rifare l’Italia”, cioè i Giovani Turchi, corrente che esprime lo stesso ministro guardasigilli, Orlando. “È una riforma fondamentale – avevano spiegato in una nota i senatori guidati da Francesco Verducci – Ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene già in questa settimana”. Ma in conferenza dei capigruppo Grasso ha appunto chiesto al Pd di chiarirsi le idee perché la prossima data sarà l’ultima: il presidente del Senato non ha più intenzione di rinviare il voto finale della legge. E d’altra parte a chiedere di far slittare tutto sine die erano stati sempre nella riunione dei presidenti di gruppo Laura Bianconi per Area Popolare e Lucio Barani dei verdiniani di Ala: una fotografia di quanto è delicato questo passaggio per la maggioranza. Tutte divisioni che in questo momento di “campagna referendaria” si punterebbe ad evitare.
Appelli e garanzie di Orlando
E’ così che si spiega come il voto finale non sia ancora arrivato appelli e garanzie del ministro della Giustizia Andrea Orlando che da una parte aveva mediato per far ritirare emendamenti sgraditi ad Area Popolare e dall’altra si era detto convinto e aveva dichiarato più volte che l’accordo era stato raggiunto (l’ultima volta a luglio), chiudendo ad altre richieste dei centristi in senso garantista. Il ddl penale – che contiene tra l’altro riforma della prescrizione e delle intercettazioni – era uscito dalla Camera il 24 marzo 2015, ma già all’epoca il ministro dell’Interno e leader di Ap Angelino Alfano aveva promesso battaglia in Senato. Ma quando, dopo un confronto lungo e serrato, la riforma è arrivata in Aula i senatori di Area Popolare hanno fatto mancare ripetutamente il numero legale. Un segnale di avvertimento più che chiaro.
La maggioranza non si fida di se stessa
Il punto è sempre il solito, infatti: la maggioranza è paralizzata da mesi dalla paura, non vuole portare al voto finale la riforma che lo stesso Orlando, in un’intervista al Corriere di qualche settimana fa, ha definito come quella più “pericolosa” per le stesse sorti del governo. I democratici, in particolare, si trovano tra due fuochi. Da una parte, se non viene posta la questione di fiducia e il voto è “libero”, possono essere presentati emendamenti che – anche con la complicità di qualche voto segreto – possono passare con sinergie trasversali (M5s-Sel-sinistra Pd). E a quel punto il testo avrebbe tonalità meno garantiste e Area Popolare – o parte di questa – potrebbe rifiutarsi di approvare la versione definitiva. Dall’altra, se venisse posta la questione di fiducia, sarebbe un finale da palpitazioni, perché i verdiniani di Ala hanno da tempo annunciato il voto contrario al provvedimento e anche dentro Ncd Udc l’impressione è che Alfano a parole assicuri il controllo pieno delle proprie pattuglie di senatori, ma nei fatti il terreno sia più viscido. I numeri al Senato li conoscono tutti, senza Ala non c’è un cuscinetto di sicurezza e non c’è cosa che irrita gli ex berlusconiani di governo come le questioni della giustizia.
La fiducia bloccata da Renzi
La riprova era stata proprio a settembre quando Alfano – evidentemente non così sicuro dell’atteggiamento dei suoi – aveva chiesto a Orlando di porre la fiducia e il ministro della Giustizia – refrattario alla fiducia – aveva dato il suo ok. Ma tutto era stato fermato dallo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il capo del governo aveva spiegato quella decisione con ragioni di fair-play istituzionale nei confronti dell’Anm: “Non metto la fiducia su un provvedimento per cui i magistrati potrebbero fare sciopero”. Ma nel frattempo è caduto anche quell’alibi poiché Renzi e Orlando hanno incontrato due settimane fa il presidente dell’Anm Davigo a Palazzo Chigi e un eventuale sciopero non pare all’orizzonte.
Davigo: “Non si può fare la guerra su tutto”
Davigo ha dato atto del fatto che Orlando si “è comportato diversamente dai suoi predecessori” e che le ragioni dei magistrati sono state ascoltate anche se non interamente accolte. Al presidente dell’Anm ancora non bastano le modifiche della prescrizione“che non dovrebbe decorrere dopo la sentenza di primo grado” ma “non possiamo fare la guerra su tutto“.
Orlando ha fatto presente che “si fanno le modifiche che consente il quadro politico: all’inizio di questo governo nessuno pensava che avremmo reintrodotto il falso in bilancio, introdotto il reato di autoriciclaggio e rivisto la prescrizione“. Il ministro guardasigilli ha però sottolineato che “se è giusto dare più tempo per fare il processo, non è giusto lasciare che le persone siano sotto processo per tutta la vita“. Da parte sua Orlando ha spiegato che il ddl “ha l’obiettivo di diminuire i processi” con una serie di misure deflattive che possano far sì che i magistrati si concentrino sui reati di maggior allarme sociale. Davigo, toccando l’argomento dell’evasione fiscale, ha contestato la necessità di fare norme sulrientro agevolato dei capitali dato che “tra un anno dagli altri Paesi arriveranno tutti i dati” su chi nasconde i soldi all’estero. Il presidente dell’Anm ha poi riproposto l’idea della “premialità forte” anche fino alla “impunità totale” per chi denuncia la corruzione facendo parte del “sistema”, dato che questo è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Orlando ha difeso la scelta di premiare la collaborazione dei corrotti solo con attenuanti perché sull’impunità assoluta “non sono d’accordo nemmeno i magistrati”.

mercoledì 9 novembre 2016

Donald Trump presidente degli Stati Uniti: choc per i mercati, ma i veri effetti si vedranno nel medio periodo. - Paolo Fior

Donald Trump presidente degli Stati Uniti: choc per i mercati, ma i veri effetti si vedranno nel medio periodo

Wall Street aveva puntato “sull’usato sicuro” rappresentato da Hillary Clinton. Mentre il magnate è imprevedibile e quindi nell'immediato la reazione sarà negativa. Ma la sua vittoria piena potrebbe non avere un esito catastrofico nei prossimi mesi. Dal Ttip alle spese federali, dai trattati alle relazioni internazionali, ecco la linea del nuovo presidente Usa.

Ha vinto a sorpresa, contro ogni pronostico, spiazzando Wall Street che aveva puntato “sull’usato sicuro” rappresentato da Hillary Clinton e dalla sua garanzia di continuità politica con l’amministrazione Obama. La vittoria di Donald Trump, candidato repubblicano sui generis, inviso al partito repubblicano e a praticamente tutto l’establishment statunitense, ha davvero il sapore di una Brexit in salsa americana. Non solo perché ha preso in contropiede i mercati, che nella notte hanno iniziato a scivolare man mano che si materializzava lo spettro di una sua vittoria, ma anche perché ha vinto il candidato che esprime le posizioni più isolazioniste degli ultimi cinquant’anni sotto il profilo dell’economia e del commercio internazionale. Il candidato che in campagna elettorale ha ribadito in tutte le salse non solo la sua contrarietà al Ttip, il trattato di libero scambio con l’Europa che è tutt’ora in fase di negoziazione, ma anche la volontà di rimettere in discussione gli accordi già firmati come il Nafta e il Tpp.
La vittoria di Trump è dunque una doccia fredda per i mercati (almeno nell’immediato, con le borse negative in tutto il mondo) ed è altamente probabile che anche Wall Street reagisca male alla notizia alla riapertura delle contrattazioni. Diversi analisti valutano che l’impatto della sua nomina sulla Borsa si possa tradurre in una correzione del 3-6%, qualcuno si è spinto addirittura a dire dell’8-10%. Ma sarebbe sbagliato pensare che la reazione immediata della Borsa possa dare una misura dell’impatto atteso sull’economia delle politiche della nuova amministrazione: si tratta di una reazione emotiva, in questo caso dettata dal timore dell’ignoto. Trump è un personaggio controverso e imprevedibile, è un populista. Non è un politico, non ha esperienza e, in generale, le sue ricette non paiono in molti casi adeguate al governo di una grande potenza mondiale. Naturale quindi che i mercati reagiscano male.
Statistiche alla mano, però, si può dire che in meno del 50% dei casi l’andamento degli indici di Borsa nel giorno successivo all’elezione del presidente degli Stati Uniti è stato rappresentativo del trend imboccato da Wall Street nei 12 mesi successivi. E occorre anche sottolineare che la vittoria di Trump è una vittoria piena: oltre alla presidenza i repubblicani mantengono la maggioranza alla Camera e conquistano il Senato. In queste condizioni il sostegno alle sue politiche è assicurato, al netto dei problemi di bilancio e dei dissensi in seno al partito. Una situazione opposta a quella che verosimilmente avrebbe incontrato la Clinton se fosse stata eletta.
Trump arriva alla Casa Bianca forte di una leadership piena e raccoglie in eredità un Paese che si è rimesso in carreggiata dopo la tremenda crisi finanziaria del 2007-2009, con un’economia in moderata crescita, una disoccupazione ridotta ai minimi termini e Wall Street ai massimi storici. Un’eredità da maneggiare con cura, perché l’economia sta dando i primi segnali di surriscaldamento, tanto che a dicembre la Federal Reserve dovrebbe decidere l’atteso rialzo di un quarto di punto dei tassi d’interesse, preludio di una graduale inversione di tendenza della politica monetaria. E a preoccupare gli analisti è anche (se non soprattutto) l’ultima ondata di dati trimestrali che ha segnato un sostanziale rallentamento degli utili societari a fronte di una ripresa generalizzata della dinamica salariale. Stipendi più alti stimolano i consumi interni e dunque contribuiscono alla crescita dell’economia, ma dall’altro lato erodono i profitti aziendali. Il combinato disposto tra crescita dei tassi d’interesse e contrazione degli utili potrebbe dunque innescare a breve una decisa correzione sui mercati statunitensi che – come detto – sono da tempo ai massimi storici. In questo quadro delicato, che richiede un attento fine tuning per evitare di soffocare la crescita economica, l’arrivo di Trump rischia di essere dirompente, ma non necessariamente in senso negativo.
Le sue ricette di politica economica, ricette dalla forte impronta reaganiana, potrebbero avere a medio termine un effetto benefico sulla crescita, anche se nel lungo periodo possono creare gravi squilibri nei conti pubblici. Discorso che vale in particolare per la drastica riduzione delle aliquote fiscali promessa in campagna elettorale: dal 39,6 al 33% la massima aliquota individuale e, soprattutto, il taglio dal 35 al 15% delle tasse alle imprese. Una mossa che, secondo le stime del Tax Policy Center, potrebbe costare 7.200 miliardi di dollari in termini di minori entrate nei primi 10 anni e fino a 21.000 miliardi nei successivi 10 anni.
Un forte impatto sulla crescita potrebbe averlo anche il piano di investimenti in infrastrutture che da solo potrebbe valere oltre 500 miliardi di dollari l’anno. La necessità di rilanciare gli investimenti infrastrutturali era un punto in comune nei programmi di Trump e della Clinton, ma la differenza sta nel come finanziarli. Mentre la candidata democratica ipotizzava un incremento della tassazione a carico dei cittadini più abbienti e dei profitti aziendali parcheggiati all’estero, Trump ha promesso tagli alle spese federali, riduzione degli sprechi e il lancio sul mercato di emissioni obbligazionarie ad hoc. Come ulteriore stimolo, in campagna elettorale il neopresidente ha promesso una forte deregulation in molti settori, dalla finanza all’ambiente, con l’obiettivo di mettere il propulsore alla crescita, portandola dall’attuale 2% al 4% annuo. Quanto poi Trump possa realizzare queste promesse è tutto da vedere, ma nell’arco di qualche anno l’impatto teorico del pacchetto sull’economia Usa può essere significativo, anche se al prezzo di un netto peggioramento delle condizioni materiali degli americani più poveri (tra le prime cose a saltare ci sarà l’Obama care, cioè il programma di assistenza sanitaria ai più bisognosi) e delle condizioni dell’ambiente, specie se verranno cancellate le attuali normative sulle emissioni.
Un aspetto delicato della presidenza Trump sarà quello delle relazioni internazionali, in particolare in ambito commerciale. La volontà dichiarata di rinegoziare i trattati può avere ripercussioni non banali sulle imprese americane e sulla loro possibilità di accedere ai mercati qualora l’alzata di scudi isolazionista finisca con il concretizzarsi davvero, anche se pare altamente improbabile soprattutto per via del peso delle grandi lobby industriali e finanziarie che si opporrebbero con forza a mosse per loro penalizzanti. In realtà, superato lo shock iniziale della vittoria a sorpresa di Trump, occorrerà vedere quale equilibrio si creerà nei prossimi mesi con i grandi attori economici. Se è possibile che a medio termine l’economia americana tragga beneficio dal programma del nuovo presidente, è molto più incerta invece la ricaduta che queste elezioni possono avere sull’Europa e la sua economia ed è sicuro che non è una buona notizia per i Paesi emergenti, a partire ovviamente dal Messico la cui valuta ha già iniziato a subire i contraccolpi della vittoria di Trump.