lunedì 12 aprile 2021

RENZI SERVITORE DI DUE PADRONI. - GIAN GIACOMO MIGONE

 

La cronaca di questi giorni costituisce una sfida con pochi precedenti per il Parlamento. Il presidente del Consiglio, a mio avviso giustamente, lo ha indicato come la sede privilegiata in cui spiegare e rispondere del suo operato (“strict accountability“).

Proprio perché del governo presieduto da Mario Draghi il Paese non può fare a meno, senza gravi danni per la sua salute e la sua vocazione europeista, ormai maggioritaria, di cui egli ed esso costituiscono il suggello, diventa indispensabile chiamarli a rispondere, in quella sede, della mancanza di trasparenza, gravi incongruenze e potenziali conflitti d’interessi nella consulenza affidata alla statunitense McKinsey & Co.

Le spiegazioni finora fornite dal Mef semmai le aggravano, minimizzandone il contenuto, facilmente gestibile in Italia e in Europa, e vantando un costo così ridotto da richiedere un controllo di potenziali conflitti d’interesse a valle dei progetti trattati. Inoltre, il presidente del Consiglio, già direttore generale del Tesoro, governatore della Banca d’Italia e, successivamente, vice presidente di Goldman Sachs, dovrà tenere conto della delicatezza della sua posizione in merito all’opportuno dibattito in corso anche in Italia, sull’alternarsi di responsabilità e impegni privatistici (“revolving doors“).

Una corretta funzione di controllo da parte del Parlamento in quanto istituzione può costituire elemento di riscatto per la funzione politica indispensabile in democrazia. A questo proposito vi è anche da chiedersi se il Senato si appresti a sottrarre il senatore Renzi ad una condizione anche per lui indecorosa di servo di due padroni.


Libertàgiustizia

Italia, l’ufficio complicazione affari semplici lavora giorno e notte. - Milena Gabanelli e Rita Querzè


L’efficienza di un Paese si vede anche dalla chiarezza con cui comunica ai cittadini la propria attività. Ogni servizio è classificato con un nome o un acronimo, e se li cambi spesso, anche quando la sostanza rimane identica, la gente non capisce più di cosa stai parlando.

Purtroppo l’ufficio complicazione affari semplici lavora giorno e notte. La Dad, didattica a distanza, lo scorso settembre, con l’inizio del nuovo anno scolastico, è diventata Did (didattica integrata a distanza), ma gli studenti continuano a fare sostanzialmente la stessa cosa, cioè seguire le lezioni dal computer.

Cambiare nome a volte serve solo a marcare la differenza fra un governo e l’altro. Prendiamo i provvedimenti che servono a risarcire chi è stato danneggiato dalla pandemia, con Conte si chiamavano «Ristori», con Draghi sono diventati «Sostegni». Che cosa c’è di nuovo? Niente.

Il nuovo governo ha cambiato il nome anche ad alcuni ministeri: quello dell’Ambiente è diventato della Transizione ecologica (Mite), quello delle Infrastrutture e dei Trasporti è ora delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili. Ci eravamo abituati al Mit, non sarà immediato familiarizzare con il Mims.

Il ministero per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione è diventato ministero della Transizione tecnologica e dell’Innovazione digitale. Maquillage o sostanza? Vedremo.

Anche gli enti cambiano spesso carta d’identità. Un esempio su tutti: Equitalia. Molti presero alla lettera nell’estate 2016 il «Bye bye Equitalia» dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, e così da luglio 2017 è stata sostituita da Agenzia entrate-riscossione.

Equitalia era una spa (partecipata al 51% dall’Agenzia delle Entrate e al 49% dall’Inps) mentre adesso è un ente pubblico economico, sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Economia.

Si sarebbe potuto fare questo passaggio mantenendo il nome, visto che «i contribuenti troveranno nuovo logo, nuova modulistica, mentre i servizi saranno svolti in continuità con la precedente gestione», diceva l’ultima nota della stessa Equitalia, prima di dissolversi.

E infatti le cartelle esattoriali si sono continuate a pagare come sempre. Ma qui la questione di fondo era proprio il nome: Equitalia aveva una brutta reputazione. Il problema è che cambiare insegne, carta intestata, sistemi informatici, biglietti da visita ha un costo per lo Stato, e quindi per i cittadini.

Certo non tutti i cambi di nome sono operazioni di marketing, per esempio l’Agenzia delle Entrate: è nata nel 2001 da una costola del ministero delle Finanze che agiva attraverso le intendenze di finanza sul territorio.

A differenza del ministero, l’attività dell’agenzia è basata sull’autonomia, solo gli obiettivi da raggiungere sono concordati attraverso un contratto di servizio. I risultati parlano: l’indice di redditività (il rapporto tra i costi dell’agenzia e le entrate garantite dal suo lavoro) è salito da 1,93 del 2008 a 6,32 del 2019. Il caso della tassa sui rifiuti è un esempio da manuale.

Negli anni Novanta si decide di dare agli enti locali maggiore potere impositivo con il federalismo fiscale. E quindi dal 1993 al 1997 gli italiani hanno pagato la Tarsu, cioè la Tassa per lo Smaltimento dei Rifiuti solidi urbani.

Nel 1997 con il decreto Ronchi è stata istituita la Tia, Tariffa di igiene ambientale. Nel dicembre 2011 è arrivata la Tares, con il decreto Salva Italia. Infine, nel dicembre 2013 è stata introdotta la Tari con la legge di Stabilità.

Poi diversi Comuni hanno continuato lo stesso con la Tares perché la legge lo consentiva. Inoltre ogni Comune può gestire con una certa autonomia esenzioni e agevolazioni, creando un’enorme confusione.

Con la tassa sugli immobili non è andata meglio. C’era una volta l’Ici, Imposta comunale sugli immobili introdotta dal governo Amato nel 1992. Il governo Prodi la tolse sulle prime case ai redditi bassi. Berlusconi la cancellò del tutto nel 2008, ma per le seconde case nel 2011 istituì l’Imu (imposta municipale propria).

Nel 2012 il governo Monti la allargò alle prime case. Nel 2013, però, venne di nuovo tolta da Letta (fatta eccezione per quelle di lusso), che poi introdusse la Iuc, formata da Tasi (tassa sui servizi indivisibili), Tari (tassa sui rifiuti) e Imu. Nel 2019 il governo Conte la abolisce e infine nel 2020 nasce la «Nuova Imu» accorpando Tasi e Imu.

Per promuovere l’informatizzazione della pubblica amministrazione si è partiti nel 1993 con l’Aipa, Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, che nel 2003 è diventata CniPa (Centro nazionale per l’Informatica nella Pubblica amministrazione) e poi nel 2009 DigitPa. Infine nel 2012 Agid (Agenzia per l’Italia digitale).

Non si può dire che la digitalizzazione della Pa sia stata tanto rapida quanto i cambi di nome. Per fare funzionare i centri per l’impiego è indispensabile l’incontro tra la domanda e l’offerta.

Nel 1997 viene istituito il Sil, sistema informativo lavoro. Nel 2003 è stato sostituito dalla Borsa continua nazionale del Lavoro. Nel 2010 è stato creato un nuovo portale, Cliclavoro. Cambiato nome tre volte, ma il risultato è rimasto sempre lo stesso: l’incontro domanda-offerta non è mai partito.

Sempre in materia di lavoro, nel 1996 è stata fatta una importante riforma: in pratica è stata data la possibilità ai privati di fare intermediazione di manodopera. Sono nate le cosiddette agenzie del «lavoro in affitto». Poi diventate del «lavoro interinale». Ora siamo passati al «lavoro somministrato». La sostanza però è sempre rimasta la stessa: un’agenzia per il lavoro ti assume a termine o a tempo indeterminato, e poi ti distacca in un’altra azienda per un certo periodo.

Nel 1993 le Usl si trasformano in aziende e diventano un organo di competenza delle Regioni. Il cambio è radicale, e giustamente si cambia nome: da Usl si passa ad Asl (Azienda sanitaria locale). Ma molte Regioni se ne inventano uno nuovo: in Alto Adige si chiama Asdaa, in Basilicata Asm, in Calabria Asp, Ausl in Emilia Romagna e in Toscana, Asu e As in Friuli-Venezia Giulia, Ats in Lombardia e in Sardegna, Asur nelle Marche, ASReM in Molise, Asp in Sicilia, Apss in Trentino, mentre in Umbria sono rimaste Usl.

Dov’è il senso di questa Babele? Prendiamo la pianificazione urbanistica: differente da Regione a Regione, genera non poche difficoltà a cittadini e imprese. Buttato il Prg (Piano Regolatore), ora abbiamo in Lombardia il Pgt, in Campania il Puc, il Pug in Emilia Romagna, in Veneto i PI, Prc, Pat; e ancora i Psc e i Poc in Toscana, i Pot e i Reu in Calabria.

Senza dimenticare i Pums, e cioè i piani urbani della mobilità sostenibile, i Pup, vale a dire i piani urbani dei parcheggi, i Pcv ossia quelli del verde urbano, e i Pdc, quelli del commercio.

Infine: dal 2001 a oggi siamo passati da due soli titoli edilizi, il «permesso di costruire» e la Dia (dichiarazione di inizio attività del privato), a una molteplicità di istituti giuridici: «Cil» (introdotta nel 2010 ed eliminata nel 2016), «Cila», «Scia».

Quello che cambia è solo la procedura. È fin troppo scontato dire che nella grande ragnatela della Pubblica amministrazione un cambio di nome si giustifica solo con l’introduzione di novità di sostanza, proprio per non disorientare i cittadini.

Quel che invece succede, soprattutto quando qualcosa non funziona perché gestito male, si cambia l’etichetta per dare l’idea di grandi innovazioni, anziché correggere le storture. Che infatti rimangono.

E intanto la confusione aumenta. Insieme alla spesa generata da continue quanto inutili trasformazioni. Sembra quasi una regola: rendere tutto incomprensibile, perché se sei chiaro, diventa chiara anche l’inefficienza. 

Corriere della Sera da Infosannio

Calabria. Spiragli di rinascita: “Ora i pentiti parlano, i cittadini protestano e denunciano”. - Nando dalla Chiesa

 

Gli urli bisogna sentirli. Dopo che ho dedicato questa rubrica a una preside di Vibo Valentia, sempre da Vibo mi è giunta una lettera. L’ha scritta un quarantenne di Libera che ha fatto una scelta radicale: lavorare per un bene confiscato ai potenti Mancuso di Limbadi. È una richiesta di aiuto. Perché, mi chiede, non vedete che cosa sta accadendo quaggiù e in particolare nella mia città? Fatti importanti, dice, che contraddicono gli stereotipi nazionali.

“Siamo di fronte a una grande opportunità nel contrasto culturale alla ’ndrangheta”. Leggo e gli do ragione. Giuseppe Borrello, così si chiama l’autore, sottolinea tre cose. Primo, la società civile non subisce più in silenzio “angherie e soprusi”, “un potere violento che è stato la causa di sottosviluppo, negazione dei più basilari diritti, povertà ed emigrazione”. Continuano le manifestazioni di opposizione, spiega, “ma su tutte ritengo fondamentale ricordare l’iniziativa svoltasi a Vibo Valentia il 24 dicembre 2019, all’indomani dell’operazione Rinascita-Scott. Quando migliaia di persone si sono ritrovate unite dalla parte dello Stato. Una reazione che neanche noi pensavamo potesse essere così copiosa, una presa di posizione forte, non scontata. Soprattutto in contesti piccoli come quelli che viviamo e dopo un’operazione elefantiaca nei numeri”. Sa, mi chiede, che cosa vuol dire da noi vedere una folla di giovani schierarsi fisicamente con le divise? Altro che omertà generale, sembra dire. E subito consegna le altre due novità.

“Sono sempre di più gli appartenenti alle ’ndrine che decidono di collaborare con la giustizia. Esponenti di spicco della ’ndrangheta nostrana che, fornendo elementi utili per le indagini, ci restituiscono pezzi di storia importante del nostro territorio disvelandone trame e intrecci, connivenze e deferenze, come, per esempio, Andrea Mantella. Oppure, ancora, figure emblematiche, come Emanuele Mancuso o Walter Loielo, la cui collaborazione dimostra il venir meno di quell’immagine ermetica e granitica propria della ’ndrangheta, dettata appunto dai legami di sangue”. Non solo dunque si leva una nuova voce dalla società civile, ma qualcosa si sgretola all’interno del mondo maledetto.

La terza novità è perfettamente in linea con le altre due: l’aumento delle denunce, frutto di una recuperata fiducia nei confronti dello Stato. “Più volte, il procuratore di Vibo e il comandante provinciale dei Carabinieri hanno confermato in pubblico questo dato. Lo Stato oggi, a Vibo Valentia, ha recuperato la propria centralità, almeno dal punto di vista repressivo, ed appare forte e credibile perché credibili ed io aggiungerei immensamente umane, sono le persone, uomini e donne, che lo rappresentano”. Perché non cogliere queste novità, perché non raccontarle? Perché l’antimafia deve essere solo quella, certo importantissima, degli arresti?

L’autore della lettera è troppo giovane per saperlo. Ma a me le sue parole ricordano quel che accadde in Sicilia 35 anni fa. La società civile si svegliava, si organizzava, le scuole annunciavano nuovi orizzonti e l’Italia vedeva sempre e solo il maxiprocesso. Osservava la superficie luminosa ma si annoiava o rifiutava la piccola fatica di guardare appena un palmo sotto.

Proprio come oggi in Calabria, anche tra gli intellettuali locali, denuncia Giuseppe: “Si tratta di aspetti importanti per i quali, purtroppo, credo manchi la giusta consapevolezza, sia a livello regionale che nazionale. Il dibattito politico e culturale si nutre di divisioni, faziose e strumentali, a favore o contro quel magistrato o quell’inchiesta, senza rendersi conto di correre il rischio di perdere un’occasione irripetibile”. No, davvero non perdiamola questa occasione. Si esiste se si è raccontati, alla lunga. E quel pezzo di Calabria che si ribella ha, tra i suoi tanti diritti, appunto quello di essere raccontato.

IlFattoQuotidiano

Gli attacchi del faccendiere: “Giuseppe è un uomo Beta”. - L.Giar.

 

Dalle liste della P2 alle condanne alla campagna pro Renzi per buttare giù l’avvocato: “Non sa governare, ha fallito”.

“Incapace”, “vanitoso” e “presuntuoso”. Cosa pensasse Gianmario Ferramonti di Giuseppe Conte lo ha scritto ieri il Fatto quotidiano, anticipando l’inchiesta di Report di questa sera: “un cretino” da silurare insieme al suo governo, tanto che Ferramonti, “gelliano” ed ex tesoriere della Lega, nei mesi scorsi aveva contattato Maria Elena Boschi e millantava “un milione di voti” da portare in dote a Italia Viva se avesse fatto cadere l’esecutivo. Per capire che aria tirasse in certi ambienti massonici, però, c’era una cartina di tornasole ben più alla luce del sole: nell’ultimo anno, sui giornali del forzista Antonio Angelucci sono comparse decine di articoli a firma di Luigi Bisignani, giornalista il cui nome comparve nelle famose liste della P2, tutti con toni durissimi nei confronti di Conte, più volte invitato ad andarsene da Palazzo Chigi.

Già il primo marzo 2020 Bisignani lanciava anatemi sul Tempo: “Giuseppi è al capolinea”. Svolgimento: “Conte è uno yogurt scaduto e l’addio è ormai scritto. Non solo per l’incapacità di gestione del coronavirus, per l’isolamento internazionale e per la crisi economica in cui ha gettato l’Italia, ma semplicemente perché non sa governare”. Il 9 marzo, questa volta su Libero, una nuova sentenza: “Gestire una crisi per un premier può essere un’opportunità. Per Conte sarà una catastrofe”. Il 12 aprile 2020, Bisignani sembra profetizzare l’invito di Ferramonti alla Boschi: “Perché Renzi non molla Conte?”. Siamo ancora sul Tempo di Angelucci e il Nostro sembra aver perso la pazienza: “Cosa dovrà mai ancora succedere affinché Renzi ritiri i suoi ministri da questo governo arronzato, incapaci di gestire il pre, il durante e il dopo Covi-19? La speranza è che Renzi riesca a rimettere in moto la politica e non permetta che Giuseppi si faccia il suo partito di manettari e diventi un dittatorello sudamericano”.

L’unica speranza, insomma, sembra Italia Viva e per legittimare questo smodato desiderio di un ribaltone a Palazzo Chigi, Bisignani dipinge un presidente del Consiglio allo sbando: “Il Papa stufo di Giuseppi” (28 aprile 2020), “Il Colle s’è stufato di Conte” (3 maggio), “I cattolici scomunicano Conte” (31 maggio), “I mercati ci mandano al voto” (12 luglio). Niente male per il leader più apprezzato nei sondaggi. Il 6 settembre Bisignani sembra fiutare la crisi: “I disastri economici e sociali stanno logorando il premier. L’incantesimo sta finendo”. Passa un mese e il 4 ottobre c’è un’altra fatwa: “Stretta mortale su Conte”: “Da un momento all’altro rischia di inabissarsi il suo intrepido volo nella galassia del potere”. Il 15 novembre è il Colle a “perdere la pazienza” e ormai è questione di ore: “La tempesta perfetta sul governo Conte sta per arrivare”, anche perché il premier “continua a infilare clamorosi autogol che indeboliscono ulteriormente la sua credibilità”.

Ad anno nuovo, quando Italia Viva sta per realizzare i sogni di Bisignani, lui si concede gli ultimi ritratti al cianuro: “Conte non ha messo da parte la sua infinita vanità”, un “tipico uomo beta che si è fatto le ossa all’ombra di uomini alfa” (3 gennaio). Il 14 gennaio, Renzi ritira le ministre di Iv e Bisignani brinda: “Conte ha fallito, torni a casa”. Il premier “è solo al comando, ma non decide”, “risponde solo ai dioscuri che si è scelto e che lo guidano nella gestione della sua vanità”. Secondo Bisignani, “è dall’estate scorsa che, tra ridicole task force, Colao e Stati generali, tiene bloccato il Paese”(17 gennaio). Insomma, “Conte è rimasto solo, lasci Palazzo Chigi”(24 gennaio), ormai “chiuso in una bolla ha perso il contatto con la realtà”.

Per fortuna che poi arriva Mario Draghi coi suoi migliori e la musica cambia :”Supermario è l’opposto di Conte” (7 febbraio): “Grazie a Renzi e a Mattarella, l’Italia avrà finalmente un governo autorevole”. Draghi “è proprio l’antipode di Conte”, anche solo per meriti dinastici: il primo “nato e cresciuto a Roma, figlio d’arte di un funzionario della Banca d’Italia”, l’altro “è nato in un paesino del foggiano, con un papà segretario comunale”. Abbastanza per giustificare la crisi.

IlFattoQuotidiano

Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio

 

Camillo, penso. “Cavour fece il trasferimento da Torino a Firenze della nostra capitale” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 11.4). Purtroppo Cavour morì prematuramente nel 1861 e la capitale fu trasferita a Firenze nel 1865. Ma Repubblica non la leggono nemmeno i suoi redattori?

Brum-brum. “A metà aprile 500mila vaccini al giorno” (gen. Francesco Paolo Figliuolo, 20.3). “Anziani al sicuro, il governo accelera: 3 milioni di vaccini in 10 giorni” (Repubblica, 10.4). “Il governo ora accelera. Figliuolo: ‘Sei milioni di vaccini agli anziani in un mese’” (Stampa, 11.4). Non riuscendo a fare 500mila vaccini al giorno, e nemmeno 300mila, se ne annunciano 3 milioni in 10 giorni (cioè 300mila al giorno) e poi 6 milioni in 30 giorni (cioè 200 mila al giorno). Ma mica si frena: si accelera.

Maglieria intima. “La depressione post partum di Chiara Ferragni produce denunce politiche feroci alla Lombardia. Sempre la vecchia storia di fare il proprio mestiere (si fa per dire)…” (Maria Giovanna Maglie, “giornalista”, Twitter, 2.4). Resta da capire che mestiere faccia la Maglie.

Lecca-Letta. Bruno Vespa: “Buonasera, lei sa quante volte è venuto qui a Porta a Porta?”. Enrico Letta: “Due, tre, quattro…”. Vespa: “No, 48 volte!” (Porta a Porta, segnalato da @nonleggerlo.it, Rai1, 1.4). Sono soddisfazioni.

Barbarie. “Avrei preferito Wallace di Braveheart ai rapporti con le correnti. Temo che Conan il barbaro sia troppo fondamentalista” (Andrea Marcucci, presidente uscente dei senatori Pd, a Letta che scherza su Arnold Schwarzenegger delegato ai rapporti con le correnti Pd, Twitter, 1.4). E provare con Onan il Barbaro?

Bel suol d’amore/1. “Draghi vola in Libia per blindare Dbeiba e fermare i migranti” (Stampa, 6.4). Con la sola forza del pensiero.

Bel suol d’amore/2. “C’è un alito di vento fresco che sa di futuro, ha spazzato via le nubi di sabbia e riecco il sole, il lungomare di Tripoli coi bambini sui rollerblade, il meraviglioso Macchiato cremoso nei caffè all’italiana. Quiete e speranza nel traffico caotico paralizzato dalla visita, attesissima, di Mario Draghi. Se solo metà della carne che il premier italiano e il primo ministro libico hanno messo al fuoco non diventerà l’ennesimo tizzone di speranze in fumo, questa missione non segna solo un punto fermo politico ed economico: scrive una pagina di Storia” (Paolo Brera, Repubblica, 6.4). Gli editori stanno già bruciando milioni di manuali.

Slurp. “Il neo-lettismo è Bim Bum Bam. Autoironia sui social, Subbuteo. Il segretario Pd sceglie la cultura pop per scardinare il passato” (Massimiliano Panarari, Espresso, 11.4). Il Viminale sta già transennando i seggi.

Colpa nostra. “Altre dosi in ritardo e 255 iniezioni a Pasqua e Pasquetta. La rabbia di Figliuolo” (Giornale, 7.4). Questo ce l’ha di nuovo con noi.

Annamo bene. “Figliuolo sul piano vaccini della Lombardia: ‘È coerente con quello nazionale’” (Corriere, 1.4). Quindi, a occhio, è sbagliato quello nazionale.

Timori. “Italia viva teme l’addio di Renzi” (Repubblica, 6.4). Teme?

Un po’ per uno. “Roma, il centrodestra torna a puntare su Bertolaso” (Corriere, 1.4). Dopo i lombardi, anche i romani han diritto a un po’ di svago.

Massimo Stratega. “Mio caro Conte, avete sbagliato politica estera”, “Il volo improvvisato a Bengasi e le modalità con le quali è stato organizzato il rilascio dei 18 pescatori sequestrati, con tanto di photo-opportunity pretesa da Haftar, restano una pagina opaca della nostra storia diplomatica” (Massimo Giannini, Stampa, 7.4). Invece di scomodarsi, bastava indire una conferenza stampa e dare del dittatore ad Haftar.

Tubinga or not Tubinga. “Nardella: ‘Pronti a portare a Firenze il modello Tubinga’” (Foglio, 1.4). Ma non è più pratico esportare Nardella a Tubinga?

Sindacato Tangentari. “L’insulto del Senato alla storia del sindacato: vaffa a Del Turco” (Piero Sansonetti, Riformista, 1.4). Giusto: a insultare il sindacato non è un sindacalista che intasca 850mila euro di tangenti, ma il Senato che applica le norme e gli leva il vitalizio.

L’ideona. “’Nessun danno erariale’. Bertolaso assolto dopo 8 anni di gogna sul G8 del 2008 spostato dalla Maddalena a L’Aquila” (Giornale, 10.4). In effetti organizzare il G8 in un posto e poi farlo in un altro fu un affarone.

Il titolo della settimana/1. “Fontana è stato trasparente: indagato” (Libero, 1.4). S’è solo scordato un conto in Svizzera e due firme false, che sarà mai.

Il titolo della settimana/2. “Letta vede Renzi, ma gli preferisce Conte” (Foglio, 7.4). Ingrato: dopo tutto quel che ha fatto Renzi per lui.

Il titolo della settimana/3. “Letta e Renzi parlano di sindaci e Colle. ‘Serve intesa su un nome forte’” (Repubblica, 7.4). Io ci vedrei bene bin Salman.

Il titolo della settimana/4. “AstraZeneca ha effetti collaterali. Ma è comunque meglio del Covid” (Domani, 8.4). Quindi se, prima di vaccinarvi, vi chiedono se volete una dose di Covid o una di AstraZeneca, sapete già cosa rispondere.

IlFattoQuotidiano

domenica 11 aprile 2021

La roulette Russa.

 

La roulette russa è reato e come tale va condannato.
Anche Astrazeneca è una roulette russa, ma è obbligatorio accettarlo, chi lo rifiuta non si vaccina...
Ma anche vietare il vaccino a chi rifiuta Astrazeneca è reato, in quanto il vaccino è obbligatorio.
Che si fa allora?
Si accetta il vaccino e se si verifica qualche contrarietà, come la morte del vaccinato con Astrazeneca, si ricorre in tribunale e si obbliga chi ha obbligato ad accettare il suddetto vaccino al versamento di un buon risarcimento economico ai congiunti del malcapitato "obbligato", ucciso da un triste gioco: la roulette russa considerato reato se lo commette un comune mortale, diventato un obbligo se imposto dal governo.
Semplice, non credete?

Cetta.

«AstraZeneca viola il contratto»: la lettera-ultimatum dell’Europa. - Federico Fubini

 

L’intimazione dei legali inviata il 19 marzo scorso scadeva due giorni fa. L’avvertimento che lascia già pensare a una richiesta di danni al gruppo anglo-svedese: «Ponete rimedio ai ritardi o ci saranno delle conseguenze».

È un «preavviso scritto di una lite» che può diventare la madre di tutte le battaglie legali nate dalla pandemia. Ma soprattutto, è un ultimatum che sta scadendo. Per mano di Sandra Gallina, l’italiana che guida la direzione generale Salute e che ha negoziato i contratti sui vaccini,il 19 marzo la Commissione europea ha scritto ad AstraZeneca. Destinatari Iskra Reic, vicepresidente esecutiva per l’Europa e il deputy General Councel — l’avvocatessa aziendale — Mariam Koohdari. L’accusa di Bruxelles è precisa: «A seguito di un’analisi dettagliata di tutte le informazioni — si legge — siamo giunti alla conclusione che AstraZeneca ha violato e continua a violare le sue obbligazioni contrattuali sulla produzione e la fornitura delle 300 milioni di dosi iniziali per l’Europa».

Le implicazioni, poi, sono altrettanto nette: «Vi chiediamo formalmente e vi diamo preavviso di porre rimedio alle sostanziali violazioni contrattuali entro venti giorni da questa lettera». E ancora: «Vi diamo preavviso di recuperare senza ulteriori ritardi sull’arretrato nella produzione e consegna delle dosi e di mitigare qualunque danni causato». Anche perché — osserva sempre la lettera di Sandra Gallina da Bruxelles — «sottolineiamo che la sostanziale violazione dell’accordo di acquisto da parte della vostra azienda può portare a conseguenze drammatiche per la vita, la salute e la libertà di milioni di cittadini europei nella crisi Covid-19». Fra le righe, si profila già una richiesta di danni a AstraZeneca potenzialmente per cifre molto elevate. E poiché la missiva di Bruxelles (di cui è apparsa notizia per la prima volta su Les Echos in Francia) è stata inviata il 19 marzo, la situazione è chiara: l’ultimatum è scaduto due giorni fa senza che siano conosciute, al momento, reazioni da parte dell’azienda.

La requisitoria della Commissione è molto articolata, al punto da occupare sei pagine. Bruxelles sostiene che le violazioni sarebbero numerose: AstraZeneca avrebbe incassato un sostanziale anticipo in estate sulla base di impegni poi lasciati cadere (al punto che nel tardo autunno la Commissione si rifiutò di versare una seconda rata); avrebbe di fatto promesso le stesse dosi a più committenti pur garantendo il contrario nel contratto con la Commissione europea; e avrebbe incomprensibilmente tardato nella sua richiesta di autorizzazione del suo vaccino presso il regolatore europeo Ema.

Gallina contesta al gruppo anglo-svedese che non avrebbe neppure compiuto quel che nel contratto fra le due parti del 27 agosto scorso viene definito il «best reasonable effort» (un impegno con la «massima diligenza ragionevolmente possibile») di rispettare il calendario di fornitura. Questo prevedeva fra 30 e 40 milioni di dosi entro la fine del 2020, fra 80 e 100 milioni nei primi tre mesi di quest’anno e il resto dei 300 milioni previsti entro la fine di giugno. Invece la «violazione degli obblighi» si estrinseca nel fatto che a fine marzo l’azienda aveva fornito solo 30,12 milioni di dosi, circa un quarto del previsto.

Per Bruxelles, non può essere stata solo sfortuna per il cattivo esito nella produzione di alcuni lotti. La lettera sottolinea che la Commissione aveva pagato una prima rata di 227 milioni di euro subito dopo la firma del contratto in agosto, proprio per mettere l’azienda in grado di partire con le forniture al più presto. Ma rivela anche che i problemi erano iniziati subito: il versamento di una seconda rata da 112 milioni era stato sospeso in autunno «a causa della mancanza da parte di AstraZeneca della rendicontazione richiesta» (all’epoca Bruxelles aveva tenuto la questione riservata).

Corriere della Sera