lunedì 19 dicembre 2016

Flussi di migranti dal Niger azzerati: li aiutiamo davvero a casa loro? - Andrea Spinelli Barrile

Migranti Agadez
Un gruppo di migranti sul retro di un grande camion che offre loro un passaggio attraverso la città di Agadez. Niger, 25 maggio 2015. REUTERS/Akintunde Akinleye.


Giovedì 15 dicembre il Consiglio d'Europa, la riunione di tutti i leader europei che si tiene a Bruxelles, ha lodato il presidente del Niger Mahamadou Issoufou per il lavoro che il Paese africano sta facendo nell'ottica di arrestare i flussi migratori che lo attraversano. Nel corso di un vertice quadrilaterale tenutosi prima della riunione nella sede della rappresentanza tedesca nella capitale belga, cui hanno partecipato Issoufou, il Presidente francese Francois Hollande, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il neo-primo ministro italiano Paolo Gentiloni, è stato inoltre siglato un accordo di sostegno finanziario di questi tre Paesi europei (più Spagna) al Niger.
Secondo Ansa l'accordo vale circa 100 milioni di euro e “cerca di mettere più forza nella gestione dei flussi migratori dal Niger verso la Libia”. Questa mattina la Reuters ha pubblicato un'agenzia che quantifica diversamente l'offerta europea al Niger, circa 610 milioni di euro“Consideriamo che il Niger è l'anticamera dei flussi migratori verso la Libia […] nel contesto di una politica che deve fare molti passi avanti, adesso insieme a Francois Hollande e Angela Merkel e con il presidente nigerino Issoufou ne facciamo uno piccolo ma significativo" ha spiegato Gentiloni all'agenzia Ansa al termine del vertice.
Mercoledì 14 dicembre la Commissione europea aveva elogiato pubblicamente la collaborazione di Niamey per rallentare e bloccare i flussi di migranti che dall'Africa occidentale attraversano il Niger diretti in Libia, una collaborazione che secondo l'Unione Europea ha ridotto del 98 per cento il numero delle persone che attraversano il Sahara passando dal Niger. Erano stati 70.000 nel mese di maggio e sono diventati appena 1.500 nel mese di novembreJeune Afrique riporta che “il Niger è stato definito un bravo studente”Secondo l'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) tra febbraio ed aprile 2016 erano stati 60.970 i migranti ad aver attraversato il Niger. Si tratterebbe del successo più importante dei partenariati UE-Africa (dal processo di Khartoum al Migration Compact) per fermare e gestire i flussi migratori: accordi simili sono stati siglati dal Senegal, dal Mali e dalla Nigeria, oltre che dall'Etiopia. Ma sono in essere partenariati simili anche con paesi non africani come Afghanistan, Giordania, Libano e Turchia.
Alla fine di ottobre 2016 le autorità nigerine hanno assicurato 102 trafficanti di esseri umani alla giustizia, sequestrato 95 veicoli utilizzati da questi per trasportare i migranti e addirittura arrestato 9 gendarmi colpevoli di essersi fatti corrompere dai trafficanti, oltre ad aver rispedito nel paese d'origine 4.430 persone (numeri forniti dall'OIM).
I numeri che parlano della cooperazione con il Niger vanno analizzati per quello che sono e, soprattutto, bisogna pensare che quello che conduce alla traversata del Mediterraneo non è un viaggio breve. In generale dal giorno della partenza a quello dello sbarco passano mesi, se non anni, e probabilmente gli effetti in termini numerici saranno evidenti, forse, solo tra un po'. Solo così è spiegabile l'aumento considerevole (sopratutto nel mese di ottobre) di migranti provenienti dall'Africa occidentale.
Per comprendere e quantificare il peso che potrebbero avere queste politiche di cooperazione sui flussi migratori bisogna guardare il prospetto che il Ministero dell'Interno italiano redige con rigorosa puntualità: dal 1 gennaio al 15 dicembre 2016 in Italia sono sbarcati 178.802 persone - quasi il 20 per cento in più dello scorso anno - e di queste 56.276 provengono da Nigeria, Senegal e Mali, flussi che generalmente attraversano il Niger. Inferiori sono stati invece i flussi provenienti dall'Africa orientale (Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan in particolare), forse anche in questo caso per effetto degli accordi bilaterali tra Italia ed Eritrea e tra Italia e Sudan. Ai migranti dall'Africa dell'ovest andrebbero sommati almeno una parte delle persone provenienti dal Senegal (9.946 persone), dal Gambia (11.545), dalla Guinea (12.811) e dalla Sierra Leone: in Niger quasi tutte queste persone stazionano nel campo profughi ad Agadez, in pieno Sahara, territorio dei Tuareg.
Agadez è un luogo fondamentale per capire ed osservare il fenomeno delle migrazioni dall'Africa occidentale: un tempo era una città fiorente, crocevia delle carovane e conosciuta per il mercato dei cammelli, dell'argento e per i suoi artigiani conciatori di pelli. Il suo centro storico è Patrimonio UNESCO riconosciuto dal 2013 ma già negli anni Ottanta del secolo scorso la Parigi-Dakar attraeva turisti, visitatori e avventurieri e il film Il Té Nel Deserto di Bernardo Bertolucci è stato girato, in parte, proprio ad Agadez, regalandole una notorietà internazionale. Oggi l'area attorno alla città è meglio nota per le miniere di uranio e, appunto, per gli ingenti flussi migratori che la attraversano. Agadez oggi è una strada in fiamme in crisi economica.
Generalmente i migranti che arrivano ad Agadez, e a Dirkou, proseguono alla volta di Madama ed entrano in Libia nei pressi di Toummo, dirigendosi poi verso Sebha e, infine, verso la costa libica. Ad Agadez e nella regione circostante l'OIM si occupa di contare i migranti di passaggio ed altre organizzazioni invece, come anche le autorità del Niger, offrono ai migranti denaro - somme che dovrebbero attestarsi in poche migliaia di euro, abbastanza per ripagarsi il viaggio e poco di più - per tornare indietro, spiegando loro l'inferno che li attende in Libia. Qualcuno torna indietro ma da Agadez alla Libia ci vogliono circa 300 dollari, che si sommano a quelli già pagati e a quelli che si dovranno ancora pagare ai libici. E molti decidono di ignorare gli avvertimenti e proseguire.
Nel deserto i migranti incontrano contrabbandieri, trafficanti di esseri umani, autisti, signori della guerra. La maggior parte di loro, della Libia, ricorderà la violenza, gli incubi, le ingiustizie, il carcere: “All'inizio c'è una selezione naturale lungo il deserto” mi ha raccontato un migrante gambiano incontrato qualche giorno fa alla stazione Tiburtina, a Roma: “Molti dei miei compagni sono morti, alcuni sono caduti dal pick-up sul quale viaggiavamo perché correvano troppo forte ma sono stati lasciati nel deserto. Ci hanno rubato tutto quello che avevamo, persino le scarpe sono state sequestrate a chi le aveva”.
“Io ho fatto 4 mesi di carcere a Misurata, nelle mani dei trafficanti” racconta un sudanese con un buon italiano: “Poi mi hanno costretto a salire su una barca perché sapevo come si guidava e serviva qualcuno che traghettasse la gente in mare. Hanno sparato ad un nigeriano davanti ai miei occhi perché si era rifiutato di farlo, tu cosa avresti deciso di fare a quel punto?” Arrivato in Italia questo cittadino sudanese, che chiameremo Mohammed per tutelare la sua identità, è stato arrestato dalle autorità italiane e incarcerato a Trapani, accusato di essere uno dei trafficanti. Una storia con diverse analogie con altre storie“Mi hanno liberato dopo otto mesi” dice Mohamed trionfante, mostrandomi un logoro documento del Tribunale siciliano che lo ha scarcerato, sul quale si legge che le indagini a suo carico non hanno rivelato niente. Almeno in carcere ha imparato l'italiano, penso io.
Chi non attraversa la Libia opta per una rotta ritenuta meno pericolosa, quella attraverso l'Algeria
Secondo France24 però negli ultimi tempi la vita per i migranti che transitano per questo Paese è sempre più dura: dal 1 dicembre sarebbe in corso, nei quartieri di Algeri, una vera e propria “caccia al nero”. Gli irregolari vengono poi deportati nel campo di Tamanrasset, quasi 2000 chilometri a sud della capitale, per essere espulsi. Qui, denunciano diverse organizzazioni per i diritti umani, la situazione è al limite e la tutela dei diritti dei migranti è secondaria a tutto il resto, a cominciare dall'ordine pubblico. Si tratta di circa 1.400 persone provenienti da Nigeria, Niger, Liberia, Camerun, Mali e Guinea e rispedite proprio in Niger. Le retate della polizia algerina non risparmiano minori e donne incinte: “La presenza dei migranti e dei profughi africani in molte località del paese può causare problemi agli algerini; in particolare c'è il rischio di propagazione dell’AIDS e di altre malattie sessualmente trasmissibili” ha dichiarato Farouk Ksentini, avvocato e presidente della Commissione nazionale consultiva di promozione e di tutela dei diritti dell’uomo in Algeria (CNCPPDH), istituzione che dipende dalla presidenza algerina. Con queste espulsioni l'Algeria da corpo agli accordi bilaterali con il vicino Niger ma mostra di curarsi poco dei metodi adottati.
Il vicino Niger invece incassa i milioni europei, sarebbe interessante capire effettivamente quanti, per darne una parte ai migranti sub-sahariani e convincerli a tornare indietro e per tenersene un'altra parte e gestire i flussi.
Per questo il Re del Marocco Mohammed VI, ai ferri corti con le autorità algerine per l'eterna questione del sostegno al Fronte Polisario da parte di Algeri, ha inviato 116 tonnellate di aiuti umanitari ai migranti rispediti indietro dall'Algeria al Niger. Il Marocco sembra volersi distinguere dall'Algeria nella gestione dei migranti: nel 2014 ha regolarizzato 25.000 persone, una sorta di guerra fredda che viene pagata, come sempre, con la pelle altrui. Anche perché il Marocco non è certo campione mondiale, ma nemmeno africano, di diritti umani. 

Ecco chi ha piazzato la Fedeli al governo, la verità sulla ministra senza laurea. - Paolo Emilio Russo



La prima scelta di Paolo Gentiloni come ministro dell' Istruzione era Marco Rossi Doria. 

Due volte sottosegretario proprio al dicastero che "governa" scuole, Università e Ricerca e poi assessore a Roma, ha scritto qualche libro e conseguito un baccellierato in Scienze dell' educazione. Purtroppo per lui, non è mai stato renziano e "scontava" il rispetto di Enrico Letta e Ignazio Marino, due che con il leader Pd e la sua ex braccio destro Maria Elena Boschi non sono mai andati d' accordo. 
Così, dalle trattative dell' ultimo minuto per la composizione del governo, deciso il siluramento della ministra uscente ed ex rettore Stefania Giannini che fu accusata da Matteo Renzi dell' autogol della "Buona Scuola" e di avere gestito in maniera troppo muscolare i rapporti coi sindacati, condivisa da tutti i leader dem la necessità di ricostruire i rapporti con la Cgil in vista delle Politiche, ha avuto la meglio Valeria Fedeli.
La neo-ministra era vicepresidente del Senato - e quindi avrebbe liberato un posto lì, dove la maggioranza è fragile -, ha una antica consuetudine famigliare con il "sindacato rosso" e, più recente, con l' ex madrina delle Riforme. Fedeli, infatti, di mestiere era una sindacalista, così come il marito, Achille Passoni, che, abbandonata la carriera sindacale, è diventato capo della segreteria dell' ex sottosegretario all' Interno Marco Minniti, del Pd, fresco pure lui di promozione a a ministro.
Nata nel 1949, dirigente della Cgil dal 1970 in poi, Fedeli si è dedicata alla politica candidata nel 2013 capolista del Pd al Senato in Toscana, il collegio di Arezzo, la città dove è cresciuta e si è formata politicamente "Meb". Tra le le fondatrici del comitato femminista "Se non ora, quando?", ha difeso sin dall' inizio l' ex ministra delle Riforme prima da «vignette e da attacchi sessisti, di cattivo gusto, misogini e degradanti», (il 6 aprile) poi l' ha supportata nel merito delle proposte, sulle modifiche costituzionali, impegnandosi - in tv - a lasciare pure lei la politica in caso di vittoria del No al referendum.
Boschi ha apprezzato quell' appoggio, ha allacciato un rapporto con l' ex numero due di Palazzo Madama anche partecipando a diverse sue iniziative a favore delle donne (assicurando visibilità e clacque) e ottenuto più di quanto potesse mai immaginare. «La Boschi?
È l' erede di Nilde Iotti, che sedette in Assemblea costituente, occupandosi di diritti e parità, quando era molto giovane», aveva detto Fedeli in una intervista ad Antonella Coppari per il Qn il 23 maggio. Quel paragone tra il giovane avvocato alla prima legislatura e l' icona del Pci ha pagato. Il referendum è andato come è andato, Boschi ha resistito dentro Palazzo Chigi come sottosegretario e, preparandosi a una lunga "resistenza", ha provato ad attorniarsi di amiche, persone delle quali si fida. Così Anna Finocchiaro, "madrina" della "madrina" della riforme, è tornata ministro dei Rapporto col Parlamento e la Fedeli è clamorosamente assurta a numero uno dell' Istruzione dell' Università e della Ricerca nonostante non abbia una laurea e forse nemmeno mai sostenuto un esame di maturità.


http://www.liberoquotidiano.it/gallery/gallery/12254114/-valeria-fedeli--e-stata-maria-elena-boschi-a-piazzarla-al-governo--.html

domenica 18 dicembre 2016

Addio mobilità per 185mila lavoratori licenziati: ecco chi rischia di perdere il sussidio.



Addio alla mobilità per i lavoratori colpiti da licenziamento collettivo a partire dal prossimo anno: dal 1° gennaio 2017 infatti - secondo quanto previsto dalla legge Fornero sul lavoro del 2012 - l'indennità che spettava ai lavoratori licenziati da imprese industriali con più di 15 dipendenti o commerciali con più di 50 è abrogata.

Dopo 25 anni dall'istituzione del sussidio che in alcuni casi (mobilità lunga verso la pensione) poteva durare fino a sette anni in caso di lavoratore anziano licenziato al Sud, l'unico assegno di disoccupazione resta la Naspi, uguale per tutti. Chi è stato messo in mobilità quest'anno continuerà a percepire l'assegno mentre non sarà possibile erogarne di nuovi. Dal prossimo anno - spiega la Uil - verranno meno anche gli incentivi alle assunzioni per coloro che, licenziati quest'anno, continueranno a percepire l' indennità di mobilità anche nel 2017. Gli sgravi riguardavano le assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità indennizzata.

La contribuzione previdenziale a carico dell'azienda era pari a quella degli apprendisti, per la durata di 18 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato e 12 mesi in caso di tempo determinato. A ciò si aggiungeva un contributo mensile, pari al 50% dell' indennità non ancora percepita per un periodo di 12 mesi per persone under 50 anni; 24 mesi per gli over 50; 36 mesi over 50 anni residenti nel Mezzogiorno e nelle aree ad alto tasso di disoccupazione.

Secondo la Uil le persone che rischiano di perdere gli sgravi sono circa 185.000 (104 mila residenti nelle Regioni del Nord, 37 mila residenti nelle Regioni del Centro, 44 mila residenti nelle regioni meridionali). Per queste persone - dice la Uil - a partire dal prossimo anno sarà più difficile, soprattutto al Sud, ricollocarsi nel mondo del lavoro. Il costo degli incentivi, sempre secondo calcoli Uil, è stato di 679 milioni di euro nel 2013; di 354 milioni di euro nel 2014; di 40 milioni di euro nel 2015. Con l'abrogazione della indennità di mobilità - sottolinea sempre la Uil «i risparmi a regime saranno per lo Stato di oltre 2,5 miliardi di euro, a cui si aggiungeranno le minori spese per il cadere degli incentivi alle assunzioni».

Fino alla fine del 2014 il lavoratore del Sud over 50 licenziato poteva avere fino a 48 mesi di di indennità di mobilità. Nel 2015 e nel 2016 c'è stato un decalage a 36 mesi e a 24 mesi. Per il 2016 il sussidio dura 12 mesi per chi ha meno di 40 anni, 18 per chi ha tra i 40 e i 49 anni al Sud o per chi ne ha più di 50 al Nord e 24 se si hanno più di 50 anni e si risiede al Sud.


http://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/mobilita_lavoratori_licenziati_sussidio-2146773.html

venerdì 16 dicembre 2016

Giuseppe Sala tira dritto: "Sospensione dalla carica fino a chiarimento accuse".

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In qualità di ex ad di Expo, risulta indagato nell'inchiesta sulla 'Piastra dei servizi'. Dai magistrati viene contestata dai magistrati un'ipotesi di falso. Assumerà le sue veci il vice sindaco Scavuzzo.

Giuseppe Sala, il sindaco di Milano, tira dritto. E dopo aver annunciato la sua autosospensione da sindaco si è recato in mattinata in prefettura per formalizzare la sua scelta al Prefetto, Alessandro Marangoni. In mattinata riunione di giunta a Palazzo Marino, dove Sala ha comunicato la sua scelta.  ''Fino al momento in cui mi sarà chiarito il quadro accusatorio - scrive Sala in una lettera inviata al vicesindaco - ritengo di non poter esercitare i miei compiti istituzionali". "Ho appreso da fonti giornalistiche - scrive Sala - di essere iscritto nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla "Piastra Expo". Non ho al momento ricevuto alcuna comunicazione ufficiale; ritengo che l'attuale situazione determini per me un ostacolo temporaneo a svolgere le funzioni" di sindaco del Comune e della Città Metropolitana. "La prossima settimana - fa sapere - mi presenterò al Consiglio del Comune di Milano e della città Metropolitana per riferire in merito".
Il primo cittadino è indagato dalla Procura generale milanese in qualità di ex ad ed ex commissario unico di Expo 2015 spa in un'indagine sulla gara d'appalto più rilevante dal punto di vista economico dell'Esposizione Universale. Dopo l'indiscrezione sull'indagine a suo carico ha subito scelto di autosospendersi dalla carica. "Apprendo da fonti giornalistiche - ha scritto ieri in una nota - che sarei iscritto nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla piastra Expo. Pur non avendo la benché minima idea delle ipotesi investigative, ho deciso di autosospendermi dalla carica di sindaco". 
L'autosospensione "è una scelta che può essere fatta quando ci sono degli impedimenti di varia natura, in questo caso il sindaco ha scelto a caldo, subito dopo le notizie ricevute. Ovviamente a questo punto sarà la vicesindaco Anna Scavuzzo ad assumere le funzioni e le veci del sindaco", ha spiegato il presidente del Consiglio comunale di Milano Lamberto Bertolè. "Nelle prossime ore valuteremo, ci incontreremo con i capigruppo per aggiornarli - ha concluso - alla luce anche dell'incontro che il sindaco avrà con il prefetto". Lo Statuto del Comune di Milano prevede la cessazione della carica di sindaco "per dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza e decesso".
"Ho letto i giornali, così è. Non ho nulla da aggiungere. Vi faccio solo gli auguri di buon Natale". E' quanto si è limitato a dire il Procuratore generale di Milano Roberto Alfonso in merito all'inchiesta sulla 'Piastra dei Servizi' di Expo, avocata ai pm e nella quale il sostituto pg Felice Isnardi ha iscritto con l'accusa di falso anche il sindaco di Milano ed ex ad di Expo 2015 spa Beppe Sala. 
"Ha fatto un gesto di grande e rara sensibilità. Il sindaco ha la fiducia della nostra città", ha detto il ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina.
Salvini, non chiediamo le dimissioni di Marra - "I milanesi meritano chiarezza. Non chiediamo le dimissioni di Sala: se ha la coscienza pulita faccia il sindaco a tempo pieno e lavori, se ha la coscienza sporca si dimetta. Un'indagine non vuol dire una condanna". Lo ha detto il segretario della Lega Nord Matteo Salvini ai giornalisti davanti a Palazzo Marino.
I REATI CONTESTATI - "Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici" e "falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici". Sono questi i due reati contestati al sindaco di Milano Beppe Sala nell'inchiesta sull'appalto della Piastra dei servizi di Expo che ha portato l'ex amministratore delegato ad autosospendersi da primo cittadino. Il nome di Sala, con quello dell'imprenditore Paolo Pizzarrotti, compare nella richiesta di proroga indagini, avocate dalla Procura Generale alla Procura, in aggiunta ai nomi dei 5 indagati già noti. Due "verbali" relativi alla "sostituzione" di due componenti della commissione giudicatrice della gara per l'appalto della 'Piastra dei servizi' riporterebbero "circostanze non rispondenti alla realtà" e, in particolare, sarebbero stati retrodatati con "l'intento di evitare di dover annullare la procedura fin lì svolta" anche per il "ritardo" sui "cronoprogrammi" dell'Expo. Lo scrive la Gdf di Milano in un'informativa del maggio 2013 agli atti anche della 'vecchia' inchiesta dei pm poi avocata dalla Procura Generale che ha indagato Beppe Sala.

giovedì 15 dicembre 2016

Le bugie su Aleppo. - Sebastiano Caputo

focus alepp grande daily times

Sapevo che la battaglia finale ad Aleppo si sarebbe scatenata nel giro di pochi giorni. Ero stato a Damasco poche settimane fa e già si parlava di questa offensiva conclusasi proprio ieri sera. Avevo i contatti per andare lì, del resto ci sono già stato, ma due motivi mi hanno spinto a restarmene a casa: i costi del viaggio troppo elevati, e la paura di rimanere prigioniero della città qualora le cose si sarebbero messe male. Ora mi tocca leggere da Roma, quello che sta accadendo in quel Paese ferito da una guerra per procura entrata nel suo sesto anno.
Quanto è difficile starsene in panchina, soprattutto quando è la cattiva informazione a farla da padrona. Insomma, è tutto il giorno che leggo articoli di giornale e vedo servizi televisivi (nazionali e stranieri) sulla conquista totale e definitiva di Aleppo da parte dell’esercito siriano. Non pensavo ci fossero in Italia così tanti sostenitori dei gruppi terroristici. O meglio, sapevo che c’era disinformazione tanto da aver raccontato la mia piccolissima esperienza di viaggio in un libro, ma non credevo si sarebbe arrivati a negare persino all’evidenza. Ma qui “negare l’evidenza” è diventata l’ultima frontiera dei commentatori di politica estera travestiti il “day after” da reporter di guerra. Non mi riferisco ai poveri stagisti sottopagati usciti dalle scuole di giornalismo e assunti per fare clickbaiting, ma a quei “professionisti” che in cattiva fede offrono un racconto personalistico e ideologico. Non farò nomi, non voglio creare polemiche, ma vi invito a fare qualche ricerca su internet per capire di cosa sto parlando.
Libera non libera, poco importa. Una città distrutta non è mai vincitrice. Dobbiamo interrogarci su altro: come dobbiamo raccontare la battaglia di Aleppo nel rispetto dei lettori? A quali fonti bisogna attingere? Come distinguere una notizia falsa da una vera in un contesto di guerra che vede la verità come prima degli sconfitti?
In primo luogo non è oggettivo riportare le informazioni pubblicate dai media arabi Al Arabiya Al Jazeera, rispettivamente controllati da Arabia Saudita e Qatar, due Paesi coinvolti fin dall’inizio nel conflitto siriano. Lo stesso discorso potremmo farlo per Press Tv e Russia Today, controllati rispettivamente da Iran e Russia, due Paesi militarmente attivi in Siria. Eppure a differenza dei primi, questi hanno dei veri e propri inviati sul campo che seguono l’avanzata dei militari, mentre gli altri citano fonti anonime e senza alcuna prova fotografica o video. Vi diranno che sono “embedded”, che alcune cose non potranno dirle o scriverle. Sicuramente è così, ma c’è molta differenza tra una fonte diretta e una che si aggrappa al “sentito dire” di certi attivisti.
Veniamo ai media italiani. Molti di noi giornalisti che andavano in Siria scortati dalle forze governative venivamo accusati di essere gli agenti occidentali di Bashar Al Assad mentre loro, i proprietari della Verità, hanno continuato per anni a raccontare all’opinione pubblica, comodi in redazione, la storiella dei ribelli moderati. Sapevano di mentire perché mentre noi parlavamo con la gente del posto portando a casa documenti autorevoli, interviste, fotografie e servizi, loro, dopo le notizie dei rapimenti dei colleghi, non ci pensavano minimamente ad andare in quelle zone “liberate” dai loro nuovi “eroi”. La verità è che se entri in Siria come giornalista ti conviene andare con il “cattivissimo” regime di Assad se no a casa non ci torni. E se riesci a tornare indietro torni con un altro punto di vista, vedi Domenico Quirico.
Per quanto mi riguarda mi ritengo un osservatore e non mi interessa se verrò tacciato come filo-governativo. E sebbene Assad e Putin non mi abbiano mai staccato un assegno, credo sia necessario dire le cose fino in fondo. Ricordo che ad aprile quando andai per la seconda volta in Siria, le facce dei soldati ai checkpoint di Damasco erano rilassate, tranquille, pulite, poi man mano che mi dirigevo verso Aleppo, in un viaggio infinito e traumatico in automobile, queste diventavano sempre più stanche, arrabbiate, sporche. Erano i segni della guerra stampati sul volto di chi dorme poco la notte sdraiato accanto al proprio kalashnikov. Mi trovavo nell’epicentro del conflitto, nella città più contesa del Paese dove le linee del fronte erano distanti qualche decina di metri. Ti trovavi in territorio governativo, e magari la strada parallela o quella dopo, perpendicolare, era controllata dai ribelli armati. Ad Aleppo ci sono i soldati più preparati ma anche quelli più burberi. Io non ho le prove ma non ho dubbi che si siano commessi atti di violenza durante la conquista della parte orientale, non ho dubbi che alcuni civili abbiano pagato con la vita per aver ospitato guerriglieri a casa, oppure che siano stati fucilati davanti ad altri per punirli e marcare di nuovo il territorio. Sono tecniche di coercizione: se ne ammazza uno per educarne cento. A noi ce lo hanno insegnato gli americani bombardando intere città quando la guerra era finita da un pezzo. “Abbiamo cacciato i tedeschi ma ora comandiamo noi”, questo era il messaggio, o meglio l’avvertimento. Ora come si può raccontare la battaglia di Aleppo con categorie pacifiste? Ma soprattutto come si può criminalizzare un intero esercito come fanno tutti i mezzi d’informazione in queste ore? Qualora fosse vero ci siano atti di ingiustizia come quelli citati sopra, è ancor più vero, date le prove, che girano immagini con i militari siriani che vengono accolti in festa nella parte orientale mentre altri distribuiscono coperte, cibo e acqua. Ma questo non ve lo diranno mai perché la narrazione ufficiale ha una funzione ben precisa: criminalizzare lo “zar” e il “dittatore”. Potrei scrivere ancora tanto ma non mi dilungherò. Mi limito ad invitare i lettori a non fidarsi mai di chi parla di un fatto senza viverlo direttamente. E ai giornalisti che hanno un minimo di coraggio dico: gli occhi sono l’ultima arma che abbiamo contro la mistificazione della realtà.

Alessandra Moretti (Pd): "Sono malata, non lavorerò". Invece è a una festa di matrimonio in India. - Ferruccio Sansa

Alessandra Moretti (Pd) con la febbre, niente Consiglio regionale. “E invece era in India”

Veneto - Miracolo della Moretti: s’era data indisposta al consiglio regionale, poi le foto su Instagram.

Malata di viaggio”. Quando i consiglieri regionali veneti del Pd hanno visto la dichiarazione della loro capogruppo, Alessandra Moretti, hanno fatto un salto sulla sedia: “Viaggio? Noi la immaginavamo a letto con il termometro. Invece era in India”. I compagni non l’hanno presa bene: “Noi in consiglio e la capogruppo in India…”.
Una manciata di giorni fa la chat dei consiglieri Pd veneti annuncia la convocazione per l’assemblea: “Moretti ha mandato un messaggio: sono malata. Stop. Mica sapevamo che era all’estero. Mentre c’era la sessione di bilancio”. Ma poi la notizia salta fuori. Galeotto un messaggio sul social network Instagram postato dalla stessa Moretti: “C’erano foto di Alessandra… in India, così l’abbiamo chiamata e il telefono suonava strano”, raccontano in Regione.
Una trasferta segreta? Macché: “Un viaggio che apre gli occhi sul mondo”, scrive Moretti sul social. E anche con il cronista la prende con un’ironia condita dall’accento vicentino più forte dopo il ritorno nel suo Veneto: “Sono contenta che vi preoccupiate tanto per la mia salute”, esordisce Moretti, che dopo aver abbandonato il Parlamento italiano per quello europeo, si era candidata alla presidenza del Veneto (sconfitta da Luca Zaia). “Potete stare tranquilli, sto meglio”, sorride Moretti. Si vede dalle foto, eccola in mezzo alla folla colorata davanti a un tempio: “Guardi che sono stata ammalata davvero… quelle cose che vengono in India, ce la siamo presa tutti”, si fa seria. Ma i suoi colleghi dicono che non sapevano del suo viaggio… “Macché, la mia segreteria sapeva. Sono venuta qui con mio padre per un matrimonio, una festa di quattro giorni”.
Una vera e propria spedizione istituzionale, riferisce il Giornale di Vicenza: oltre a Moretti era presente anche l’assessore alla Sicurezza del Comune di Vicenza, Dario Rotondi. Tutti a festeggiare il matrimonio di Jorge Sharma, imprenditore orafo con base a Vicenza. Ma quell’assenza dalla politica? “Questa in India è un’esperienza pazzesca. Dovrebbero farla tutti i politici. Dovreste vedere quanta povertà, quanta sofferenza. Non ce ne rendiamo conto”.
Moretti colpita dal mal d’India? I colleghi del gruppo Pd in Regione non ci credono molto: “Se è per questo, era già stata a Miami. E poi Moretti ha il record delle assenze (27,78%) in Consiglio, seconda solo a Zaia”. Non tira proprio una bella aria nel Pd regionale: “Preferisco fare l’indiano”, evita ogni commento un collega sui banchi dell’opposizione. E un altro ancora: “Che figura ci fa il Pd? Come facciamo a dire che il nostro capogruppo è in India? Era assente anche quando si parlava di Sanità”.
Moretti non si scompone: “Stiamo facendo un gran lavoro. È dura, ma diamo battaglia”. L’India? “Vale più una settimana qui che un anno a Palazzo”.

Referendum sul Jobs act: la Consulta decide sull'ammissibilità l'11 gennaio. - Silvio Buzzanca

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Nel Pd adesso si cerca di correre ai ripari per evitare un nuovo ko referendario: modificare la legge o congerlarlo con il voto anticipato.

ROMA - “Una rogna”. Matteo Renzi definisce così l’ipotesi che la Corte Costituzionale, la decisione è prevista l’11 gennaio, dichiari ammissibili i tre referendum presentati dalla Cgil che chiedono l’abolizione del Jobs Act e il ritorno all’articolo 18, la cancellazione dei voucher e il ritorno alle garanzie per i contributi dei lavoratori delle ditte che subappaltano lavori. Con il via libera della Consulta il governo dovrebbe fissare la data del voto fra il 15 aprile e il 15 giugno. E con l’aria che tira, è il ritornello che gira fra i democratici, quelli del No avrebbero un’altra bella occasione per dare una seconda mazzata a Renzi e ai suoi progetti di rivincita. Anche se questa volta il referendum prevede il quorum. E allora nel Palazzo già si pensa e si lavora su come disinnescare questa mina vagante. Fino all’idea estrema: sconfessare, la riforma voluta da Renzi, considerarla defunta e trovare altre soluzioni per evitare il voto popolare.
 
La prima ipotesi però è la più semplice e si incastra perfettamente nelle strategie renziane. Si sciolgono le Camere e si va a votare a giugno: Renzi ha in testa la data dell’11 giugno. In questo caso la legge parla chiaro: i quesiti referendari vanno congelati e spostati di un anno perché non si possono tenere insieme elezioni politiche e referendum. La via più semplice. Una soluzione che però deve fare i conti con la riluttanza del presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e con i tempi del varo delle nuove leggi elettorali per Camera e Senato. C’è chi, infatti, vorrebbe correre, iniziare a discutere subito, prima del giudizio della Consulta sull’Italicum. Scegliendo la soluzione apparentemente più facile: tornare al Mattarellum.
 
Il deputato del Pd Michele Nicoletti ha appena presentato una proposta di legge per ripristinare la legge con cui abbiamo votato nel 1994, 1996 e 2001. C’è chi, invece, vuole aspettare la Consulta e la sua decisione e ripartire da cosa diranno i giudici costituzionali. E cosa di non poco conto fra i sostenitori di questa tesi c’è Anna Finocchiaro, presidente della Affari costituzionali del Senato e ora ministro per i Rapporti con il Parlamento che dovrà occuparsi d tessere la tela delle nuove leggi elettorali.
 
Così, di fronte all’incertezza sulla reale durata del governo Gentiloni si affaccia una nuova ipotesi: modificare il Jobs act, rivedere le norme sui voucher. Ne ha parlato all’ultima riunione dei gruppi del Pd Cesare Damiano, come conferma il capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato: «Sì, in un intervento è stato citato il tema». Per i voucher ha spiegato Damiano tutto è più facile: basta recuperare la legge Biagi e farli tornare veramente strumenti per pagare collaborazioni occasionali. Il terzo quesito ha natura molto tecnica e, anche se si tenesse, non può certo assumere valore politico.
 
Il discorso è più complicato sulle possibili modifiche all’articolo 18. Che dall’abrogazione delle norme sul Jobs act verrebbe esteso alle aziende con più di 5 dipendenti. Damiano ha posto il problema e avrebbe anche detto al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini “il Jobs act mi sembra defunto”. Ma sconfessare la legge sarebbe un altro duro colpo alla narrazione renziana “dell’abbiamo fatto in tre anni più di quello che altri hanno fatto in dieci anni”. Una clamorosa marcia indietro che si aggiungerebbe al no popolare alle riforme, alle prese di distanza dello stesso Renzi dell’attuazione della Buona scuola e alla parziale bocciatura della Consulta della riforma della Pubblica amministrazione. Ma fare delle modifiche alla legge vigente e convincere la Cassazione che il nuovo testo eri il quesito del referendum è molto arduo. Ecco allora tornare in pista l’ipotesi principale: andare alle elezioni politiche e rinviare tutto di un anno. Una tesi che sostiene il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. " Se si vota prima del referendum sul Jobs Act, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell'esame della Consulta è tutto come previsto". 

Naturalmente riaccendere il faro sull'articolo 18 e i voucher, riattizza la conflittualità fra sindacati e imprese. "I voucher  per la Cisl vanno sicuramente cambiati e aboliti nei settori dell'agricoltura e dell'edilizia, dove sono diventati uno strumento selvaggio di precarietà del lavoro", dice la segretaria Annamaria Furlan. Susanna Camusso risponde invece al ministro Poletti che esclude la tenuta del referendum causa elezioni politiche. "Mi pare dotato di una sfera di cristallo", dice la leader della Cgil. Per la Camusso "insistere sullo slittamento del referendum significa non avere il coraggio di affrontare i problemi". E comunque, conclude, per noi "vale il merito e non la data". Invece il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia dice: "Arriva il referendum? Io imprenditore attendo e non assumo. E questo  è il capolavoro italiano dell'ansietà, di far vivere il paese in un clima perenne di incertezza totale".


http://www.repubblica.it/politica/2016/12/14/news/referendum_sul_jobs_act_la_consulta_decide_sull_ammissibilita_l_11_gennaio-154079936/