mercoledì 21 luglio 2021

Lega, i 49 mln: che fine ha fatto il bottino. - Marco Grasso e Davide Milosa

 

Va verso la chiusura l’indagine sui soldi alla “Lista Maroni”. Tesoro sparito: Genova archivia, ma invia gli atti ai magistrati di Milano.

Dopo anni di indagini, dei 49 milioni di euro della Lega, si può dire di certo che sono spariti. Dove siano andati e, soprattutto, se e come siano ritornati indietro, rischia di restare un interrogativo (almeno per ora) senza risposta.

La Procura di Genova si appresta a interrompere la caccia al tesoro, conservato fino al 2012 su un conto della Banca Aletti, gestito dall’ex tesoriere Francesco Belsito: i pm stanno per chiudere le indagini e chiedere il rinvio a giudizio per i 450mila euro erogati alla lista “Associazione Maroni Presidente”. Il fascicolo, per competenza, sarà trasferito a Milano. L’altro grande filone, quello sui 10 milioni di euro finiti in Lussemburgo, va invece verso la richiesta d’archiviazione. Anche se gli atti, richiesti espressamente dai colleghi di Milano potrebbero dare nuova linfa alle inchieste dei pm lombardi.

L’origine di tutto è la condanna di Belsito: ex cassiere di Umberto Bossi, per i giudici ha truccato bilanci e truffato lo Stato, facendo ottenere al partito 49 milioni di euro pubblici che non gli spettavano. Ma quando nel 2017 la Guardia di Finanza si presenta per chiederli indietro, di quei soldi sono rimaste le briciole, 3 milioni. La Lega Nord si offre di ripagare il debito in comode rate di 80 anni, e viene trasformata da Matteo Salvini in una bad company: tutta l’attività politica (con i nuovi finanziamenti) viene trasferita nella nuova Lega. Nel frattempo, varie Procure cominciano a dare la caccia al patrimonio evaporato.

La vicenda dell’“Associazione Maroni Presidente” è una fetta apparentemente piccola della torta, che però rappresenta per la Guardia di Finanza una parte per il tutto. Nel 2013 la lista che sostiene la corsa di Bobo Maroni a governatore in Lombardia riceve dalla Lega Nord 450mila euro inizialmente messi a bilancio come “erogazione liberale”. Voce poi cambiata in “prestito/finanziamento infruttifero”. Il problema è che la fonte iniziale, secondo i pm, sarebbero i soldi della maxi-truffa: ecco perché il loro reimpiego costa al presidente della lista civica, Stefano Bruno Galli, assessore regionale della giunta di Attilio Fontana, un’accusa di riciclaggio. Secondo i pm, nel 2015 in una riunione romana cui partecipa Galli e il tesoriere di nomina salviniana Giulio Centemero (non indagato) si decide di trasformare la dicitura erogazione liberale in “restituzione prestito”. L’indagine nasce da un esposto dell’ex capogruppo della lista, Marco Tizzoni, che ai pm in sostanza dice: mai visti quei soldi. Sulla carta sarebbero stati spesi in volantini stampati da una società di Fabio Boniardi, parlamentare leghista (non indagato). Per gli inquirenti, coordinati dal procuratore Francesco Pinto e dal colonnello Andrea Fiducia, quelle fatture sono servite a far uscire i 450mila euro dalle casse della Lega verso l’“Associazione Maroni Presidente”, e poi restituirli alla Lega stessa.

Va verso la richiesta di archiviazione, invece, la parte più consistente dell’indagine genovese: l’inchiesta sui 10 milioni di euro partiti dalla Banca Sparkasse di Bolzano e finiti in Lussemburgo, un investimento ritenuto anomalo perché, a stretto giro, 3 milioni di quell’operazione erano rientrati in Italia, poco prima delle elezioni politiche del 2018 (e subito dopo il primo sequestro ai conti del Carroccio). Determinante è stato l’esito della relazione depositata alcuni giorni fa dai consulenti di Banca d’Italia, coordinati dal capo degli ispettori antiriciclaggio Emanuele Gatti. Secondo gli 007 di via Nazionale non ci sono prove documentali sufficienti per collegare quei soldi alla Lega. E dimostrare la tesi accusatoria: che il capitale iniziale – che Sparkasse ha sempre sostenuto essere proprio – fosse garantito da una provvista in contanti. Un’operazione chiamata in gergo back to back, di cui la Procura ha cercato invano tracce con rogatorie in Svizzera e nel Granducato.

Dalle ceneri di questi accertamenti, tuttavia, potrebbe ripartire però Milano (dove i pm di Genova ora spediranno nuovi atti): l’inchiesta sul Lussemburgo aveva portato infatti alle perquisizioni dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni e dello studio di via Angelo Maj, a Bergamo, dove hanno sede sette società controllate da una holding lussemburghese; quel blitz è stato foriero di una miniera di informazioni, parte delle quali, soprattutto migliaia di mail e chat, ancora da sviluppare. È anche sulla base di questo capitale informativo che il procuratore Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi sono arrivati alle condanne della coppia Manzoni e Di Rubba (uomini di fiducia di Centemero) nella vicenda della Lombardia Film Commission. In un vertice che si è tenuto nei giorni scorsi, i pm milanesi hanno concordato con i colleghi di Genova l’acquisizione di tutti gli atti sull’inchiesta del Lussemburgo: “Se non ci fossero elementi di interesse questo passaggio non ci sarebbe nemmeno”, spiega un inquirente.

A collegare la Lega e quell’investimento nel Granducato erano state le dichiarazioni del commercialista Michele Scillieri. Ai magistrati aveva riferito di aver avuto una confidenza da Di Rubba: “Quando nel dicembre 2018 uscirono gli articoli sull’Espresso sulle sette società, gli chiesi se c’era un collegamento con i 7 milioni finiti in Lussemburgo. Lui mi fece un gesto, come a indicare dei rivoli, e io intuii che ogni società aveva in dote un milione”. E ancora: “Da quello che sapeva lui (Di Rubba, ndr), tramite l’avvocato Aiello (ex legale della Lega, ndr), i famosi 10 milioni erano effettivamente transitati dalla Sparkasse sul Lussemburgo”. Agli atti dell’inchiesta di Genova c’è anche un’intercettazione tra due ex manager di Sparkasse, Dario Bogni e Sergio Lo Vecchio, che nel 2018 parlavano preoccupati dell’affaire dei 10 milioni: “Il problema è il collegamento con Brandstatter”. Gerard Brandstatter, presidente della banca altoatesina, ha condiviso in passato lo studio proprio con Aiello (che aveva avuto a sua volta ruoli nel consiglio di vigilanza di Sparkasse): “Credo che sia ancora con Aiello, in quello studio a Milano”.

Insomma, le intercettazioni che per la Procura di Genova da sole non bastano a richiedere un processo, fanno parte degli atti che interessano e saranno trasferiti a Milano.

L’arrivo dei nuovi atti è destinato ad aprire altre piste investigative. La Procura di Milano punta sulla nascita della nuova Lega di Matteo Salvini. Qui il punto, rimarcato negli interrogatori con il commercialista Michele Scillieri, è comprendere come e perché è nato il nuovo soggetto e in che modo il partito e le varie leghe regionali abbiano rappresentato, come spiega Scillieri, i “rivoli” in cui sarebbero stati riversati i soldi della nuova Lega. E, in parte, ciò che restava dei 49 milioni. L’obiettivo di queste newco leghiste, come si legge in una email del tesoriere Giulio Centemero, e come svela Scillieri, era quello di evitare i sequestri di Genova. Un altro filone da approfondire riguarda la figura dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara (non indagato), finito nel mirino per un’operazione di acquisto e vendita con una plusvalenza di circa 24 milioni di euro. Subito dopo l’operazione Carrara chiede un finanziamento da 65 milioni di euro alla Swiss Merchant Corporation, con la mediazione di Di Rubba e Scillieri: per quale motivo, se aveva tutta quella liquidità? Il sospetto della Procura è che i 24 milioni fossero una partita di giro e soprattutto non fossero tutti di Carrara. Insomma, la caccia al tesoro è tutt’altro che finita.

ILFQ

Mafia: secondo blitz in due giorni a Palermo, 8 arresti.

 

Nuovo colpo al mandamento di Tommaso Natale. 


I Carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno eseguito un'ordinanza cautelare in carcere (una ai domiciliari) emessa dal gip Lorenzo Jannelli nei confronti di otto indagati ritenuti componenti del mandamento mafioso di Tommaso Natale, accusati a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsioni aggravate e danneggiamento seguito da incendio. L'operazione antimafia 'Bivio 2', la seconda in due giorni a Palermo, è stata coordinata da un pool di magistrati della Dda guidati dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca.

L'indagine ruota attorno alla figura del boss Giulio Caporrimo, già arrestato in passato. Dalle indagini emerge la continua richiesta del pizzo nei confronti delle imprese che operano sul territorio. Gli investigatori hanno accertato 11 estorsioni e due tentativi non andati a buon fine, mentre solo in due casi le vittime hanno denunciato spontaneamente le pressioni subite. I carabinieri hanno ricostruito diverse intimidazioni, spesso con attentati incendiari, messe in atto dagli uomini di Giulio Caporrimo per scalzare i concorrenti e accaparrarsi alcuni appalti. E' il caso dell'incendio doloso ai danni di un esercizio commerciale di Sferracavallo. Un attentato che sarebbe stato ideato da Caporrimo, dal figlio Francesco e da Francesco Ventimiglia per ottenere la gestione del locale. L'attentato doveva servire a vincere la resistenza del titolare. Con un altro rogo è stato colpito un cantiere edile per la realizzazione della rete fognaria sempre a Sferracavallo. A ideare l'intimidazione sarebbero stati Antonino Vitamia e Vincenzo Taormina per ottenere alcuni lavori in sub appalto. Anche il furgone di una ditta di costruzioni fu danneggiato dal fuoco mentre le microspie dei carabinieri registravano tutto "in diretta". Un'altra intimidazione colpì una società edile che stava svolgendo lavori di ristrutturazione in un immobile, con l'obiettivo di ottenere la commessa per lavori di impiantistica. Diversi gli episodi accertati anche ai danni di commercianti della zona. La cosca faceva profitti anche grazie ai cosiddetti "cavalli di ritorno", le somme che gli uomini di Caporrimo si facevano consegnare per la restituzione di veicoli rubati.

Negli anni il nucleo investigativo dei carabinieri aveva già assestato duri colpi al mandamento di Tommaso Natale con le operazioni Oscar (2011), Apocalisse (2014), Talea (2017), Cupola, 2.0 (2018/2019), Teneo (2020), e Bivio (2021). Proprio a quest'ultima operazione del gennaio scorso si ricollega il blitz odierno che ruota attorno alla figura di Giulio Caporrimo. Quest'ultimo, tornato in libertà nel maggio del 2019, per volontà del boss Calogero Lo Piccolo trovò al vertice del mandamento un nuovo capo, Francesco Palumeri. Caporrimo prima si trasferì a Firenze per prendere le distanze dal nuovo assetto che non condivideva e poi, dopo aver costretto il rivale a fare un passo indietro, fece rientro a Palermo da reggente ricompattando il mandamento. Con questa nuova indagine i carabinieri avrebbero fatto luce su una serie di gravi reati commessi dagli arrestati, a cominciare dallo stesso Giulio Caporrimo e dal figlio Francesco che avevano investito sulle scommesse on line, uno dei settori più a rischio per infiltrazioni mafiose. Uno degli arrestati, Giuseppe Vassallo, palermitano trasferitosi a Firenze, grazie agli accordi con Giulio Caporrimo e Antonino Vitamia, commercializzava i propri siti per le scommesse on line proprio sul territorio del mandamento di Tommaso Natale, riconoscendo parte degli utili alla famiglia mafiosa   

ANSA

Lite a Voghera, assessore spara e uccide uno straniero in piazza.

Massimo Adriatici, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia)

 Arrestato Massimo Adriatici, avvocato e assessore alla sicurezza del Comune.

E' stato Massimo Adriatici, avvocato, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia), a sparare il colpo di pistola che ieri sera, poco dopo le 22, ha ucciso un uomo di 39 anni di nazionalità marocchina. Il fatto è accaduto in piazza Meardi nella città oltrepadana.

Adriatici si trova ora agli arresti domiciliari.

Sul posto sono subito intervenuti gli operatori del 118 che hanno trasportato in ambulanza il ferito al pronto soccorso del locale ospedale.

Inizialmente le condizioni dell'uomo non sembravano gravi, poi si sono aggravate sino al decesso. Sul fatto stanno indagando i carabinieri. Dai primi accertamenti condotti dai carabinieri, sembra che l'assessore Massimo Adriatici abbia esploso un colpo di pistola verso l'uomo di origini marocchine dopo una lite tra i due, avvenuta davanti a un bar. Il ferito è stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale di Voghera (Pavia). Le sue condizioni, che all'inizio non sembravano preoccupanti, si sono aggravate rapidamente sino alla morte avvenuta nella notte. Da quanto si è appreso Adriatici deteneva regolarmente la pistola con cui ha sparato. L'avvocato è assessore alla sicurezza nella giunta di centrodestra guidata dal sindaco Paola Garlaschelli.

Massimo Adriatici, originario di Voghera, è assessore alla Sicurezza del Comune oltrepadano da ottobre del 2020. Eletto nelle file della Lega, è titolare di uno studio di avvocatura molto noto, ed è salito all'onore delle cronache locali per iniziative contro la cosiddetta 'malamovida' come l'abuso di sostanze alcoliche nelle ore serali. Adriatici, dal suo profilo Facebook, risulta "docente di diritto penale e procedura penale presso Scuola allievi agenti Polizia di Stato Alessandria" ed "ex docente dell'Università del Piemonte Orientale". In un'intervista alla Provincia Pavese del 29 marzo 2018 affermava che "L’uso di un’arma deve essere giustificato da un pericolo reale, per la persona che la usa, per le sue proprietà o quelle altrui. Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Ovvero, la legittima difesa si configura se sparo per evitare che qualcuno spari a me, o non ci sono altro mezzi per metterlo in fuga ed evitare che rubi. Sparare deve essere l'extrema ratio, l’ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre".

ANSA

Giovani medici, 17mila posti in arrivo. Stipendi a confronto in Europa. - Marzio Bartoloni

 

Arriva il concorso per le specializzazioni, con il triplo di borse rispetto al 2018: addio all’imbuto formativo. Per gli ospedali forze fresche anti carenze.

Dopo lo tsunami che ha investito gli ospedali italiani che durante le ondate più violente del Covid si sono trovati a corto di posti letto e di medici, soprattutto rianimatori e anestesisti da assoldare in fretta e furia per la trincea delle terapie intensive e quasi impossibile da trovare, arriva la prima concreta contromisura.

Il Servizio sanitario nazionale mette in palio una quantità di borse di studio mai viste nella storia che consentiranno a 17.400 giovani laureati in medicina di specializzarsi facendo pratica negli ospedali, dove grazie anche alle norme approvare durante l’emergenza, potranno essere assunti con contratti a tempo determinato e a tempo parziale già dal terzo anno di formazione (le specializzazioni durano in media 4-5 anni) riempiendo così carenze e buchi negli organici ridotti all’osso dopo anni di tagli – in 10 anni il Ssn ha perso oltre 40mila operatori – e di uscite di massa anche a causa di quota 100 e della fuga più recente dal settore pubblico dei camici bianchi che nel privato hanno trovato meno stress e stipendi più alti.

La lezione della pandemia.

Questo maxi-ingresso di forze fresche è una boccata d’ossigeno fondamentale che garantirà il rafforzamento del Ssn dopo i colpi duri inferti dal Covid. «La pandemia – ricorda il ministro della Salute Roberto Speranza al Sole 24 Ore – ci ha insegnato che una mascherina o un respiratore puoi comprarlo sul mercato internazionale. Un medico no. Un medico va formato con investimenti pluriennali. Con le 17.400 borse – sottolinea ancora il ministro della Salute – programmiamo la più grande immissione di medici che si sia vista nella storia recente del nostro Paese. È la risposta giusta a questi mesi così difficili».

Numeri da record.

In effetti il numero di borse messe a disposizione è da record, visto che solo nel 2018 erano un terzo (6.200) e due anni fa neanche la metà (8mila), mentre per il 2020 – primo anno della pandemia – il Governo era corso ai ripari con un primo aumento importante di borse di specializzazione medica che erano state portate a 13.400.
Ora il nuovo balzo con altri 4mila posti in più, uno sforzo ingente che è stato possibile anche grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, visto che questo investimento rientra tra i primi impegni di spesa del Pnrr per la salute che sulla formazione investe 740 milioni.

Il numero di borse dell’anno scorso e di quest’anno assestano un colpo quasi mortale al fenomeno tutto italiano del cosiddetto “imbuto formativo”: per anni i laureati in medicina dopo il titolo in buona parte non trovavano posto nei corsi post-laurea di fronte alle poche borse disponibili (in passato circa 6mila di media) rimanendo esclusi dalla specializzazione necessaria per lavorare in ospedale. E così si è formata una coda che si è ingrossata negli anni.

«Lo scorso anno ci furono 24 mila concorrenti su 14 mila posti per specializzarsi – ricorda Angelo Mastrillo, docente in organizzazione delle professioni sanitarie, dell'Università di Bologna – . Dunque, ci dovrebbero essere circa 10mila medici che non entrarono lo scorso anno. Se li aggiungiamo agli ipotetici altri 10mila laureati del 2020 diventano 20 mila a concorrere sugli attuali 17.400 mila posti promessi dal Governo, anche se potrebbero essere ancora di più i candidati visto che ci sono anche tutti quelli che si sono immatricolati nel 2014-2015 dopo aver vinto il ricorso contro l’esclusione per il numero chiuso a Medicina».

Rischio imbuto lavorativo.

Per ora non è ancora deciso se questo maxi-aumento di borse continuerà anche nei prossimi anni. Resta comunque aperto tutto il tema della programmazione dei posti per il percorso formativo per diventare medici che dura un decennio (laurea più specializzazione). Se l’imbuto formativo potrebbe essere quasi del tutto superato in futuro potrebbe crearsi il rischio di un imbuto lavorativo.
Se i posti di ingresso al corso di laurea in medicina dovessero crescere ancora – oggi siamo arrivati a 14mila posti disponibili – in futuro dopo il 2030 potrebbe crearsi una eccessiva offerta di giovani medici. Con il rischio di vederli fuggire all’estero dopo essersi formati in Italia, anche perché i nostri stipendi sono più bassi di 30-40mila euro lordi l’anno rispetto a quelli di molti Paesi del Nord Europa. Una nuova beffa dopo quella che ha visto tanti giovani camici bianchi aspettare anni prima di potere entrare in una corsia d’ospedale.

IlSole24Ore

martedì 20 luglio 2021

Irpef, forfait e Iva: riforma del Fisco in 20 punti chiave. - Marco Mobili e Salvatore Padula

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore

Delega entro fine luglio. Certezza delle norme, forfait, Ires, Iva, anti-evasione: ecco per ciascun tema il grado di convergenza, la fattibilità e il nodo dei costi.

I prossimi giorni sveleranno i progetti del Governo sul nuovo Fisco, una delle «riforme di accompagnamento» previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Entro fine mese, salvo sorprese, verrà approvato il disegno di legge delega per riordinare alcuni aspetti del sistema tributario, a partire dall’Irpef e con possibili affacci – vedremo quanto ampi, profondi e ambiziosi – su ulteriori ambiti della fiscalità nazionale.

Nella definizione dei principi del Ddl delega, il Governo terrà in considerazione il documento conclusivo dell’«Indagine conoscitiva sulla riforma dell'Irpef e altri aspetti del sistema tributario», approvato il 30 giugno dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato con il voto favorevole di tutti i partiti, eccetto l’astensione di Leu e il voto contrario di Fratelli d'Italia.

La scrittura della riforma vera e propria richiederà più tempo. E le proposte arriveranno da una Commissione di esperti, che il Governo nominerà. Difficile immaginare che le nuove norme possano entrare in vigore già nel 2022, almeno non nella loro interezza.

La grande incognita delle risorse.

L’ampiezza della riforma dipenderà anche dalla disponibilità di risorse e dalla capacità di finanziare i nuovi interventi recuperando gettito con tagli e razionalizzazioni. Visti livelli e dinamica del debito pubblico, sembra difficile immaginare che il Governo voglia avventurarsi in una riforma interamente o prevalentemente in deficit. Qualche risorsa si potrà trovare nelle pieghe del bilancio (per altro, già esiste un fondo al quale sono state destinate risorse per avviare la riforma), ma serviranno coperture aggiuntive ad hoc.

Quale contributo può arrivare dalle indicazioni contenute nel documento finale delle Commissioni Finanze di Camera e Senato? Una lettura complessiva del documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla riforma - si veda la mappa in 20 punti nelle infografiche in questo articolo tracciata dal Sole 24 Ore del Lunedì - può fornire qualche indicazione. Il documento è il risultato di una serie di compromessi tra i partiti, vedremo quanto solidi, e alla capacità di mediazione dei due presidenti, Luigi Marattin (Iv, Camera) e Luciano D'Alfonso (Pd, Senato). Alcune tematiche non hanno trovato spazio nella sintesi finale: non è difficile capire che, su quelle materie, non si siano trovati spiragli di compromesso (Catasto, tassazione immobiliare, patrimoniali).

Posizione unanime dei partiti su semplificazione (anche con la soppressione di un lungo elenco di tributi minori) e certezza delle norme.

In questo senso, la strada per avviare la redazione del Codice tributario non sembra avere ostacoli, anche se, come sappiamo, le difficoltà oggettive non mancano, soprattutto se il risultato finale non deve essere una “raccolta” di norme, ma a una reale razionalizzazione e semplificazione.

La condivisione può durare?

Il documento parlamentare suggerisce l’adozione di un modello di imposta personale basato sulla «Dit» (Dual income taxation): imposta proporzionale sui redditi finanziari (con aliquota coincidente o prossima alla nuova prima aliquota Irpef) e tassazione progressiva per i redditi da lavoro. Con alcune eccezioni, tra cui, quella dell’imposta fissa sulle partite Iva (forfait), insieme ad altre possibili “deviazioni” dal modello, che indeboliscono il presupposto teorico di questo impianto.

Al Governo toccherà una riflessione su una serie di misure proposte per riequilibrare il prelievo, rendere più equa l’imposta personale e favorire la crescita. Vanno in questa direzione sia l’alleggerimento del prelievo per i redditi tra 28 e 55mila euro; sia l’introduzione del reddito minimo esente; sia ancora l’adozione di meccanismi che possano favorire l'ingresso nel mondo del lavoro del secondo percettore di reddito in ambito familiare (mantenendo l’individuo come unità impositiva); sia quella di agevolare fiscalmente i giovani (under 35) che iniziano un’attività lavorativa.

Proposte coraggiose che tuttavia – come in fondo è comprensibile – trasferiscono l’idea che il Parlamento abbia in mente una riforma “a spendere”.

C’è da chiedersi se la “condivisione” che il testo restituisce potrà durare nel tempo. La Lega disposta a rinunciare alla “sua” flat tax generalizzata; il Pd disposto ad accettare la sopravvivenza del forfait per le partite Iva (e, di fatto, anche una sua estensione, per favorire l’uscita morbida dall’agevolazione al superamento del limite di 65mila euro di ricavi/compensi); Italia Viva rinuncia al bonus Renzi da 80-100 euro (buona notizia, guardando alla coerenza del sistema, ma, probabilmente, non sarà facile destinare alla riforma gli oltre 15 miliardi di risparmio senza penalizzare gli attuali percettori del bonus).

Il groviglio tax expenditures.

Su spese fiscali e agevolazioni varie dal documento parlamentare arriva una (cauta) apertura a semplificazione e riduzione, ma con un esplicito riferimento a quelle con benefici e beneficiari minimi. Il che renderebbe l’operazione poco utile, almeno se l’obiettivo è quello di destinare le risorse così risparmiate alla copertura di altri “pezzi” di riforma.

Ed è anche un po' la conferma che tutti sono d’accordo sul taglio delle agevolazioni ma che è più facile metterne di nuove che non eliminare le vecchie: solo pochi giorni dopo l’approvazione del documento condiviso, il Parlamento ha approvato un decreto che introduce un’altra ventina di bonus di varia natura, con un costo complessivo di circa 800 milioni di euro.

Dall’Irap all’Iva.

Tutti d’accordo anche sull’abolizione dell’Irap, che verrebbe di fatto assorbita con un’addizionale Ires/Irpef, che garantirà la parità di gettito ma la cui applicazione determinerà comunque un rimescolamento dei livelli individuali di prelievo.

Nel documento c’è anche un accenno all’Iva, con la proposta di prevedere una delega al Governo per il riordino, in chiave di semplificazione e di possibile riduzione dell’aliquota ordinaria. È una mediazione importante, soprattutto se si pensa che la Lega, nel suo documento conclusivo, escludeva categoricamente qualsiasi intervento sull’Iva. Come molti sostengono, l’Iva avrebbe bisogno di un robusto riordino, finalizzato anche a ridurre gli spazi di evasione (resta l’imposta con il maggiore tax gap), legati anche alla frammentazione delle aliquote.

A Draghi e ai suoi ministri il difficile compito di conciliare i desideri con ciò che è davvero possibile e necessario.

IlSole24Ore

Gratteri fa a pezzi la riforma Cartabia: “Così converrà delinquere, meno sicurezza nel Paese. Morirebbero i maxiprocessi alla ‘ndrangheta come Rinascita Scott”. - Giuseppe Pipitone

 

Il procuratore di Catanzaro in audizione alla Camera: “Produrrà un aumento smisurato delle impugnazioni in Appello e Cassazione: a tutti conviene, per ingolfare la macchina della giustizia". Secondo il magistrato il 50% i processi "finiranno sotto la scure della improcedibilità". Tra questi anche "i 7 maxi processi" contro la 'ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro. "A questo punto - ha aggiunto - meglio la prescrizione del reato come era prima della riforma Bonafede. Provocherebbe meno danni".

Nicola Gratteri fa a pezzi la riforma della giustizia di Marta Cartabia. Con un intervento lungo una ventina di minuti, in videoconferenza con la commissione Giustizia della Camera, il procuratore capo di Catanzaro contesta punto per punto gran parte delle norme contenute nella legge delega varata dal governo di Mario Draghi. A cominciare da quella che viene considerata la “nuova prescrizione” cioè l’improcedibilità: se il processo dura più di due anni in Appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi) non può più perseguire e il medesimo processo muore. “Le conseguenze saranno, in termini concreti – dice Gratteri – la diminuzione del livello di sicurezza per la Nazione visto che certamente ancor di più conviene delinquere, l’annullamento totale della qualità del lavoro, perché fissare una tagliola con un termine così ristretto vuol dire non assicurare che tutto venga adeguatamente analizzato con la dovuta attenzione, aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione perché se prima qualcuno non presentava impugnazioni con questa riforma a tutti, nessuno escluso, conviene presentare appello e poi ricorso in Cassazione non foss’altro per dare più lavoro ingolfare di più la macchina della giustizia e giungere alla improcedibilità”

“Un processo su due morirà in appello” – Un quadro a tinte fosche quello tratteggiato dal magistrato anti ‘ndrangheta: “Fissare una tagliola – continua – vuol dire non assicurare che tutto venga esaminato con attenzione. Anzi provocherà un aumento smisurato delle impugnazioni in Appello e Cassazione: a tutti conviene fare ricorso, anche solo per ingolfare la macchina della giustizia A questo punto meglio la prescrizione del reato come era prima della riforma Bonafede. Provocherebbe meno danni“. Sempre sull’improcedibilità Gratteri ha spiegato che, tra i lati negativi, c’è da segnalare che “prescinde completamente dal tempo trascorso dalla commissione del reato”. Quindi nei processi per direttissima che si concludono in un giorno, per esempio quelli per rapina in flagranza, in Appello l’improcedibilità scatterebbe in due anni, mentre attualmente la prescrizione scatta dopo sette anni. “Le conseguenze special preventive mi sembrano evidenti”, dice il magistrato. Che quantifica nel 50% i processi che “finiranno sotto la scure della improcedibilità“. Tra questi anche “i 7 maxi processi” contro la ‘ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro. Comperso il famoso Rinascita Scott, maxi procedimento alla cosca Mancuso che vede imputate 355 persone.

“Processi contro pubblica amministrazione andranno in coda”” – Secondo Gratteri in gioco c’è oltre alla sicurezza, la stessa “credibilità dello Stato”, visto che non solo “non si celebreranno i processi contro la pubblica amministrazione“, destinati , come tutti i processi senza detenuti ad “andare in coda”, e che a rischio improcedibilità ci sono oltre ai processi di mafia anche quelli per rapine e di chi “vende droga nelle piazze“. Non solo: la riforma della prescrizione, accusa il procuratore, parte da un “approccio errato: l’idea che il tempo eccessivo per i giudizi di appello sia correlato alla scarsa produttività dei magistrati”, che invece sono “i più produttivi in Europa”. Se i giudizi in Italia durano di più,il motivo è il numero dei procedimenti sulle spalle dei giudici: “gli appelli proposti in Italia sono il doppio di quelli della Spagna e il triplo di quelli della Francia. E in Cassazione i ricorsi sono pari a 10 volte il numero che si registra nei Paesi europei”. Anche per questo “occorre cominciare a parlare di risorse: da un anno e mezzo non si fanno concorsi per l’accesso in magistratura e così non si riuscirà a coprire i posti di chi va in pensione”. Gratteri, poi, ha fatto notare che i termin i del processo d’Appello “oltre ad essere ridottissimi, decorrono dal 90esimo giorno dal deposito della sentenza di primo grado, mentre per la trasmissione del fascicolo in appello o in Cassazione in genere ci vuole molto più tempo. Quindi il termine per lo svolgimento del giudizio inizia a decorrere quando il giudice non ha ancora il fascicolo”. Come dire: i processi d’Appello non moriranno dopo due anni di dibattimento, ma molto prima. Il bello è che questa riforma, scritta per velocizzare i processi, non sortirà alcun effetto su questi fronti: “Gli attuali giudizi di impugnazione – dice Gratteri – non vengono in sostanza toccati, il che significa che non vi è nessun motivo ragionevole per ritenere che i tempi attualmente impiegati possano essere ridotti”.

Tempo perso per reati poi cancellati – Per Gratteri è poi “poco efficace l’ulteriore sconto di pena di 1/6 in caso di mancata proposizione di ricorso in appello. Infatti, se l’imputato sa che può beneficiare della improcedibilità, troverebbe più conveniente impugnare la sentenza vedendosi azzerata la pena in caso di sforamento dei due anni”. Altro punto contestato è il potenziamento dell’istituto del concordato in appello: “Questo istituto appare assolutamente incoerente con l’intero sistema processuale, tanto è vero che era stato abolito in passato. Infatti, dopo il giudizio di primo grado, in cui si sono assunte le prove davanti al giudice, con tutte le lungaggini che ciò comporta e dopo che il giudice ha dovuto redigere la sentenza, si arriva a un accordo che può letteralmente smontare la sentenza impugnata, evitando la celebrazione del giudizio di appello. Essendo illimitato il concordato, si può negoziare la cancellazione di un reato, ovvero di una aggravante con consistente abbattimento della pena”. Un sistema che si può estendere ai reati gravi come quelli di mafia: “Se passasse la riforma, le parti, dopo il processo di primo grado in cui l’imputato è stato condannato per associazione mafiosa con ruolo di promotore, oppure per partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di droga, oltre a singoli reati di droga, potrebbe concordare la eliminazione della qualità di promotore. La corte di appello ha il potere di non accogliere la richiesta di accordo. Ma, oberata da tante cause e pur di evitare la improcedibilità di un processo che si presenta complesso, difficilmente non avallerebbe l’accordo raggiunto e così si andrebbe ad indebolire il giudizio di primo grado. Per cui lo Stato, dopo avere investito risorse per celebrare un processo di primo grado, consentirebbe di fatto di vanificare il tempo e i denari spesi, con concordati in appello che svuoterebbero di contenuti il processo celebrato in primo grado”.

“L’iscrizione retrodatata appesantirà i processi” – Un altro aspetto della riforma smontato dal magistrato anti ndrangheta è quello che concede “all’indagato di chiedere al giudice di retrodatare l’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato in caso di ingiustificato ed inequivocabile ritardo”. Ma cosa vuol dire ingiustificato e inequivocabile ritardo? “Sono concetti molto sfumati e tali da creare non pochi problemi. Normalmente la questione viene sollevata in processi complessi, contrassegnati da numerose imputazioni e persone coinvolte”, dice Gratteri, prima di fare un esempio: “Viene depositata una informativa di reato di oltre 3000 pagine, nella quale la polizia giudiziaria deferisce centinaia di persone. Ebbene qual è il tempo congruo per valutare la necessità di iscrivere le persone nel registro? Il giudice si dovrà studiare l’informativa e magari solo dopo 3 o 6 mesi potrà dire qual era il tempo adatto. E se poi il pm era impegnato nel frattempo a esaminare un’altra informativa altrettanto ponderosa? Il giudice dovrà studiarsi anche l’altra informativa per valutare se il ritardo era o meno giustificato. Come è dato vedere la questione è più complessa di quello che appare. Tanto è vero che, opportunamente, il legislatore non aveva comminato alcuna sanzione processuale alla tardiva iscrizione lasciando che il comportamento fosse eventualmente censurabile sotto il profilo disciplinare”. Insomma un’altra norma che appesantisce i processi. “Ovviamente se il giudice di primo grado dovesse rigettare la questione verrebbe riproposta anche in appello. In quel caso, la situazione è ben più drammatica, poiché la Corte è tenuta già a fare una corsa contro il tempo, per non incorrere nella tagliola dei fatidici due anni pena la improcedibilità del reato”.

Le alternative – Quindi Gratteri ha poi spiegato alcune sue proposte alternative: “Bisogna modificare il sistema delle impugnazioni, inserire la possibilità di celebrare anche i giudizi in appello davanti a un tribunale monocratico per reati di minore rilevanza. Va rimosso il divieto di reformatio in peius”. Per il capo della procura di Catanzaro “si deve modificare il sistema delle impugnazioni, non lasciare inalterato il sistema delle impugnazioni (in appello e poi in cassazione) però poi ‘fissare’ un termine tagliola. Tutto questo non ha alcun senso, peraltro attraverso un istituto che il nostro ordinamento non conosce”. Per l’investigatore “Qualsiasi proposta per ridurre i tempi deve partire da modifiche a monte e non a valle”. Il magistrato ha poi criticato i colleghi fuori ruolo, perché “mentre si fa questa la ghigliottina dei processi ci sono 250 magistrati fuori ruolo che fanno i tecnici nei ministeri”. Una situazione – quella dei vuoti in organico – destinata ad aggravarsi, visto che “non si fanno concorsi da un anno e mezzo, quindi tra un anno saremmo nei guai”. In chiusura il procuratore di Catanzaro si chiede perché “si ragioni di pene alternative anziché costruire quattro carceri prefabbricate“.

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I veri anti-italiani/3. - Marco Travaglio

 

19luglio 2020. Mentre Conte combatte al Consiglio Europeo sul Recovery Fund e ricorda come la “frugale” Olanda sia un mezzo paradiso fiscale, i giornali italiani continuano a gufare contro l’Italia. Giannini (Stampa) sa già come andrà a finire: “Per noi diminuisce la quota di contributi a fondo perduto e aumenta quella dei prestiti”. E, comunque andrà, sarà un disastro: “Conte e i suoi ministri, superato a fatica il pasticcio venezuelano su Autostrade (sic, ndr) e con lo stress-test delle elezioni regionali del 20 settembre non saranno in grado di reggere l’urto”. Il Giornale tifa apertamente Rutte: “Europa, Conte flop. E quella frase degli olandesi: ‘Non ce la beviamo’. L’Olanda imita Prezzolini e Rutte copia gli Apoti”. Belpietro (Verità): “L’accordo che si profila è una disfatta”. Libero: “L’Europa detesta Conte”, “L’Unione non si fida del nostro governo”. Ma il record di patriottismo lo stabilisce l’ultimo nato fra i giornali di destra, Repubblica, estasiata dall’eroica resistenza della povera Olanda: “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’”. Il fatto che Fca che edita Stampubblica abbia sede legale in Olanda è puramente casuale.

20 luglio. Messaggero: “Fondi Ue ridotti per l’Italia. Per il nostro Paese 10 miliardi di sovvenzioni in meno e più fondi da restituire”. Corriere, Repubblica e Stampa: “172 miliardi all’Italia”. Giornale: “Doppia fregatura”, “L’Italia perde già 10 miliardi”, “serve subito la zattera del Mes”, il premier è in “euroaffanno a caccia di un accordo per salvare la poltrona”. Il noto padre dell’europeismo Sallusti difende Rutte: “Gli olandesi sono stronzi, ok. Ma il nostro governo è un’Armata Brancaleone che campa di trucchi ed espedienti”. Feltri (Libero): “Ecco perché l’Ue non sgancia: l’Italia ha molti soldi, ma li dà ai fannulloni. Conte con l’Europa sta sbagliando tutto”. Dagospia: “Conte viene gonfiato come una zampogna a Bruxelles”, “Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Dopo il Cazzaro verde, abbiamo il Cazzaro con la pochette! Per evitare il crack, Conte sarà costretto a chiedere all’Ue un prestito. E a quel punto l’Italia ha la troika in casa. Una vittoria di Pirro che il Conte Casalino proverà a rivendere come un trionfo… (per finire nella merda)”. Paolo Mieli (Corriere): “Una cosa sicuramente Conte è riuscito a portare a casa: potrà esibire la foto in cui sedeva sereno (ancorché non sorridente) accanto ai grandi d’Europa: Merkel, Macron, Sànchez e Ursula”. Folli (Repubblica) a ristabilire l’equilibrio: a causa degli “errori” e dell’“inesperienza” di Conte, “la coperta si è rattrappita” con una “riduzione dei sussidi a fondo perduto tra i 20 e i 30 miliardi che a Roma si considerava già acquisiti”.

E “ora il Mes torna d’attualità”, anzi “diventa una priorità”, “urgente”. A Bruxelles nessuno ne parla. Ma è il sogno erotico di Folli: “per il Conte-2 questo è il nuovo ostacolo”, che “dopo le elezioni di settembre potrebbe rivelarsi troppo alto”. Per l’eccitazione, gli si rizza il riportino.

21 luglio. Dopo l’ultimo giorno e l’ultima notte di battaglia, alle 5.31 il presidente Michel twitta: “Deal!”. L’accordo è siglato dai capi dei 27 Paesi Ue. Il premier italiano ha ottenuto tutto ciò che chiedeva: Recovery di 750 miliardi, nessun diritto di veto dei singoli Stati e, per l’Italia, 36,5 miliardi in più di quelli previsti dal piano Von der Leyen. Da 172,7 a 208,8: intatti quelli a fondo perduto (81,4) e più prestiti (da 90,9 a 127,4). Il surplus è la cifra del Mes, ora ancor più inutile di prima. Mattarella chiama Conte all’alba per complimentarsi. Poi i leader e i ministri giallorosa.

I giornali, chiusi a mezzanotte, non hanno ancora i dettagli dello storico accordo, ma solo la notizia che è quasi fatto. E l’imbarazzo dei profeti di sventura si taglia col coltello. Il Messaggero dà le pagelle, strepitosa quella di Conte: “Ha combattuto e non ha perso”. Il Corriere ha due editoriali che sono l’apoteosi del rosicamento. Sabino Cassese: “Non è solo questione di soldi” (abbiamo appena ottenuto 209 miliardi quando tutti ne prevedevano la metà e, ora che li abbiamo, non contano più), “il piano di riforme è poca cosa” (come quelli di tutti gli altri Paesi, che iniziano a scriverli ora e han tempo sino a fine anno, scadenza che poi slitterà a fine aprile 2021). Carlo Verdelli pare Bartali: tutto sbagliato, tutto da rifare. Titolo: “La carta d’identità sbiadita del governo (e della nazione)”. Svolgimento: “il governo sembra avere smarrito la carta d’identità, con quella provvisoria ormai scaduta da un pezzo”, privo com’è di una “reputazione spendibile e credibile, specie sui tavoli dove si sta giocando la partita più delicata del finanziamento per ripartire dopo i disastri del virus”; e poi “la bizzarria tutta italiana di mantenere lo stesso premier per due esecutivi molto diversi”, colpevole di “stallo immobile”, mentre “l’improbabile categoria ‘giallorosa’ ricorda il fiocco ormai sbiadito appeso fuori dalla nursery alla nascita del secondo Conte”. Delle due l’una: o a Bruxelles hanno gli occhi foderati di prosciutto e han dato fiducia al premier sbagliato, o Verdelli ha scritto il pezzo senza sapere del Consiglio Europeo. E senza che nessuno avesse cuore di avvertirlo. O di cestinarlo.

Repubblica è da leggenda: “Vince l’asse tra Berlino e Parigi”, “Merkel raggiunge il compromesso sugli aiuti e salva l’Europa”. Conte, a Bruxelles, non c’era proprio. Sta’ a vedere che, al vertice dei Ventisette, erano in Ventisei.

(3 – continua)

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