Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 18 agosto 2021
Nuovo record del debito, a giugno 2.696,2 miliardi.
martedì 17 agosto 2021
La folle guerra delle lacrime di coccodrillo. - Salvatore Cannavò
Afghanistan, 20 anni di errori e menzogne.
Se la guerra in Afghanistan avesse avuto davvero l’obiettivo di colpire i responsabili dell’attentato dell’11 settembre 2001, sarebbe potuta finire il 1 maggio del 2011. Quando Osama bin Ladin, a Islamabad, fu liquidato dalle truppe speciali Usa sotto lo sguardo rapito, immortalato da una celebre foto, di Barack Obama.
Dopo dieci anni, la guerra contro i talebani non aveva fatto nessun passo avanti significativo eppure si andrà avanti dieci anni ancora senza che i responsabili abbiano presentato una scusa o un ripensamento.
I Neocons all’attacco.
Dopo il crollo delle Torri gemelle lo stato maggiore statunitense a partire dal suo commander in chief hanno in testa un solo obiettivo, Bin Laden. Ma soprattutto hanno in testa la guerra in Afghanistan che con l’eliminazione di Al Qaeda non c’entra nulla. Già il 13 settembre, secondo il Washingont Post, sul tavolo di George Bush jr. e del suo manovratore Dick Cheney, ci sono “ben sei piani per colpire l’Afghanistan”.
Gli Usa vanno in Afghanistan per motivi geopolitici: c’è da presidiare l’area del mondo che potrebbe essere preda dell’espansione cinese. C’è da accerchiare l’Iran e preparare la prossima guerra, il chiodo fisso di Dick Cheney, quella in Iraq. L’Afghanistan è invaso di uomini, 775 mila in tutto, di soldi, circa mille miliardi di dollari, di aiuti distribuiti a caso, senza molto senso. Eppure Bush annuncia agli americani una nuova guerra – compostamente dichiarata solo dopo “aver detto molte preghiere” – che sarà vinta “con la paziente accumulazione di successi”. Le preghiere con l’islamismo dei talebani non devono aver funzionato molto e i successi non si sono visti.
Il fido Blair.
Accanto agli Stati Uniti si erge la sponda convinta e decisa della Gran Bretagna guidata dal “progressista” Tony Blair. Che fa di tutto per intestarsi la guerra. Prima, lanciando l’ultimatum a Kabul al grido “o ci consegnate Bin Laden o lasciate il potere” e poi mettendo a disposizione tutto il potenziale bellico necessario dato che le forze armate britanniche “sono tra le migliori al mondo”. Blair è un riferimento obbligato della sinistra riformista e con lui ci sono praticamente tutti: Lionel Jospin in Francia, Gerhard Schröder in Germania, Luis Zapatero in Spagna e la sgangherata formazione ulivista in Italia capeggiata in quel momento da Piero Fassino e Francesco Rutelli. Ma prima occorre fermarsi sulla terza “B” di quella guerra, dopo Bush e Blair: Silvio Berlusconi.
Il signor “B”.
L’allora leader del centrodestra sa bene, e lo dice pubblicamente, che “l’operazione militare in corso è stata preparata da tempo”. L’Italia, diceva l’allora Cavaliere, “non ha mai messo alcun limite alle richieste che, eventualmente, venissero fatte dagli Usa. Ci siamo mantenuti a disposizione e siamo ancora a disposizione”. Con lui tutto il centrodestra, Lega e An comprese, fieramente asserviti ai desideri Usa, come da copione atlantico. E con la guerra si schiera anche l’allora Ulivo anche se con diversi mal di pancia interni.
Fassino con l’elmetto Scontata la contrarietà di Rifondazione comunista – che solo al governo, nel 2006, darà l’avallo alle missioni militari –, tra i protagonisti del tempo troviamo anche l’attuale segretario del Pd, Enrico Letta, privo di alcun dubbio: “La guerra di oggi ha motivazioni più solide e sarebbe un incomprensibile errore per la sinistra italiana tirarsi indietro”. La sinistra italiana non si tira indietro pur con dei distinguo: la sinistra interna ai Ds, l’Unità diretta da Furio Colombo, una parte del cattolicesimo democratico nella Margherita, il “no” del Prc e dei Verdi. Francesco Rutelli, capo della coalizione se ne duole lamentando la “mancanza di una cultura di governo”.
Sarà quella cultura che porterà il secondo governo Prodi a isolare i dissensi sotto l’occhio vigile dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vincola quel governo alla compattezza sulle missioni, pena “un grave problema politico”. Del resto, il progressista numero Uno, Barack Obama, non farà nulla per fermare la catastrofe e il suo vice si chiama Joe Biden.
I Papers delle bugie.
Per capire che la guerra fosse un errore basta leggere gli Afghanistan Papers pubblicati dal Washington Post. Duemila pagine di note, appunti e interviste a generali e diplomatici per evidenziare la catena costante di errori e bugie: “Eravamo privi di una comprensione fondamentale dell’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo” spiegava Douglas Lute, generale a tre stelle. John Sopko, il capo dell’agenzia federale che ha condotto le interviste, conferma che “al popolo americano è stato costantemente mentito”. Quanto alla preparazione dell’esercito, gli addestratori militari Usa hanno descritto le forze di sicurezza afghane come “incompetenti, immotivate e piene di disertori” con i comandanti afghani intenti a “intascare gli stipendi per decine di migliaia di “soldati fantasma”. Nel frattempo l’Afghanistan è diventato il produttore dell’82% dell’oppio mondiale.
Il Merlo gné-gné.
Eppure Emma Bonino, nel 2005, si felicitava per un “processo di transizione istituzionale e democratica” ormai concluso. E su queste posizioni tutta la stampa democratica. Allo scoppio della guerra Gianni Riotta scriveva che l’obiettivo sarebbe stato “un Afghanistan retto da un governo di coalizione, che metta fuorilegge i Taliban e Al Qaeda e ripristini almeno livelli minimi di diritti civili per le donne e i profughi”. Altro editorialista, Antonio Polito, dal 2006 al 2008 senatore della Margherita, si complimentava con Prodi perché sull’Afghanistan aveva “marcato chiaramente la differenza da Bertinotti” manifestando la sua vera preoccupazione. Le voci dissonanti, come Gino Strada, venivano bastonate allegramente. Francesco Merlo nel febbraio 2003 sul Corriere della Sera lo chiamava il “signor Né-Né” che fa tanto rima con gné-gné. “Il signor Né-Né non è un pacifista, è piuttosto una scoria del pacifismo, è la serpe che fa la sua tana nel pacifismo più ingenuo, lupo tra le colombe, volpe nel pollaio”. A uno stupito Gino Strada che chiedeva conto di tali insulti, egli rispondeva: “In guerra (…) non si può scegliere di non scegliere, non si può stare né di qua né di là (…) La retorica delle buone intenzioni ha sempre dei profittatori, degli astuti signori Né-Né. Dove vuole che vadano i lupi e le volpi se non tra le colombe del coraggioso Gino Strada, e nei pollai?”. Oltre a rivelare il giudizio su Gino Strada un certo riformismo “colto”, in quelle parole (nonostante fossero riferite all’Iraq) c’è tutta la supponenza con cui sono state affrontate le guerre globali. Con relative voragini.
ILFQ
Caso Durigon, Flores D’Arcais: “Il leghista è incivile, Draghi è suo complice visto che ancora tace”. - Tommaso Rodano
Paolo Flores d’Arcais, su MicroMega lei ha scritto che il sottosegretario leghista Claudio Durigon è “fuori dall’Italia civile” e deve essere cacciato. Basta una battuta su parco “Mussolini” per essere incompatibili con un incarico di governo?
Mi sembra un fatto di un’evidenza incontestabile. Il nostro essere concittadini si basa su un legame comune dato dalla Costituzione. La Costituzione della Repubblica italiana è notoriamente ed esplicitamente antifascista. I ministri e i sottosegretari di governo giurano fedeltà sulla Costituzione. Dunque il sottosegretario Durigon è uno spergiuro.
Se non fosse sufficiente la nostalgia delle radici fasciste di Latina, con una sola frase Durigon ha offeso la memoria di due eroi dell’antimafia.
Con la proposta di cancellare i loro nomi dal parco comunale di Latina, simbolicamente ha fatto morire di nuovo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mi pare davvero che ce ne sia più che a sufficienza per dire che Durigon non appartiene all’Italia civile.
Il leghista ha specificato che parlava del fratello di Mussolini, non del Duce in persona. E che bisogna rispettare le radici storiche della città. Altrimenti – è il ragionamento – cosa si fa, si cancella ogni traccia del ventennio?
Guardi, l’argomento è risibile. Credo che la famiglia Durigon, come molte altre dell’Agro pontino, sia di origine veneta. Dovrebbero essere a conoscenza di questo modo di dire: “Pezo el tacòn del buso”. La toppa è peggio del buco.
Si aspetta che intervenga il presidente del Consiglio?
Mi sorprende moltissimo il suo reiterato silenzio, visto che Draghi viene descritto – e sembra ben felice di essere descritto – come un fulmine di guerra in tutte le sue decisioni. In questo caso invece la sua pronta e doverosa reazione latita. Per questo motivo, il suo comportamento diventa più vergognoso di minuto in minuto. Finché non interverrà, è da considerare, per omissione, complice di Durigon.
Crede che la mossa di presentare una mozione parlamentare di sfiducia sia giusta o rischia di trasformarsi in un boomerang, se non dovessero esserci i numeri in aula?
Alla fine penso che non sarà necessaria, perché credo che la parte meno ottusa dell’establishment presto costringerà Durigon ad andarsene. Se invece non dovesse succedere, la mozione diventerà doverosa.
Pare che i renziani di Italia Viva non la vogliano votare, le probabilità di fallimento sarebbero alte.
A quel punto, se tra i partiti non si dovesse trovare una maggioranza determinata a far decadere il sottosegretario del “parco Mussolini”, vorrà dire che questo Parlamento è già espressione plastica dell’Italia incivile.
Il fatto che un politico del profilo di Durigon avesse già trovato spazio nel primo governo Conte cosa dice della qualità della classe dirigente italiana?
Per quanto mi riguarda, il primo governo Conte faceva schifo nel modo più assoluto. Il secondo invece mi faceva schifo “semplicemente”. E significa che è ormai da parecchio tempo che la nostra scelta è tra il peggio, il più peggio e il peggissimo.
Leggendo i sondaggi, al peggio non pare ci sia limite… nei popolarissimi Fratelli d’Italia hanno trovato casa nostalgici ben più radicali di Durigon.
La nostra democrazia si fonda sull’antifascismo: chi non è antifascista è fuori dalla nostra democrazia, questo è il dettato costituzionale. Eppure tra meno di due anni avremo un governo Meloni-Salvini, dunque una maggioranza parlamentare tecnicamente proto-fascista. Credo che questo sia il dramma che incombe. I mass media sembrano ignorarlo e nessun settore dell’establishment lo vuole affrontare. Tra meno di due anni, noi avremo un governo Orban-Le Pen. Oltre che per l’Italia, sarà una tragedia per tutta l’Europa.
ILFQ
Imbecillistan. - Marco Travaglio
Su Kabul, l’unica cosa che stupisce è lo stupore. Possibile – si domanda il Giornalista Unico sul Giornalone Unico dall’alto del suo ventennale “atlantismo” e “riformismo” – che l’Afghanistan, dopo vent’anni di esportazione della democrazia e di lotta al terrorismo a suon di bombe, di morti e di torture, si riconsegni ai Talebani? Possibile che il popolo non dia il sangue per difendere tal Ghani, il presidente-fantoccio che gli abbiamo regalato noi e che fra l’altro se l’è già data a gambe? Possibile che l’invincibile armata mercenaria di 300 mila soldati reclutata, equipaggiata e addestrata dagl’invasori (anch’essi fuggiti) si sia squagliata come neve al sole anziché combattere per conto loro, senza neppure quei “tre mesi di resistenza” che i nostri “esperti” prevedevano fino all’altroieri dando per certo l’accordo per un “governo di transizione” gradito all’Occidente? Da vent’anni le meglio firme del bigoncio che se la tirano da “competenti”, embedded al seguito della destra berlusfascia e della “sinistra” blairiana sbavavano per la “guerra al terrorismo” senza mai azzeccarne una. Più i nostri eroi prendevano legnate moltiplicando in tutto il mondo il terrorismo che dicevano di combattere, più raccontavano che stavamo vincendo noi. E ora, tomi tomi cacchi cacchi, scoprono quello che chi ha occhi per vedere sa dal 2001: i Talebani, che 20 anni fa stavano sulle palle ai 3/4 degli afghani, tornano al potere da trionfatori, con l’aureola degli eroi della resistenza. E ancora una volta ci hanno sconfitti con le nostre armi (da noi fornite al cosiddetto “esercito regolare”, subito arresosi nelle loro mani).
Eppure il direttore di Repubblica Maurizio Molinari spiega come la guerra di Bush-Blair-Berlusconi, tre leader che a stento sapevano dov’era Kabul, fosse giusta. Cioè che dietro l’attacco alle Torri Gemelle non ci fossero le satrapie petrolifere del Golfo, in testa l’Arabia Saudita (quella del Nuovo Rinascimento renziano), ma i Talebani (che non sono neppure arabi). “Al-Zawahiri e Bin Laden – scrive Sambuca restando serio – trovarono questo santuario jihadista nell’Afghanistan dei talebani del Mullah Omar – che li ospitò, sostenne e finanziò fino a consentirgli di organizzare l’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 – ma dopo l’intervento americano la base territoriale svanì”. Una tesi che nemmeno i suoi amici del Pentagono osano più sostenere. Quando i Talebani del mullah Omar&C. e il califfo saudita Bin Laden combattevano i sovietici, agli Usa piacevano un sacco: le armi gliele passavano loro. L’incontro fra i due capi avvenne allora: Osama foraggiò i mujaheddin contro l’Urss, d’intesa con gli Usa e con tutto l’Occidente. E poi finanziò la ricostruzione dell’Afghanistan: strade, scuole, ospedali. Perciò era amato dagli afghani e quando Omar entrò in Kabul nel ‘96 lo lasciò lì. Ma nel ‘98 Bin Laden fu sospettato per gli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. E Bill Clinton prese a bombardare la zona di Khost, pensando che si nascondesse lì: invece morirono centinaia di civili. Partì una trattativa fra talebani e Casa Bianca: Wakij Ahmed, braccio destro del mullah, incontrò Clinton il 28.11 e il 18.12 ’98. Offrì di indicare il nascondiglio di Bin Laden in cambio della fine dei bombardamenti. Ma Clinton rifiutò. I Talebani poi rifiutarono di far costruire il mega-gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan alla compagnia americana Unocal, in cui erano impicciati due fedelissimi del neopresidente Bush jr., Cheney e Rice, oltre al futuro Quisling afghano Karzai. Nel suo bel libro sul mullah, Massimo Fini racconta anche la trattativa sull’oppio: nel 2000 il mullah bloccò la coltivazione di papavero, facendo schizzare il prezzo dell’oppio e rovinando gli affari del narcotraffico mondiale. Meno di un anno dopo partì l’attacco e la produzione dell’oppio ricominciò.
L’attacco alle Twin Towers fu un puro pretesto. Non c’era un solo afghano fra gli attentatori né nelle cellule di Al Qaeda. Solo sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, marocchini, yemeniti. Non afghani o iracheni. Infatti furono attaccati Afghanistan e Irak (nel 2003, con la scusa delle armi di distruzione di massa, mai viste, e di un inesistente patto fra Saddam Hussein e Bin Laden, che si erano condannati a morte a vicenda: poi Osama fu ucciso in Pakistan, che nessuno si sognò d’invadere). A Kabul la guerra al terrorismo, costata 3mila miliardi $ solo agli Usa, ha riabilitato i Talebani. A Baghdad ha prodotto l’Isis. Nel febbraio 2003 Gino Strada predisse come sarebbe finita e fu accusato di filo-terrorismo. Francesco Merlo, non ancora passato a deliziare i lettori di Rep, lo additò sul Corriere come un “Signor Né Né”. Gino rispose così: “Signor Merlo, ho l’impressione che il partito della guerra del petrolio non passi un gran momento… Gli amici dell’‘amico George’ imbavagliano l’informazione in modo da renderla indistinguibile dalla propaganda – ne sa qualcosa, Signor Merlo? – eppure la gente non li ascolta. Rendono i telegiornali molto simili al Carosello, eppure le persone continuano a pensare, a porsi domande… Ho la sensazione che non filerà via liscia, che i cittadini si siano stancati di fare da telespettatori, che i padroni delle testate debbano rassegnarsi a non essere anche padroni delle teste…”. Oggi l’Afghanistan torna a vent’anni fa. Invece la stampa italiana non s’è mai mossa.
ILFQ
A Pompei scoperta tomba unica, è giallo sul corpo semi mummificato. - Silvia Lambertucci
POMPEI, la tomba di Marcus Venerius Secundio |
Zuchtriegel: "Una miniera di informazioni". Franceschini: "Straordinario".
Costruita subito all'esterno di Porta Sarno, uno degli importanti varchi di accesso alla città, la tomba, che risale agli ultimi decenni di vita di Pompei, appartiene a Marcus Venerius Secundio, un liberto che nella vita era stato prima il custode del Tempio di Venere, un tempio molto importante perché proprio a Venere i romani avevano intitolato la città, nonché minister degli augustali e infine, sicuramente solo dopo la manomissione, anche Augustale, ovvero membro di un collegio di sacerdoti del culto imperiale. Un ex schiavo, quindi, che dopo il riscatto aveva raggiunto un certo agio economico, abbastanza da potersi permettere una tomba di livello in un luogo assolutamente di prestigio. E tanto da potersi vantare , proprio nell'iscrizione del suo sepolcro, di aver dato "ludi greci e latini per la durata di quattro giorni", cosa che poteva assimilarlo alla classe sociale più elevata e più colta della cittadina, perché in quel periodo, spiega Zuchtriegel, nell'area del Mediterraneo "la lingua greca era un po' come oggi per noi l'inglese" , molto diffusa, quindi, ma non alla portata di tutti a Pompei dove comunque le famiglie più agiate impazzivano per Omero, Eschilo, Euripide.
Tant'è, i primi esami sul corpo ci dicono che la morte ha colto il nostro uomo già anziano, " Doveva avere più di 60 anni e non aveva mai svolto lavori particolarmente pesanti", anticipa il direttore. Dati compatibili con le caratteristiche del suo nome, che lo indica come un ex schiavo 'pubblico', uno dei tanti che a Roma o nelle città di provincia svolgevano lavori di custodia o amministrativi. Ma perché farsi inumare, scegliendo per sé un rito che veniva usato in epoca molto più antica piuttosto che nel mondo greco ma non a Pompei dove, con la sola eccezione dei bambini, i cadaveri venivano cremati? Tra le ipotesi possibili, ragiona il direttore generale dei musei statali Massimo Osanna, quella che Marcus Venerius Secundio si sentisse o fosse estraneo al corpo sociale della città, uno straniero insomma, forse arrivato proprio da qualche altro luogo dell'impero romano o da Roma "dove in quel periodo alcune famiglie continuavano a praticare l'inumazione, cosa che diventerà poi usuale dal secolo successivo".
I misteri non si esauriscono qui: nel recinto della tomba, alle spalle della cella sigillata nella quale era adagiato il corpo di Secundio, sono state trovate due urne, una delle quali in vetro appartiene ad una donna chiamata Novia Amabilis, forse la moglie del defunto, ipotizzano gli archeologi, per la quale si sarebbe usato un rito più propriamente pompeiano. Ma perché alla signora sarebbe stato riservato un trattamento diverso? Senza contare il giallo della parziale mummificazione del cadavere di Secundio che potrebbe essere dovuta alla perfetta chiusura della camera sepolcrale, certo, ma anche ad una pratica di imbalsamazione: "Potremo capirne di più dall'analisi dei tessuti - ci dice Alapont - dalle fonti sappiamo che determinate stoffe come l'asbesto venivano usate per l'imbalsamazione". Il professore allarga le braccia: "Anche per chi come me si occupa di archeologia funeraria da tempo, la straordinaria ricchezza di dati offerta da questa tomba, dall'iscrizione alle sepolture , ai resti osteologici e alla facciata dipinta, è un fatto eccezionale, che conferma l'importanza di adottare un approccio interdisciplinare, come l'Università di Valencia e il Parco archeologico di Pompei hanno fatto in questo progetto". Studi, analisi e nuove ricerche potranno insomma far luce su questo mistero e nello stesso tempo aggiungere tanti altri preziosi tasselli alla storia della città. Intanto si studia come includere anche la necropoli di Porta Sarno e la tomba di Secundio nell'itinerario delle visite. "Al momento purtroppo non è possibile perché il terreno su cui si trova è al di là della ferrovia Circumvesuviana, ma è solo una questione di tempo - assicura Zuchtriegel- siamo al lavoro su uno studio di fattibilità".
lunedì 16 agosto 2021
L’uso del cellulare alla guida è sanzionato anche se si è fermi al semaforo. - luisa Marraffino
La giurisprudenza ha precisato che è vietato utilizzare il telefonino nella circostanza: anzi, il conducente dovrebbe prestare particolare attenzione, essendo un momento di pericolo che non ammette distrazioni.
Domanda. Sono stato multato perché tenevo il cellulare con la mano destra, allo scopo di inviare un messaggio vocale, mentre ero fermo al semaforo. Posso impugnare il verbale?
B.G. Sondrio
Risposta. Si ritiene che la risposta sia negativa. L’articolo 173, secondo comma, del Codice della strada (Dlgs 285/1992) vieta al conducente di fare uso del cellulare durante la marcia, a meno che non utilizzi il viva voce o gli auricolari. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che è vietato fare uso del cellulare (inviando sms, mail, messaggi audio eccetera) anche quando si è fermi al semaforo: anzi, il conducente dovrebbe prestare particolare attenzione proprio durante l’arresto al semaforo, essendo un momento di pericolo che non ammette distrazioni (si veda Corte di cassazione, sezione II, sentenza 23331 del 23 ottobre 2020).
Inoltre è vietata la guida con una sola mano, mentre l’altra è impegnata a tenere il cellulare. In questo comportamento si ravvisa infatti una condotta pericolosa, visto che entrambe le mani devono rimanere libere per le operazioni che la guida comporta, prima fra tutte il cambio di marcia, in caso di necessità (Tribunale di Arezzo, sentenza 106 dell’8 febbraio 2021).
Il quesito è tratto dall'inserto L'Esperto risponde uscito in edicola con Il Sole 24 Ore di lunedì 9 agosto, un numero speciale dedicato alle domande e alle risposte sul tema “Liti, multe, famiglia ed eredità”.
Consulta L'Esperto risponde per avere accesso a un archivio con oltre 200mila quesiti, con relativi pareri. Non trovi la risposta al tuo caso? Invia una nuova domanda agli esperti.
IlSole24Ore
Il Fisco punta a recuperare 12,6 miliardi dall’evasione. - Marco Mobili e Giovanni Parente
Si punta a ridurre il tax gap del 5% nel 2023 e poi del 15% nel 2024. Per centrare l'obiettivo digitalizzazione e impulso alla compliance, portando a 2,8 miliardi il gettito da autocorrezioni.
Lo schema è chiaro e l’ex capo di gabinetto del Mef e ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio lo ha ricordato al ministro dell’Economia Daniele Franco: potenziare l'infrastruttura informatica per semplificare gli adempimenti dei contribuenti ma soprattutto ridurre la distanza tra quanto dovrebbe entrare nelle casse dello Stato e quanto realmente i contribuenti versano come imposte. E quest’ultimo obiettivo è già cifrato: nel 2023 il tax gap dovrà essere ridotto del 5% rispetto al gap del 2019. A conti fatti si tratta di poco più di 4 miliardi di euro che però diventano più di 12 miliardi con la riduzione a regime del 15% del tax gap nel 2024.
Si tratta per altro di una somma al ribasso perché, come scrive Roberto Garofoli nell’allegato alla breve missiva sui target che ogni amministrazione dovrà centrare in nome del Pnrr, la differenza tra incassato e dovuto riferito al 2019 non deve tener conto del differenziale su accise e imposte sul mattone, come può essere l’Imu.
Centrare l’obiettivo di riduzione del tax gap vuol dire comunque recuperare in modo strutturale risorse che fino a oggi alimentano soltanto il sommerso. Una risultato ambizioso che, secondo le indicazioni inviate al Mef, potrà essere centrato seguendo soprattutto due direttrici principali. Da una parte il potenziamento della compliance ovvero dell’adempimento spontaneo del contribuente invitato a chiarire eventuali posizioni incongruenti tra quanto dichiarato e quanto effettivamente versato al fisco. La seconda linea d’azione è il completamento del processo di pseudonimizzazione e analisi dei big data per potenziare le analisi di rischio nella selezione dei soggetti da sottoporre a controllo.
Sotto il primo fronte c’è una progressione molto chiara segnalata nella lettera di Garofoli, che punta a obiettivi non solo quantitativi ma anche qualitativi. Il primo traguardo è fissato a fine 2022: aumentare del 20% il numero degli alert inviati ai contribuenti e del 15% il gettito. In entrambi i casi la “maggiorazione” va rapportata all’ultimo anno prima della pandemia (2019) e quindi dovrebbe tradursi, rispettivamente, in quasi 2,6 milioni di lettere e 2,5 miliardi di recupero. Ma - e questo è il target qualitativo - va ridotto di almeno il 5% il numero di falsi positivi. In pratica l’utilizzo dei database deve puntare sempre più a comunicazioni mirate, ossia dirette a contribuenti per i quali vi siano davvero situazioni di anomalia. Il secondo traguardo, invece, è fissato a fine 2024 con il numero di lettere da aumentare del 40% e il gettito del 30 % sempre rispetto al risultato 2019. A conti fatti significa puntare a quasi 3 milioni di lettere e a 2,8 miliardi di gettito aggiuntivo. E nell’ottica di accompagnamento alla compliance va letta anche la strada già intrapresa della precompilata Iva. A settembre c’è il primo appuntamento con i registri precompilati, ma bisogna arrivare anche alla dichiarazione che però partirà dalle operazioni 2022 e quindi arriverà a partire dal 10 febbraio 2023. Il tutto interesserà un numero molto elevato di imprese e professionisti: 2,3 milioni di partite Iva.
Come anticipato, la seconda linea d’azione punta a mettere finalmente a punto la pseudoanonimizzazione dei dati, prevista dalla legge di Bilancio 2020. L’idea è di utilizzare il patrimonio informativo dell’amministrazione per costruire dei modelli di rischio evasione attraverso dei dati preventivamente anonimizzati. Da lì, poi, si potrebbe calare nella realtà gli indici di rischio e procedere alla fase dei controlli sui soggetti ritenuti più pericolosi. La messa a punto - vista la delicatezza delle informazioni trattate - richiede di trovare una quadra con il Garante della Privacy. Dopo di che, si tratterà di sviluppare i modelli informatici. Ma ora la raccomandazione di Garofoli potrebbe accelerare i tempi.
IlSole24Ore