Si pensava e sperava che leggendo le intercettazioni, penalmente irrilevanti ma moralmente rilevantissime, dell’inchiesta Palamara i nostri partiti avessero capito non solo che, ma anche come vanno riformati il Consiglio superiore della magistratura e l’Ordinamento giudiziario. Purtroppo non è così e infatti non solo il centrodestra, ma anche il Pd si oppongono a una delle proposte di maggior buonsenso avanzate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: quella che, per rompere il circuito perverso delle porte girevoli fra politica e magistratura, impedisce ai magistrati che entrano in politica di tornare in toga con funzioni penali (sia inquirenti sia giudicanti???), ma vieta anche a chi ricopre cariche elettive (parlamentare, ministro, amministratore locale) di diventare subito dopo membro laico del Csm. Cioè dell’organo costituzionale che è il supremo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e dunque dev’essere esso stesso autonomo e indipendente da ogni altro potere. Anzitutto quello politico. Noi siamo per abolire i membri laici, cioè eletti dal Parlamento, affinché il Csm sia davvero un organo di autogoverno e non di eterogoverno dei magistrati, ma sappiamo bene che ciò richiederebbe una riforma costituzionale e che non esiste purtroppo una maggioranza (per giunta dei due terzi) disposta ad approvarla. Ma evitare che un ministro, un sottosegretario o un parlamentare vada direttamente a giudicare disciplinarmente i magistrati e a deciderne le carriere è proprio il minimo sindacale (poi, certo, va anche restituita la titolarità dell’azione penale ai singoli pm e non più soltanto ai procuratori capi, vanno aboliti i limiti di 8 anni per gli incarichi direttivi e semidirettivi delle Procure e va istituito un sistema misto, col sorteggio preliminare, per l’elezione dei membri togati del Csm).
E invece il Pd, per bocca del suo ineffabile sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, fa sapere che è cosa buona e giusta che un parlamentare cambi cappello e vada al Csm. Addirittura come vicepresidente, cioè come capo effettivo dell’insigne consesso, visto che raramente il presidente di diritto – il capo dello Stato – partecipa alle sedute. Del resto lo dobbiamo al Pd se i vicepresidenti degli ultimi due Csm, Giovanni Legnini di quello passato e David Ermini di quello in carica, erano fino al giorno prima parlamentari (Legnini addirittura sottosegretario all’Economia del governo Renzi). Alla faccia dell’autonomia e dell’indipendenza. Purtroppo i padri costituenti non avevano previsto le degenerazioni della partitocrazia. Dunque non avevano immaginato che il Csm si sarebbe trasformato in una casa di riposo per politici trombati o un plotone di esecuzione della peggiore politica contro la migliore magistratura. Ma ciò che sognavano, quando introdussero nel Csm la quota dei laici (pur minoritaria rispetto ai togati), era chiaro e lampante: e cioè che il Parlamento designasse figure di alto prestigio, professionalità e indipendenza nel mondo del diritto. Infatti prescrissero di sceglierli “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Non tra parlamentari o sottosegretari in carica. Ci volle la spudoratezza prima di B., poi della Lega, poi del centrosinistra e infine dell’Innominabile per mandarci gli avvocati di stretta fiducia dei leader che, per comodità, se li erano già portati in Parlamento e al governo. Infatti, quando la politica era una cosa seria, anche i partiti più malfamati della Prima Repubblica mandarono a vicepresiedere il Csm giuristi cristallini come Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Vittorio Bachelet e Cesare Mirabelli, insieme a ex politici molto autorevoli e defilati come Alfredo Amatucci, Giacinto Bosco, Giancarlo De Carolis e Giovanni Galloni (con l’eccezione di Ugo Zilletti, beccato nelle liste della P2). Poi, con l’arrivo di B., lo sbraco: nel Csm entrarono i pasdaran antigiudici forzisti Viviani, Buccico, Casellati, Anedda, Di Federico, Spangher e Leone, uno degli avvocati di B. (Saponara), l’avvocato di Bossi (Brigandì, poi decaduto perché indagato e incompatibile, mentre raccoglieva dossier sulla Boccassini), l’avvocato di Etruria e di papà Boschi (Fanfani), due avvocati dalemiani (Di Cagno e Calvi), per finire in bellezza con i vicepresidenti Mancino (napolitanista), Vietti (piercasinista) ed Ermini (turborenziano e lottiano, poi convertito sulla via di Perugia).
Una galleria degli orrori che s’è aggiunta ai traffici di corrente dei membri togati, giocando di sponda con loro e col Quirinale (specie ai tempi di Re Giorgio) in conto terzi (i partiti di provenienza) per punire i magistrati migliori e promuovere i peggiori ben prima che il trojan nel cellulare di Palamara squarciasse il velo dell’ipocrisia. I casi De Magistris, Apicella, Nuzzi, Verasani, Woodcock, Iannuzzi, Robledo, Forleo, Di Matteo, Ingroia, Lo Forte, Scarpinato e tanti altri sono ancora lì, impuniti e graveolenti, a imperitura memoria (per chi ne possiede una). E ora che finalmente il re è nudo, tocca pure sentire qualcuno che non vuole cambiare le cose. O vuole fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla. La verità è che i vecchi partiti non rimproverano a Palamara di aver fatto ciò che facevano tutti da 25 anni. Ma di essersi fatto beccare.