sabato 15 agosto 2020

L’anno dei pieni poteri di Salvini: l’unico antidoto è la memoria. - Antonio Padellaro

Pieni poteri - Alice Oxman - ebook
Pubblichiamo la prefazione al libro di Alice Oxman, “Pieni Poteri”, in libreria e in ebook per Aliberti editore
Pieni Poteri di Alice Oxman dovrebbe stare sulla scrivania di ogni giornalista che abbia rispetto dei propri lettori (sulla mia certamente). Pieni Poteri rappresenta l’antidoto efficace contro gli avvelenamenti compulsivi da fake news e post-verità. Pieni Poteri è la tragica autobiografia di una Destra sovranista e arrembante. Pieni Poteri comincia il 13 maggio 2018, con una dichiarazione del Segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, contro il nascente governo gialloverde M5S-Lega guidato da Giuseppe Conte. E si conclude il 4 settembre 2019 con la lista dei ministri del governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte.
In mezzo, il diario puntuale, martellante di quei lunghi sedici mesi, giorno dopo giorno, quasi ora dopo ora, trascritto attraverso i titoli dei giornali. Dove la semplice cronaca dei fatti, di ciò che è successo effettivamente, si oppone come barriera granitica ai due grandi nemici della realtà. L’incessante manipolazione degli eventi: in questo caso a cura del partito preso guidato da Matteo Salvini. L’occultamento della memoria che alimentato dalla centrale social del pregiudizio razzista (chiamata la Bestia di Salvini) finisce anche per dimenticare se stessa.
Con Pieni Poteri, il giornalismo dei fatti dovrà ricordare per forza ogni gesto violento, ogni parola insultante, ogni sfregio ai concetti di umanità e di democrazia seguiti all’occupazione del ministero degli Interni da parte del cosiddetto “capitano”. Così che nessuno possa dimenticare che per più di un anno, il Viminale, cuore pulsante della sicurezza della Repubblica è stato occupato, manu militari, da un ultracorpo della politica. E trasformato nella centrale operativa di un potere altro, dedito alla costante violazione dei diritti umani e costituzionali con la persecuzione implacabile degli immigrati. Una guerra aperta contro gli ultimi della terra indicati come i nuovi nemici del popolo. Respinti in mare, in quel Mediterraneo trasformato in un gigantesco cimitero di tombe senza nome. Lasciati a marcire sulle barche (perfino sulle navi della nostra Marina). A friggere sotto il sole, donne e bambini, mentre lo spirito disumano del tempo o girava lo sguardo, o approvava.
Di questo orrore continuato (e di molte altre cattive azioni) abbiamo adesso – grazie alla tenace indignazione di Alice – un minuzioso registro giornaliero. Per non dimenticare. Per non farci più ingannare.

“Salvini mi ha rubato 6 milioni di euro” Le accuse di Brigandì. - Stefano Vergine

“Salvini mi ha rubato 6 milioni di euro” Le accuse di Brigandì

Soldi - L’ex avvocato del Carroccio.
Una truffa da 6 milioni di euro realizzata da Matteo Salvini. È quanto sostiene Matteo Brigandì – ex parlamentare della Lega Nord, già membro del Csm, per anni avvocato del partito e di Umberto Bossi – in una denuncia indirizzata alla procura di Milano e datata 12 agosto 2020. Una ventina di pagine che Il Fatto ha potuto leggere, nelle quali Brigandì ripercorre gli eventi salienti che dal 2012 a oggi hanno trasformato la Lega da partito federalista a forza nazionalista, da Bossi a Salvini, da Lega Nord a Lega Salvini Premier. Una denuncia in cui la politica si mischia al denaro, in particolare ai 49 milioni che ancora oggi pesano come un macigno sulle finanze del vecchio Carroccio. Perché – questo è il succo del ragionamento di Brigandì – Salvini ha fatto “sparire i soldi”.
Al centro della querela c’è una scrittura privata datata 26 febbraio 2014. Quel giorno, a Milano, s’incontrano Bossi, Brigandì, Salvini e Stefano Stefani, allora tesoriere leghista. Lo scandalo della truffa sui rimborsi elettorali, la laurea in Albania del Trota e gli investimenti finanziari in Tanzania avevano già costretto Bossi alle dimissioni. Da segretario della Lega, Salvini quel giorno deve risolvere una grossa grana. Il Carroccio rischia di vedersi sequestrare 6 milioni di euro. Sono soldi che il partito dovrebbe versare a Brigandì per 13 anni di lavoro. “Somma concordata con contratto scritto, stipulato fra me e la Lega nel 2012”, scrive Brigandì nella denuncia. L’accordo prevede una specie di armistizio tra la coppia Bossi-Brigandì e il duo Salvini-Stefani. Armistizio che Brigandì riassume così: “Io rinunciavo ai 6 milioni di euro e, in cambio, Salvini si impegnava a una serie di azioni volte a garantire che il pensiero politico di Bossi e dei suoi collaboratori non fosse completamente gettato alle ortiche”. Tra le varie condizioni, l’accordo sottoscritto da Salvini prevedeva che Bossi – allora come oggi presidente della Lega Nord – potesse scegliere il 20% dei candidati leghisti.
“Nulla di quanto stipulato è mai stato rispettato da Salvini”, sostiene però Brigandì. Che infatti passa al contrattacco. Salvini “si è premurato di stipulare un accordo transattivo, che evidentemente considerava vantaggioso, al solo fine di guadagnare tempo prezioso per poter occultare il denaro. Denaro che avrebbe, invece, dovuto darmi di lì a qualche giorno”. Nella sua denuncia l’ex avvocato di Bossi ricorda che al momento dell’accordo del 2014 il partito aveva ancora parecchio denaro sui conti. Come dire: l’avvocato sarebbe potuto passare subito all’incasso. Ma non lo fece, scrive nella denuncia, perché “ritenevo fondamentale che fossero garantiti idonei spazi politici per l’On. Bossi direttamente – e anche per il sottoscritto indirettamente”. La tesi è che l’accordo sia servito a Salvini per comprare tempo e nel frattempo far sparire i soldi dalle casse padane, così da non poter più restituire all’avvocato i 6 milioni di euro di parcelle arretrate.
“A ciò si aggiunga, come ulteriore dimostrazione delle intenzioni truffaldine di Salvini, che poco dopo – denuncia Brigandì – è stato creato un altro partito, Lega Salvini Premier, che oggi è al vaglio dei giudici penali proprio in quanto parrebbe che esso sia stato costituito al fine di ostacolare o sviare i creditori (non solo io, ma anche lo Stato) per impedire loro di ottenere quanto dovuto”.
La denuncia a Salvini arriva dieci mesi dopo la condanna in primo grado per Brigandì a due anni e due mesi per infedele patrocinio e autoriciclaggio. Secondo il tribunale di Milano, da avvocato della Lega Brigandì è stato infedele ai suoi doveri professionali notificando a se stesso un decreto ingiuntivo che gli ha permesso di incassare quasi 1,9 milioni di euro. Un fatto che il legale stesso ricorda nella denuncia con l’obiettivo di suffragare la sua tesi: l’accordo privato con Salvini, che prevedeva tra le altre cose un armistizio giudiziario tra le parti, non è stato rispettato perché la Lega si è costituita parte civile.

Vietato ai maggiori. - Marco Travaglio

Bonus INPS: si attende la decisione della Lega sui politici ...
Si spera che ieri, vigilia di Ferragosto, il minor numero possibile di italiani abbia seguito l’audizione del presidente Inps Pasquale Tridico in commissione Lavoro della Camera. Uno spettacolo pornografico che in un paese civile andrebbe vietato non tanto ai minori di 18 anni, che non votano, quanto ai maggiori, che votano. Ma dopo certe scene lo faranno sempre meno. E avranno mille giustificazioni che nessuno dovrà permettersi di definire “antipolitica”. Perché l’antipolitica è esattamente quella a cui abbiamo appena assistito. Sette giorni fa Repubblica rivela che l’Antifrode Inps ha beccato 5 deputati e 2mila politici locali a chiedere il bonus per partite Iva in difficoltà. Il presidente della Camera Roberto Fico annuncia al Fatto l’audizione di Tridico, che il Garante della Privacy libera dai vincoli di riservatezza perché “la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati sui beneficiari del contributo” in caso di falsi poveri, per giunta titolari di “funzione pubblica” tenuti dalla Costituzione a svolgerla con “disciplina e onore”. Poi però lo stesso Garante indaga sull’Inps per violazione della privacy. Il Fatto chiede all’Inps l’accesso agli atti per il diritto-dovere di cronaca. Risultato: dopo giorni di linciaggio da giornali e partiti di destra (inclusa Iv), ma anche dal Corriere, ieri Tridico viene lapidato da quasi tutti i deputati. La colpa non è degli onorevoli accattoni, ma di chi li ha scoperti. Lo scandalo non è la notizia in sé, ma il fatto che si sia saputa in giro.
La scena dei deputati che chiedono le dimissioni del presidente Inps perché difende i pensionati onesti dai ladri che minacciano le loro pensioni resterà, a imperitura memoria, nel museo degli orrori della politica, anzi dell’antipolitica. Così come quella di Tridico che, intimidito dai disonorevoli e dal doppio gioco del Garante, non fa i nomi neppure dopo 7 giorni perché – testuale – “abbiamo investito il garante, che ha scritto una nota, che ha bisogno di un approfondimento, che è in corso. Se la Presidenza ci fa pervenire richiesta formale, valuteremo col Garante se fornire i nomi” dei cinque deputati, di cui nel frattempo tre si sono autodenunciati. Nessuna notizia dei 2mila politici locali, anch’essi tenuti a “disciplina e onore” e sprovvisti di diritto alla privacy. Uno spottone all’antipolitica che, insieme alle scuse pietose dei furbastri, porta altra acqua al mulino dell’astensionismo e del qualunquismo. Noi intanto attendiamo risposta alla nostra istanza (si spera prima del termine ultimo di 30 giorni), confortati dalle già 65mila firme alla nostra petizione. Non molleremo l’osso finché non avremo tutti i nomi. Convinti come siamo, con Louis Brandeis, che “la luce del sole è il miglior disinfettante”.

venerdì 14 agosto 2020

Poteri a Consob su Borsa Spa E il governo pensa all’acquisto. - Marco Palombi

Poteri a Consob su Borsa Spa E il governo pensa all’acquisto

Nella versione finale del dl Agosto tornano i poteri all’Autorità per bloccare operazioni sgradite: ora il Tesoro valuta un’offerta a LSE.
Il cosiddetto “decreto agosto” ieri sera è uscito dagli uffici nebbiosi del Tesoro e oggi dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale (otto giorni dopo la sua approvazione formale in Consiglio dei ministri). Il testo che Il Fatto ha potuto visionare, rispetto a quello degli ultimi giorni, contiene però una novità non da poco: viene effettivamente ampliato il potere concesso a Consob, l’autorità che vigila sui mercati, di impedire operazioni sgradite su Borsa Italiana Spa. In sostanza, il diritto di chiedere informazioni su eventuali passaggi di quote rilevanti della società (o della società che la controlla) e, se del caso, intervenire fermando tutto.
Questi maggiori poteri, seppure in capo ad Autorità simili in altri Paesi europei, erano spariti dalle bozze degli ultimi giorni, ma evidentemente la pressione di un pezzo della maggioranza (5 Stelle in testa) ha riportato le cose al punto di partenza. Non una novità da poco se, come riporta (non smentita) Milano Finanza, il governo ha rotto gli indugi sulla questione Borsa Italiana e – in una prossima riunione tra Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (ma dovrebbe esserci anche il sottosegretario Riccardo Fraccaro, il cui staff ha curato il dossier fin dall’inizio) – darà il via libera a un’offerta alla London Stock Exchange per rilevare Piazza Affari e tutto quel che contiene.
La situazione è complessa e va spiegata. Privatizzata nel 1998, Borsa Italiana fu ceduta alla società che gestisce anche la piazza londinese (LSE appunto) nel 2007 garantendo una plusvalenza miliardaria alle banche e agli intermediari finanziari che l’avevano rilevata dallo Stato. La nostra Borsa non è un mercato enorme, ma è una società efficiente che produce utili nelle sue varie divisioni (particolarmente rilevante in questo contesto è Mts, cioè la piattaforma su cui vengono intermediati i titoli di Stato italiani). Problema: LSE vuole fondersi col gigante dei dati Refinitiv, la cui controllata Tradeweb sarebbe un doppione di Mts. Per aggirare i limiti dell’Antitrust europea e fare cassa, i londinesi sono costretti a cedere Borsa Italiana: la vicenda ha subito una brusca accelerazione in questi ultimi giorni, tanto che LSE – e i suoi advisor Goldman Sachs e Morgan Stanley – hanno avviato l’asta e si aspettano le prime offerte entro venerdì 21 agosto e quelle vincolanti per settembre.
E qui torniamo al ruolo del governo italiano. Piazza Affari, e in particolare Mts, possono essere considerate asset strategici: sicuramente interessati all’acquisto sono Euronext (che riunisce alcune Borse europee a partire da Parigi) e i tedeschi di Deutsche Börse, ora si aggiunge pure il governo italiano non si sa bene in che forma e se in alleanza coi francesi.
Il dossier è infatti da mesi sulle scrivanie del governo e si arriva a questa accelerazione senza le idee chiare. Il piano sponsorizzato in primo luogo dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, prevede che Borsa Italiana finisca in Euronext, ma con l’ingresso nell’azionariato di Cdp all’8% (la stessa quota che nella società ha già la Cassa depositi francese).
Il problema è che Euronext non ha i soldi per fare da sola un’operazione che costa almeno 3,3 miliardi (le servirebbe un aumento di capitale) e ha già dimostrato nel recente passato di non gradire le aste troppo competitive (ha lasciato agli svizzeri di Six la Borsa di Madrid per non rilanciare).
E qui arrivano i nuovi poteri concessi a Consob, che sostanzialmente ne ampliano il potere negoziale nel caso di un cambio di azionariato di Borsa Spa (o persino della sua controllante). Di fatto Consob deve ricevere preventiva comunicazione da parte di qualunque operazione superiore al 10% del capitale su LSE o Borsa Spa ed entro 90 giorni persino opporsi alla chiusura dell’affare: in ipotesi, non solo la vendita di Borsa Italiana, ma persino la fusione tra LSE e Refinitiv potrebbe essere ostacolata da questa modifica normativa (in odore di violazione delle norme europee).
È evidente insomma che chi volesse partecipare all’asta per Piazza Affari– con una tale spada di Damocle sulla testa e il contestuale interesse dello Stato a entrare nell’azionariato – non lo farà senza un preventivo accordo col governo italiano: la cosa non farà piacere a Londra perché rischia di abbassare il prezzo di vendita (o almeno non farlo alzare). Ora resta da capire come vogliono muoversi Conte e soci.

“C’è stata frode”: i deputati non avevano diritto al sussidio. - Patrizia De Rubertis

“C’è stata frode”: i deputati non avevano diritto al sussidio
Hanno chiesto legittimamente all’Inps il bonus da 600 euro per sostenere co.co.co e partite Iva durante l’emergenza Covid nonostante uno stipendio da parlamentari di quasi 14 mila euro. Alle 12 Tridico metterà quei nomi a disposizione della Camera, alleviando la pruriginosa questione etica e morale. Ma quella giuridica? Il garante della Privacy ha chiesto all’Istituto guidato da Pasquale Tridico di spiegare chi, come e perché abbia profilato i nomi dei politici anche se la frode non c’è stata. Eppure per l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri e il giuslavorista ed ex politico Giuliano Cazzola l’operato della direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza, da cui è partita l’indagine, è stato corretto: “Deputati e consiglieri regionali non ne avevano diritto”. Per capire come si è arrivati fin qui, e di cosa si sta parlando, bisogna ripartire dalla legge.
Il "cura Italia" e il dl "Rilancio" hanno dato la possibilità di richiedere il bonus di 600 euro senza richiesta di prove ma a una condizione: il lavoratore autonomo non doveva essere titolare di pensione e avere altre forme obbligatorie di previdenza obbligatoria diverse dalla Gestione separata presso l’Inps. Un limite che, se superato, diventa oggetto di controllo non solo da parte delle sedi Inps, ma soprattutto della direzione antifrode che, tra i suoi compiti, ha quello di intercettare situazioni di prestazioni a sostegno del reddito e assistenziali non spettanti o dubbie. “E i deputati – ha spiegato Boeri in un’intervista tv – hanno di fatto una contribuzione obbligatoria”. I parlamentari sono, infatti, iscritti a un’altra forma di previdenza, perché devono versare per poi avere i vitalizi. “Quindi l’antifrode ha correttamente controllato queste posizioni, così come lo ha fatto con altre migliaia di liberi professionisti”, ha sottolineato ancora Boeri.
“Lo stesso criterio dovrebbe valere anche per i consiglieri regionali”, conferma il giuslavorista Cazzola, spiegando che però per i 2 mila amministratori locali minori occorre valutare la loro specifica posizione professionale e previdenziale e non quanto percepiscono dalla istituzione di cui fanno parte”.
Il passaggio successivo è cronaca: una volta che è stato rilevata l’anomalia dei politici che potenzialmente non avevano diritto al bonus, la direzione antifrode l’ha comunicato alla presidenza dell’Inps. In mattinata si conoscerà il colpevole.

Esame di maturità. - Marco Travaglio

M5s, è in corso su Rousseau il voto sulla modifica del mandato zero e le alleanze con i partiti alle elezioni Comunali

Fra ieri e oggi gli iscritti ai 5Stelle decidono, sulla piattaforma Rousseau, uno dei passaggi cruciali dei loro 11 anni di vita: il sì o il no alla deroga parziale al limite di due mandati (solo per chi ne ha svolto uno in un Comune) e all’abolizione del divieto (che non è un obbligo) di allearsi con partiti tradizionali. Due svolte molto attese e anche utili. Due segni di maturità e di crescita, oltreché di realismo, da parte di quella che gli elettori due anni fa hanno eletto a prima forza politica del Paese, che ha espresso il presidente del Consiglio, dato vita a due governi e realizzato molti punti del suo programma. Purtroppo una scelta così importante avviene fra il lusco e il brusco, senza preparazione né discussione, quando la gente pensa a tutt’altro: la vigilia di Ferragosto. C’è da restare basiti dinanzi all’improvvisazione e al dilettantismo di chi – Davide Casaleggio, con l’avallo dei tre garanti Crimi, Lombardi e Cancelleri – ha deciso i tempi e i modi. Al punto da far sospettare che chi un anno fa vantò il record mondiale di partecipazione (sul governo giallorosa si espressero 80mila iscritti) ora sia ben felice che votino in quattro gatti. Magari solo i trinariciuti contrari a deroghe e alleanze. Una vittoria del No sui due fronti, o anche solo sul secondo, condannerebbe il M5S all’isolamento e all’irrilevanza, arretrando di tre anni le lancette della storia, danneggiando il governo e facendo un regalo insperato alla Casta, che non ha mai smesso di sognare il ritorno alle ammucchiate pre-2018 per tagliar fuori gli odiati grillini e rimettersi a tavola.

Chi, fra i 5 Stelle, lo apprezza non deve dimenticare che il governo Conte è stato possibile perché i voti su Rousseau autorizzarono il capo Di Maio ad allearsi con partiti: che senso ha ora vietarlo a priori nelle Regioni e nei Comuni? Sta poi ai vertici locali e nazionali valutare caso per caso opportunità e convenienza. Pronti a dire no, come sacrosantamente han fatto con De Luca in Campania; ma anche a dire sì, come han fatto in Liguria con Sansa e avrebbero dovuto tentar di fare in Puglia o almeno nelle Marche. Il discorso vale vieppiù nei Comuni, dove il M5S è nato: l’anno prossimo si eleggono i sindaci di Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. A Roma e Torino, le candidate in pole position per battere la destra sono Raggi e Appendino; a Milano, Sala potrebbe passare la mano; a Bologna e Napoli, Merola e De Magistris devono lasciare a nomi nuovi tutti da inventare. Che ci sarebbe di male se il M5S ottenesse l’appoggio del centrosinistra dove può vincere e, dove può solo perdere, sostenesse candidati del Pd in cambio di una svolta radicale su ambiente e legalità? Si spera che anche stavolta gli iscritti siano più maturi di chi dovrebbe esserlo più di loro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/14/esame-di-maturita/5899747/

giovedì 13 agosto 2020

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”. - Lucio Musolino

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”

Dopo la condanna all’ergastolo del boss  Giuseppe Graviano e di Rocco Santo Filippone il 24 luglio, le indagini proseguono sulle tracce di “altri soggetti” che, secondo gli inquirenti, avrebbero collaborato al “disegno di destabilizzazione del paese”. In primo piano nelle dichiarazioni dei pentiti il “patto” tra Berlusconi e Cosa nostra, attraverso Dell’Utri, di cui la mafia avrebbe informato i calabresi.
Un vasto e articolato disegno di destabilizzazione del Paese da attuarsi (anche) con modalità di tipo terroristico”. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza “’Ndrangheta stragista”, con la quale la Corte d’Assise il 24 luglio scorso ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone, c’è una sola certezza per la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria: le indagini continuano e presto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo porrebbe arrivare a quella che, nella sua requisitoria, ha definito “la completa identificazione di tutti i soggetti che concepirono l’attacco terroristico allo Stato”. Identificazione che “dovrà e potrà essere svolta in successivi approfondimenti investigativi”.
Parole che pesano come un macigno sulla testa di chi potrebbe a breve avere un volto nonostante siano trascorsi quasi trent’anni da quelle “stragi continentali” che hanno insanguinato il Paese. L’elenco delle bombe lo ha fatto il collaboratore Gaspare Spatuzza nel corso dell’udienza del 16 marzo 2018 quando, rispondendo alle domande del pm, ha ricordato che nel 1993 aveva preso “l’impegno di recuperare l’esplosivo”: “Sono stato coinvolto purtroppo in tutte le stragi, da Capaci… via D’Amelio, la strage di via Fauro, Firenze, le stragi di Roma, San Giovanni Laterano e San Giorgio a Velabro… e il fallito attentato all’Olimpico, e l’attentato quello di Milano”.
La sensazione è che sulla scrivania del magistrato reggino ci siano diversi fascicoli che riguardano non solo alcuni boss della ‘Ndrangheta e quella componente mafiosa che, pur essendo stata più volte richiamata durante il processo a carico di Graviano e Filippone, non sono finiti alla sbarra. Per ora. Sempre nella requisitoria, il procuratore Lombardo parla di “altri soggetti ancora” che “diedero un contributo al concepimento ed alla pratica attuazione del disegno di destabilizzazione del Paese”.
Leggendo gli atti di “Ndrangheta stragista” è facile capire di chi si tratta. Se sul fronte mafioso, all’appello mancano i nomi De Stefano e Mancuso (espliciti nella ricostruzione fatta dalla Dda), chi siano gli “altri soggetti ancora” è facile intuirlo rileggendo i verbali e le dichiarazioni in aula dei numerosi collaboratori di giustizia e testimoni che hanno sfilato davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria: politici, pezzi deviati delle istituzioni, soggetti legati agli apparati di sicurezza e massoni riconducibili agli ambienti della P2 di Licio Gelli.
Tutte categorie che potrebbero essere sostituite da nomi e cognomi importanti quando si concluderanno le indagini della Procura di Reggio Calabria coordinate da Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo.
Ma andiamo con ordine. Siamo all’inizio degli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, con il Pds di Achille Occhetto che aveva vinto le amministrative dell’ottobre 1993 e il rischio comunista alle porte. Come se non bastasse la Democrazia cristiana si stava sgretolando e, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, non era più in grado di dare garanzie ai boss di Cosa nostra. È questo il periodo, a cavallo tra il 1993 e il 1994, in cui si incastra il racconto di Gaspare Spatuzza che ai pm di Reggio Calabria ricorda l’incontro avuto con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma.
I carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofolalo sono stati già uccisi in Calabria, ma nel disegno criminale di Graviano manca il famoso “colpo di grazia”. “Siamo entrati in questo bar, all’interno ci siamo seduti nei tavolini. – dice Spatuzza – Abbiamo fatto il punto della situazione, gli ho illustrato tutta quella che era stata già programmata la fase esecutiva”.
Spatuzza si riferisce al fallito attentato all’Olimpico dove in via dei Gladiatori, se fosse esplosa la Lancia Thema carica di esplosivo, sarebbero morti una cinquantina di carabinieri. Pochi giorni prima il futuro collaboratore di giustizia rassicura il boss di Brancaccio: “Eravamo già operativi. E lui, in quella circostanza, mi aveva detto che era felice effettivamente, che avevamo chiuso tutto, e avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo. Quindi, a quel punto, che suscitava questa emozione indescrivibile, mi disse che, grazie a questo che… quello che noi avevamo ottenuto, grazie alle persone serie che avevano gestito questa cosa, e mi cita Berlusconi, che a tal punto io venni a dire: ‘Ma se era quello del Canale 5?’. E mi ha detto che era lui. E che era nel mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri. Cioè, il discorso era che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che noi cercavamo”.
Sul piatto c’erano le richieste di Cosa nostra alla politica di cui i boss avevano già discusso in Sicilia. I discorsi fatti al bar Doney, infatti, sono “un seguito di quello che avvenne lì a Campo Felice… c’era in piedi una cosa, e se andava a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati”. Ed è a questo punto che Spatuzza, stando al suo racconto, sente il boss di Brancaccio pronunciare la frase “Abbiamo il Paese nelle mani”: “Avevamo chiuso tutto. Graviano insisteva per consumare l’attentato dell’Olimpico… perché con quello gli dovevamo dare il colpo di grazia”.
Dopo l’incontro al Bar Doney, distante un centinaio di metri dall’hotel Majestic dove era solito alloggiare Marcello Dell’Utri e dove proprio in quei giorni, il 26 gennaio, sarebbe nato il partito di Forza Italia, Spatuzza e “Madre Natura” salgono in auto per andare a Torvaianica: “Lui insiste nel portare avanti quell’attentato contro i carabinieri, perché i calabresi si erano mossi, che erano… si erano mossi con i carabinieri. Infatti, non so se il giorno prima o i giorni successivi, io ho saputo che effettivamente erano stati uccisi due carabinieri in Calabria… La sostanza di quelle poche parole, è questa: cioè, la finalità dell’attentato (quello fallito all’Olimpico, ndr) era di spingere a qualcuno, che si doveva muovere”.
Stragi, quindi, che non dovevano solo intimidire, mettere paura a uno Stato attraverso la sempre utilizzata “strategia della tensione”. Erano bombe e morti che, per dirla con l’avvocato ed ex pm di Palermo Antonio Ingroia, servivano a “convincere un amico, con cui si stava parlando, a fare qualche cosa”. “È esatto?”. “Sì, sollecitare. – risponde Spatuzza – Chi si deve muovere, si dà una smossa. Quindi, ed è un… fare terra bruciata… sì, è un po’ fare terra bruciata al soggetto, o ai soggetti, che avevano preso degli impegni, o che stavano portando avanti delle cose, ma un po’ si erano assonnacchiati”.
Le domande di Ingroia e soprattutto le risposte di Spatuzza non lasciano adito a dubbi su chi sarebbero stati i politici “assonnecchiati” con i quali Graviano aveva “chiuso tutto”: “‘Quello che cercavamo’, questo lo avevate ottenuto tramite quelle due persone, che lei ha già indicato alla scorsa udienza?”. “Si. Si”. “Berlusconi e Dell’Utri. E Graviano si spinse sino a dirle: ‘Abbiamo il paese nelle mani’?”. “‘Il paese nelle mani’, sì, sì”.
Dell’Utri diciamo che si legge Berlusconi”. Il copyright è del pentito Giuseppe Di Giacomo interrogato anche lui nel processo “’Ndrangheta stragista” il 12 giugno scorso. È lui che, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lombardo, conferma che “c’è una correlazione tra la cessazione delle stragi e gli impegni che erano stati assunti”.
Di impegni che la politica avrebbe assunto con la mafia, ne parla anche il collaboratore Pasquale Di Filippo la cui deposizione è finita nella memoria del pm consegnata al termine della requisitoria alla presidente della Corte d’Assise Ornella Pastore. “Berlusconi ha fatto un patto con Cosa nostra. È un patto: ‘Noi ti facciamo salire’. Il patto è questo: ‘Noi ti facciamo salire però tu ci devi aiutare’. E non è un patto questo? Cos’è?”. Stando al suo racconto, dopo la vittoria di Berlusconi alle politiche del 1994, il pentito Di Filippo ne aveva discusso con Leoluca Bagarella con il quale si era lamentato di Forza Italia: “Bagarella non mi ha parlato di patto. Io gliel’ho detto a lui, gli ho detto: ‘Scusa, noi lo abbiamo votato, lui doveva mantenere delle cose, e non le ha mantenute. Per quale motivo?’. Bagarella mi dice: ‘Per ora non può fare niente, perché ci sono altri politici che lo stanno osservando, ma comunque, appena ci può aiutare, ci aiuta”.
A proposito di aiuti, i voti della mafia per le politiche del 1994 non sarebbero stati l’unico favore che Cosa nostra avrebbe fatto nell’interesse di Silvio Berlusconi. Lo dice il pentito calabrese Antonino Fiume, un tempo killer degli arcoti ma soprattutto ex genero del boss Giuseppe De Stefano, figlio del mammasantissima don Paolino De Stefano ucciso all’inizio della seconda guerra di mafia che insanguinò Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991.
Era la stagione dei sequestri di persona. Le vittime, rapite dalla ‘Ndrangheta nel nord Italia, venivano portate in Calabria. Solo alcune venivano rilasciate dopo riscatti miliardari mentre altre sparivano nel nulla, inghiottite dall’Aspromonte.
All’epoca i sequestri erano il core business delle cosche della Locride ma sul fenomeno aveva voce in capitolo anche la ‘Ndrangheta reggina, quella dei De Stefano che il giornalista Luigi Malafarina già negli anni ottanta definì “i mafiosi dalle scarpe lucide”. Morto don Paolino, il boss divenne il figlio Giuseppe De Stefano sempre affiancato da Nino Fiume che, nell’udienza del 6 giugno 2019, ricorda quando “Cosa nostra mandò a dire una imbasciata urgente, di non toccare il figlio di Berlusconi”.
“L’ambasciata – dice – arrivò ad Africo, e io ero con Peppe Morabito e Peppe De Stefano e ‘Ntoni Papalia, e questa era una imbasciata che arrivava là, però ero presente e le sapevo queste cose qui. I palermitani erano andati ad Africo, e Peppe Morabito il ‘Tiradritto’ si era assunto la responsabilità, perché i palermitani, questi dicevano che gli fate i regali e di non sequestrarlo, perché era un periodo che i sequestri… Antonio Papalia aveva passato per novità questo discorso, che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare”.
In realtà, in quel momento, la ‘Ndrangheta non stava progettando alcun sequestro del figlio di Berlusconi: “Loro temevano – spiega infatti Fiume – I palermitani erano andati da Peppe Morabito. Peppe Morabito si era preso questa responsabilità…lui ci aveva spiegato questa situazione, di questa raccomandazione di non toccarlo. Fatto sta che poi avevano trovato la soluzione, e non l’hanno toccato. Era una cosa che interessava a Palermo, era una cosa proprio che era partita da là, questo è sicuro”.