mercoledì 22 settembre 2021

La tara del Colle. - Marco Travaglio

 

Come in salumeria, dove il prosciutto si pesa al netto della carta, urge una tara alle parole degli autocandidati al Colle al netto delle captatio benevolentiae che lanciano agli avversari per strappare voti. Il più comico, anche perché pluri-recidivo, è Luciano Violante, che regala una mega-intervista al Giornale di B. per dire che B. ha ragione: “I giudici non devono riscrivere la storia”, “alcuni magistrati sono stati accecati”, abbasso “il manipulitismo” e viva la schiforma Cartabia, “un buon inizio” che fa “passi in avanti”. Sullo stesso filone – sinistra che cerca voti a destra – c’è Prodi, che prima nega di puntare al Colle e poi definisce la perizia psichiatrica a B. una “follia italiana” (in realtà la perizia sulle condizioni psicofisiche dell’imputato è prevista dalla legge per chi non si fa processare marcando continuamente visita) e lo loda per una fantomatica “scelta europeista”.

Nemmeno B. aveva osato tanto. Ma, sentendolo dire da Prodi, ha finito per crederci e ieri ha inviato un video-messaggio al Ppe dal mausoleo di Arcore o dalla piramide di Cheope per autoelogiarsi come il quarto fondatore dell’“Europa cristiana” dopo De Gasperi, Adenauer e Schumann. Lui che ancora il 21.8.2017 proponeva su Libero fra le risate generali di tornare alla lira, anzi alla “AM-Lira” post-bellica, affiancandola all’euro con un simpatico sistema “a due monete: una nazionale per le transazioni domestiche e una comune per le transazioni internazionali”. Lui che era sceso in campo da antieuropeista sfegatato: “L’Europa è un male per l’Italia” (15.4.94). “Per l’Italia è difficile stare in Europa… Dovremo pagare multe all’Ue o addirittura riuscirne fuori” (23.4.97). “Non si possono accettare provvedimenti pericolosissimi (la superprocura e il mandato di cattura europei, ndr): vi immaginate cosa significa concederli a qualunque pm d’Europa?” (7.12.2001). “L’Europa è percepita come un freno allo sviluppo… Il Gulliver europeo è bloccato dagli ominidi, dai burocrati Ue” (20.3.05). “L’euro di Prodi ci ha fregati tutti” (28.7.05). “Prodi ha svenduto la lira all’euro con un cambio sfavorevole” (24.1.06). Per non parlare di quando collezionò la più leggendaria figura di merda all’Europarlamento inaugurando il semestre di presidenza italiana. Prima insultò il capogruppo del Pse: “Signor Schulz, in Italia un produttore sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò”. Poi insolentì l’intera Aula che protestava: “Siete tutti dei turisti della democrazia!” (2.7.03). Ieri è riuscito a dire restando serio: “Il nostro partito è l’Europa”. Fortuna che era laccato e leccato come un sanitario Ideal Standard abbronzato. E nessuno l’ha riconosciuto.

ILFQ

Covid: Dia, cresce il tentativo delle mafie di infiltrarsi nell'economia.

 

'Le organizzazioni puntano a rilevare imprese e fondi pubblici. Meno violenza e più sinergia con i colletti bianchi'.

Con il prolungamento dell'emergenza dovuta al Covid, "la tendenza ad infiltrare in modo capillare il tessuto economico e sociale sano" da parte delle organizzazioni criminali "si sarebbe ulteriormente evidenziata". E' quanto afferma la Relazione della Dia al Parlamento relativa al II semestre del 2020 sottolineando che si tratta da parte delle mafie di una "strategia criminale che, in un periodo di grave crisi, offrirebbe alle organizzazioni l'occasione sia di poter rilevare a buon mercato imprese in difficoltà, sia di accaparrarsi le risorse pubbliche stanziate per fronteggiare l'emergenza sanitaria". 

La criminalità organizzata cambia sempre più faccia: Cosa Nostra, Camorra, 'Ndrangheta lavorano costantemente per ampliare le proprie capacità di relazione e sempre più in sinergia con i colletti bianchi, "sostituendo l'uso della violenza, sempre più residuale, con linee d'azione di silente infiltrazione".

L'analisi di come si stanno evolvendo le organizzazioni criminali è contenuta nella Relazione della Direzione investigativa antimafia.

I clan di Cosa Nostra, non riuscendo a ricostruire la Cupola cui spettava il compito di definire le questioni più delicate, hanno adottato "un coordinamento basato sulla condivisione delle linee di indirizzo e dalla ripartizione delle sfere di influenza tra esponenti di rilievo dei vari mandamenti, anche di province diverse".  Nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento Cosa Nostra resta egemone e si registrano ripetuti tentativi di una "significativa rivitalizzazione" dei contatti con le famiglie all'estero: le indagini rivelano come i clan hanno "riaperto le porte ai cosiddetti 'scappati' - dicono gli analisti - o meglio, alle nuove generazioni di coloro i cui padri avevano dovuto trovare rifugio all'estero a seguito della guerra di mafia dei primi anni ottanta".

Nell'area centro-orientale della Sicilia sono invece attive organizzazioni "più fluide e flessibili" che si affiancano ai clan storici. Tra queste, sottolinea la Relazione, "un rilievo particolare è da attribuire alla 'Stidda', un'organizzazione inizialmente nata in contrapposizione a Cosa Nostra ma che oggi tende a ricercare l'accordo con quest'ultima per la spartizione degli affari illeciti".

Le indagini hanno anche evidenziato come alcune di queste organizzazioni hanno fatto "un salto di qualità" passando da gruppi dediti principalmente ai reati predatori a sodalizi "in grado di infiltrare il tessuto economico-imprenditoriale del nord Italia". Sempre gli stessi i settori d'interesse sui quali si concentrano le attenzioni dei clan: estorsioni, usura, narcotraffico, gestione dello spaccio di droga, infiltrazione nel gioco d'azzardo illecito e del controllo di quello illegale. E continua, anche, l'infiltrazione in quelle aree economiche che beneficiano di contributi pubblici, in particolare nei settori della produzione di energia da fonti rinnovabili, dell'agricoltura e dell'allevamento. Infiltrazioni possibili grazie alla "complicità di politici e funzionari infedeli".

La Dia nell'ultimo semestre del 2020 ha eseguito 726 monitoraggi nei confronti di imprese impegnate in appalti per grandi opere e ha svolto 12.057 accertamenti su persone fisiche.

La 'ndrangheta rimane saldamente leader nel narcotraffico internazionale, ma "non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all'omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell'organizzazione mafiosa". La Relazione segnala la consolidata proiezione dei gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonchè in Australia, Stati Uniti e Canada. Sottolineato anche il frequente coinvolgimento negli affari illeciti di donne e di minori.

"La spregiudicata avidità della 'ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l'organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate". Il riferimento è una serie di inchieste che hanno visto diversi personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: coinvolti, in particolare, uomini delle famiglie Accorinti, Mannolo, Pesce, Bellocco. Nell'ambito dell'operazione Tantalo, ad esmepio, i Carabinieri hanno deferito all'autorità giudiziaria di Locri 135 percettori irregolari di buoni spesa Covid, alcuni dei quali legati per vincoli di parentela e/o affinità a sodalizi del luogo e, circa la metà, residenti a San Luca.

ANSA

Milano, l’Anpi si appella agli elettori: “Non date il voto a liste e candidati fascisti”. Bernardo un mese fa costretto alla giravolta. - Thomas Mackinson

 

Dopo la bega dei soldi per i comizi e l'alterco con Sala sui milanesi "pistola" un'altra grana per il pediatra sostenuto dal centrodestra. Ignorati gli appelli per rimuovere i simpatizzanti di estrema destra dalle liste, l'associazione partigiani e le altre che si rifanno alla Resistenza si rivolgono direttamente ai cittadini.

Il tempo di tirare un sospiro di sollievo che Luca Bernardo, candidato sindaco di Milano per il centrodestra, si ritrova di nuovo accerchiato tra un botta-risposta con Sala e l’accusa di contiguità con l’estrema destra. Il presidente dell’Anpi di Milano anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla resistenza faranno un appello pubblico non più a liste e candidati, ma direttamente ai cittadini perché “non votino liste con candidati non dichiaratamente antifascisti”. Una posizione che, nella città medaglia d’Oro della Resistenza, può far presa nella corsa elettorale che si gioca tra il centro e la periferia. Può diventare anche un grimaldello ulteriore perché la Lega è ormai dilaniata tra la linea moderata di Giorgetti e quella di Salvini. La seconda per altro è diventata plasticamente minoritaria sulla questione green pass e no-vax , con tanto di scavalco sia dei governatori del Carroccio che degli esponenti con impegni di governo.

La polemica, va detto, in città c’è sempre stata, dai tempi della Moratti, De Corato e del centrodestra a Palazzo Marino che ha sempre strizzato l’occhio alla galassia dei movimenti della destra radicale. E’ successo anche stavolta, alla vigilia della tornata elettorale alle porte. Il 27 agosto scorso il consigliere regionale Max Bastoni, candidato con la lista di Bernardo per Palazzo Marino, aveva inaugurato il comitato elettorale in via Pareto 14, nei locali milanesi del movimento di estrema destra Lealtà Azione. Allora fu la segreteria metropolitana del Pd a sollevare la questione della scelta di condividere gli spazi con “un movimento che ogni anno organizza le celebrazioni al Campo X del Cimitero Maggiore, tra saluti romani e inni ai caduti di Salò”. Bernardo all’epoca dichiarò che “non c’è differenza tra fascisti e antifascisti”, scatenando polemiche che lo costrinsero poi alla giravolta repentina: “Sono antifascista come tutti gli italiani, si condannino tutte le ideologie folli”.

Stavolta però l’Anpi si rivolge direttamente agli elettori. Il presidente della sede provinciale di Milano Roberto Cenati anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla Resistenza (Anpi ma anche Aned, Fiap e Partigiani Cristiani) faranno ai cittadini un appello perché non diano il voto alle liste e ai candidati che non si dissociano dal fascismo. “A 76 anni dalla liberazione di Milano lo avrei considerato scontato”, dice Cenati. “In questi mesi però il nostro accorato appello ai candidati e ai partiti non ha sortito, evidentemente, gli effetti sperati”. Nel frattempo infatti il quartier generale del consigliere regionale Bastoni è rimasto negli stessi locali. Ha anche ribadito di “impegnarsi per far confluire i voti dell’estrema destra su Luca Bernardo”. Ma l’Anpi alza il livello della richiesta spostando la responsabilità della scelta sugli elettori: “A questo punto confidiamo siano loro a dare un segnale, noi non arretriamo sul fatto che chi si candida a governare Milano debba necessariamente ispirarsi ai valori della Costituzione e della Resistenza”.

ILFQ

Le barriere coralline sanno reagire al riscaldamento globale.

Barriera corallina (fonte: Jim Maragos/U.S. Fish and Wildlife Service, modificata da Mielon, Wikipedia)

Le barriere coralline sono in grado di reagire al riscaldamento globale: le stime, basate sull'analisi delle specie che le popolano attualmente, indicano che la loro biodiversità è destinata a modificarsi ma non a ridursi. Lo indica la stima elaborata dall'università delle Hawai a Manoa e pubblicata sulla rivista dell'Accademia delle scienze degli Stati Uniti, Pnas.

Lo studio ha verificato infatti che le specie che dominano le comunità della barriera corallina si stanno modificando per via del cambiamento climatico, ma ciò non significa che in futuro vi sarà un calo della biodiversità complessiva per via del riscaldamento e dell'acidificazione previsti per la fine del secolo.

"Più che il collasso della biodiversità degli oceani, abbiamo osservato dei cambiamenti significativi nell'abbondanza di alcune specie, con una redistribuzione delle comunità della barriera", osserva la coordinatrice dello studio, Molly Timmers. "I minuscoli organismi che vivono nella struttura della barriera corallina - prosegue - sono noti come cryptobiota, che sono l'analogo degli insetti della foresta pluviale e hanno un ruolo fondamentale nel ciclo di nutrienti, cristallizzazione e le dinamiche della catena alimentare".

Nonostante la sua importanza, il cryptobiota è stato spesso sottovalutato nella ricerca sul cambiamento climatico per via delle difficoltà nell'identificare tutti gli organismi che lo compongono. Per valutare la sua risposta alle future condizioni degli oceani, il gruppo di Timmers ha condotto un esperimento in un acquario che riproduceva tutto l'ecosistema della barriera corallina, con acqua marina della barriera hawaiana, e le condizioni di riscaldamento e acidificazione previste per gli oceani alla fine del secolo. Dopo 2 anni, i ricercatori hanno esaminato i gruppi di organismi che si erano sviluppati, vedendo che il numero totale di specie non era cambiato, ma era variata la composizione delle varie comunità. "E' il primo studio a esaminare la diversità dell'intera comunità della barriera corallina - aggiunge Chris Jury, uno dei ricercatori - dai microbi alle alghe, fino ai coralli e pesci".

ANSA

martedì 21 settembre 2021

Riforma del Catasto, così il Governo prova a non aumentare le tasse. - Marco Mobili e Gianni Trovati

 

Sul Catasto il Governo cerca di rincorrere l’invarianza di gettito che dovrebbe tradursi in una redistribuzione del carico fiscale sulla casa adeguando le rendite ai valori di mercato ma senza far crescere l’importo complessivo delle tasse sul mattone.

Sul Catasto il Governo va avanti. Cercando di rincorrere l’invarianza di gettito che, secondo le intenzioni dei tecnici del Mef, dovrebbe tradursi in una redistribuzione del carico fiscale sulla casa adeguando le rendite ai valori di mercato ma senza far crescere l’importo complessivo delle tasse sul mattone. E senza toccare l’abitazione principale.

Obiettivi certo non facili da far passare con una maggioranza che si è subito spaccata sulle tasse sul mattone. Ma la macchina va avanti, costi anche dover prendere qualche giorno in più per il varo della delega fiscale, contestualmente all’approvazione della Nadef, e lasciare spazio nel Cdm di giovedì prossimo al decreto legge per ridurre di almeno un terzo l’aumento delle bollette di luce e gas, e alle misure antidelocalizzazione (su cui restano però ancora divergenze). Misure queste ultime che potrebbero prendere anche la forma di emendamenti al decreto sulla crisi d’impresa all’esame delle Camere.

L’obiettivo di riscrivere l’Irpef.

Con la delega fiscale, sollecitata anche dalla Commissione europea, il Governo punta a riscrivere l’Irpef, alleggerendo il prelievo sui redditi medio bassi e accentuando quanto più possibile la separazione tra redditi da lavoro e rendite finanziare. Non solo. La delega punta anche a ridurre i vicoli della privacy per consentire all’amministrazione finanziaria di utilizzare con più efficacia la miriade di dati in suo possesso per contrastare l’evasione. Tra i temi caldi per la maggioranza c’è poi l’Iva, su cui si punterebbe a un’omogeneizzazione di beni e servizi oggi soggetti ad aliquote agevolate (4,5 e 10%), o ancora la riscossione, su cui il Governo ha già inviato al Parlamento i possibili spazi di intervento, dalla riduzione del magazzino all’inesigibilità dei ruoli, dalla revisione dell’aggio all’accorpamento tra agenzia delle Entrate e l’attuale agente pubblico della riscossione.

Il nodo principale per approvare la delega resta però il mattone. Il patto che il Governo è pronto a sottoscrivere sarebbe quello di riequilibrare il prelievo fra chi ha un immobile che per il fisco vale più che per il mercato (situazione in crescita con la crisi dell’immobiliare in molti centri) e chi è nella situazione contraria. Il nuovo sistema abbraccerebbe come unità di misura il metro quadrato al posto dei vani, alla base di rendite che non considerano in alcun modo l’evoluzione di territori e la dinamica del mercato immobiliare in base all’evoluzione dei servizi.

Riformare senza aumentare le tasse.

Come cercare l’invarianza di gettito è cosa certamente più complessa e la strada potrebbe essere quella di ridurre le aliquote delle imposte o l’aumento della rendita in proporzione all’aumento complessivo dei valori fiscali. 

Le posizioni dei partiti.

L’addio ai vani catastali e la semplificazione delle categorie per dividere gli immobili in «ordinari», «speciali» e «beni culturali», come detto, hanno però spaccato la maggioranza. La Lega resta compatta sul «no» con Massimo Bitonci, già viceministro al Mef con il Conte 1, che giudica un’utopia l’invarianza di gettito. L’obiettivo è invece ritenuto possibile dalla ministra degli Affari Regionali, Maria Stella Gelmini. Ma in Forza Italia fa da contraltare il vicepresidente Antonio Tajani, secondo cui è «errato fare una riforma del catasto che porti poi a un inevitabile aumento della pressione fiscale sulla casa».

Si ammorbidisce però la posizione dei Cinque Stelle. Per Vita Martinciglio e Giovanni Currò, rispettivamente capogruppo e vicepresidente della commissione Finanze della Camera, «la riforma del Catasto non è l’intervento prioritario per rilanciare crescita e occupazione. Ma se troverà posto nella legge delega non ci tireremo indietro. Ma deve essere chiaro che non potrà derivare alcun aggravio fiscale complessivo». Confedilizia in rappresentanza dei proprietari parla di «rischio enorme» dall’intervento sul Catasto. Ma per Leu e il Pd, invece, la revisione degli estimi e il passaggio dal vano al metro quadrato non si possono più rinviare.

IlSole24Ore

Le revisioni del tempo. - Marco Travaglio

 

Da ieri la Corte d’assise d’appello di Palermo è in camera di consiglio e fra pochi giorni ne uscirà per confermare o cancellare le condanne per la trattativa Stato-mafia. In primo grado furono giudicati colpevoli di minaccia a corpo politico dello Stato, oltre ai boss Bagarella e Brusca (Riina e Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Cinà, gli ex capi del Ros Subranni, Mori, De Donno e l’ex senatore Dell’Utri, più Massimo Ciancimino (per calunnia). Ora, come ha spiegato Marco Lillo, tutte le udienze del secondo grado hanno confermato e addirittura corroborato le accuse. Ma un fatto nuovo potrebbe mandarle totalmente o parzialmente in fumo: l’assoluzione definitiva dell’ex ministro Mannino (rito abbreviato). Una sentenza minimalista e revisionista: non solo nega che Mannino abbia istigato il Ros a trattare con i vertici di Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino per salvarsi dalla vendetta mafiosa. Ma addirittura svilisce la trattativa a mera “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria… attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino” in cambio di una sua fantomatica “infiltrazione in Cosa Nostra” per la “cattura di Riina” e la fine delle stragi. Una barzelletta, visto che Ciancimino non si infiltrò in Cosa Nostra, non fece catturare Riina (scovato grazie al pentito Di Maggio e forse alle dritte di Provenzano) e le stragi si moltiplicarono proprio a causa della trattativa, che le aveva rese convenienti agli occhi dei boss.

Si spera che i due giudici togati e i sei popolari non si facciano incantare da queste tesi negazioniste. E si basino su ciò che hanno ascoltato in aula e sulle numerose sentenze, anche definitive, sulle stragi del 1992-‘94, che consacrano la trattativa come un fatto assodato oltre ogni ragionevole dubbio. Del resto, per sapere che la trattativa ci fu, basta rivedersi il video (è su YouTube) delle testimonianze di Mori e De Donno nel ‘97 al processo fiorentino sulle stragi del ‘93. Mori parla tranquillamente di “trattativa” e confessa di aver contattato Ciancimino per tentare di fermare le stragi dopo l’assassinio di Salvo Lima e la mattanza di Capaci (“non si può parlare con questa gente?”) e superare il “muro contro muro” sorto fra Stato e Cosa Nostra (che al generale appariva incredibilmente strano). Anche De Donno la definisce “trattativa”: “A Ciancimino proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro… di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò con delle condizioni”.

Queste: “La condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana a patto di rivelare i nominativi mio e del comandante al suo interlocutore. Facemmo capire a Ciancimino che questa non era una nostra iniziativa personale… Al quarto incontro, Ciancimino si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”. La richiesta del Ros era chiara: l’“immediata cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato”, con l’evidente intenzione di concedere qualcosa ai corleonesi in cambio della “pax mafiosa”. Infatti Riina esulta con i suoi: “Si sono fatti sotto”. Il farsi avanti del Ros è la prova che le stragi pagano. Proprio ciò che si proponeva quando le concepì sullo scorcio del 1991 nel caso in cui, come poi avvenne, lo Stato avesse tradito gli impegni di insabbiare il maxi-processo in Cassazione: “Fare la guerra per fare la pace”. Infatti prepara il “papello” con le sue richieste allo Stato, molte delle quali verranno esaudite nei mesi e negli anni successivi. E le stragi non si interrompono, neppure dopo la sua cattura (13 gennaio ‘93): anzi, proprio per alzare il prezzo, Cosa Nostra alza il tiro. Prima in via d’Amelio a Palermo contro Borsellino e la scorta (19 luglio ‘92), poi a Roma (attentato a Costanzo, 14 maggio ‘93), poi a Firenze (via dei Georgofili, 27 maggio ‘93), infine a Milano e Roma in simultanea (via Palestro e due basiliche capitoline, 27 luglio ‘93). E ottiene la destituzione del capo del Dap, il duro Niccolò Amato, sostituito da un esponente della linea morbida, e la revoca del 41-bis per 334 mafiosi.

La strage fallita e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma (23 gennaio ‘94), tre giorni prima dell’annuncio della discesa in campo di B., chiude la prima trattativa (quella del Ros sotto i governi Amato e Ciampi) e avvia la seconda, con Dell’Utri che – secondo i giudici di primo grado – veicola la minaccia di Cosa Nostra al governo dell’amico Silvio. Il quale, vinte le elezioni del ‘94 anche grazie ai voti di mafia e ‘ndrangheta, prosegue la demolizione dell’antimafia, con attacchi ai pm, ai pentiti, all’ergastolo e al 41-bis e soprattutto con le tre norme filo-mafia contenute nel decreto Biondi (13 luglio ‘94) e anticipate da Dell’Utri a Vittorio Mangano in alcuni incontri nella sua villa sul lago di Como. Il decreto Salvaladri e Salvamafiosi viene ritirato a furor di popolo, ma riassorbito un anno dopo nella “riforma” penale del governo Dini, votata anche dal centrosinistra. Questi sono i fatti, nudi e crudi. E nessuna sentenza negazionista o revisionista potrà mai cancellarli.

ILFQ

Trattativa Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita: ecco perché. - Marco Lillo

 

Secondo grado. Dell’Utri ed ex Ros sperano.

Tra pochi giorni la Corte di assise di appello di Palermo dovrà decidere se la sentenza di primo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia del 20 aprile 2018 vada confermata o annullata. Il processo iniziato nel 2012 ha visto alla sbarra insieme i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Antonino Cinà e l’allora comandante del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, Antonio Subranni, l’ex vicecomandante Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno più l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri.

In primo grado Bagarella si è visto infliggere ben 28 anni; Cinà, Dell’Utri, Mori e Subranni dodici anni; De Donno otto anni e Giovanni Brusca è stato salvato dalla prescrizione. Massimo Ciancimino è stato condannato per calunnia a otto anni. Nel processo parallelo l’ex ministro Dc Calogero Mannino, con il rito abbreviato, è stato assolto con sentenza confermata in appello e definitiva nel 2020.

I sostituti procuratori generali che sostengono l’accusa in appello (Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, guidati dal procuratore generale Roberto Scarpinato) dopo lo stop su Mannino hanno chiesto comunque la conferma delle condanne per gli altri imputati.

Il reato Minaccia a corpo polito dello Stato.

Il reato contestato non è la trattativa in sé ma la minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, prevista dall’articolo 338 del codice penale. Il tema non è quindi se prima i carabinieri e poi Dell’Utri abbiano trattato con la mafia, ma se abbiano turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati nel periodo 1992-1994.

Le domande cui dovrà rispondere la Corte di assise di appello sono in sostanza due: la minaccia allo Stato attuata con le stragi è stata veicolata dai carabinieri del Ros e poi da Marcello Dell’Utri alle istituzioni? Le presunte ‘trattative’, che vedono come protagonisti da un lato i carabinieri e Dell’Utri e dall’altro gli emissari della mafia, configurano un reato? I carabinieri del Ros – Subranni, Mori e De Donno – sono stati condannati per l’innesco della Trattativa con don Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci mentre Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia, è stato condannato per le pressioni veicolate al governo Berlusconi nel 1994.

La sentenza di appello è attesa a partire dal 21 settembre. Le possibilità teoriche sono tre: conferma della condanna per tutti; assoluzione per tutti; oppure condanna per il primo segmento della Trattativa e non per il secondo o viceversa. La Corte potrebbe cioè assolvere solo Dell’Utri e condannare Mori, Subranni e De Donno. Oppure potrebbe condannare solo Dell’Utri. Più difficile ipotizzare uno ‘smembramento’ del destino dei tre ex carabinieri.

Il presidente della Corte di assise di appello è Angelo Pellino, ricordato come il presidente della Corte di Trapani che nel 2014 ha condannato i boss per l’uccisione di Mauro Rostagno.

Giudice a latere è Vittorio Anania, che ha indossato la sua prima toga, prestatagli da un collega, al picchetto d’onore per le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Difficile fare previsioni, ma la strada verso la conferma della condanna è in salita. L’ostacolo più grande è il giudicato definitivo della Cassazione che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per gli stessi fatti.

I due processi, quello con il rito abbreviato contro Mannino e quello ordinario contro tutti gli altri imputati, hanno avuto esiti diversi su fatti praticamente uguali. E questa non è una buona notizia per l’accusa.

Mannino assolto definitivamente nel 2020.

Infatti la Procura generale capeggiata da Roberto Scarpinato ha cercato senza successo di ottenere dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale la possibilità di ribaltare l’appello perso contro Mannino. Invano. Dopo la riforma del 2017, quando c’è una doppia assoluzione, il ricorso al terzo grado è inammissibile. La questione di legittimità costituzionale di questa norma è stata rigettata. Risultato: per la giustizia italiana Mannino è innocente e non ha attivato la Trattativa per salvarsi la vita contattando il generale Subranni. Non ha mai aiutato Cosa Nostra. Anzi l’ha combattuta. Il verdetto definitivo su Mannino bolla la tesi della Procura generale (sostenuta dagli stessi pm oggi nell’altro processo) così: “Non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

La strada per la conferma della condanna è dunque un vicolo stretto e tortuoso. Quando nel 2018 furono condannati Subranni e compagni, c’era già l’assoluzione del 2015 del primo grado di Mannino. La Corte d’assise d’appello ora per confermare la condanna però dovrà saltare un muro più alto. L’assoluzione di primo grado per Mannino è diventato un giudicato. Dopo l’assoluzione di Mannino, la Corte d’assise scavalcò quel verdetto di primo grado così: “Al Subranni, invero, deve ricondursi l’ideazione della trattativa con i vertici mafiosi da cui ebbe a scaturire la minaccia rivolta da questi al governo della Repubblica. Subranni, infatti, ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta (…) in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa Nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”.

Per la sentenza di primo grado, Mori e De Donno avrebbero quasi confessato la ‘trattativa’ nel 1998 quando testimoniarono al processo di Firenze sulle stragi continentali.

La Corte li ha condannati anche sulla base delle loro parole perché l’iniziativa di andare a parlare nel 1992 con il mafioso Vito Ciancimino era tesa “non già come preteso dagli imputati allo sviluppo investigativo di indagini dirette a identificare i responsabili della strage di Capaci e a catturare i grandi latitanti di Cosa Nostra, ma all’intendimento di ristabilire in un certo senso una “normalità” di rapporti con gli esponenti dell’associazione mafiosa, e cioè quella “coabitazione” (…), di modo da far salva la vita a coloro che temevano di essere travolti dalla furia mafiosa (in primis l’On. Mannino che, come si è già detto, in tal senso aveva sensibilizzato l’amico Subranni)”.

Un anno dopo, la Corte di appello del processo Mannino ha confermato l’assoluzione dell’ex ministro nella sentenza ormai definitiva firmata dalla presidente Adriana Piras che fa a pezzi questa tesi. Il Ros avrebbe fatto “un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (…) realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino (…) tale operazione si proponeva attraverso la sollecitazione a un’attività di infiltrazione di Vito Ciancimino in Cosa Nostra, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina”.

Insomma nessun input politico di Mannino. Nessuna trattativa finalizzata a far finire le stragi in cambio di benefici a Cosa Nostra. Solo un tentativo di arrestare Riina con la soffiata di Ciancimino in cambio di benefici individuali a don Vito.

Addirittura, sempre per la sentenza di appello che assolve Mannino, non sarebbe provato nemmeno che il mancato rinnovo nel novembre 1993 di circa 300 decreti di isolamento carcerario al 41-bis fosse dettato dal cedimento alla minaccia stragista.

Questa lettura minimalista è rigettata dalla sentenza firmata dal presidente Alfredo Montalto nel 2018 secondo la quale nell’azione del Ros di Mario Mori c’era “il chiaro invito a Ciancimino (…) a prestare la propria opera per recapitare ai vertici mafiosi un messaggio di apertura al dialogo (“Ma non si può parlare con questa gente?”) finalizzato a “normalizzare” l’anomalia creatasi a seguito dell’uccisione di Salvo Lima e della prevedibile e prevista uccisione di altri politici oltre che della vendetta che aveva travolto il Dott. Falcone, nel rapporto di secolare coabitazione tra mafia e Istituzioni di modo da far cessare la totale contrapposizione (il “muro contro muro”) che, evidentemente, a Mori (e a Subranni che lo aveva incaricato), rispetto alla ‘coabitazione’, appariva invece innaturale”.

I pm a maggio depositata la memoria sull’ex ministro.

La Corte di assise di appello ora dovrà scegliere tra queste due opposte tesi. I sostituti procuratori generali Fici e Barbiera hanno depositato a maggio una memoria di 78 pagine in 21 punti che contesta le omissioni e l’illogicità nella motivazione della sentenza Mannino e la mancata assunzione di prove asseritamente decisive. In testa le testimonianze dei collaboratori Francesco Onorato e Giovanni Brusca. E poi il travisamento della testimonianza di Agnese Borsellino sulle confidenze ricevute dal marito poco prima della strage di via D’Amelio sul generale Subranni. La Corte d’assise di appello potrebbe opporre il giudicato assolutorio su Mannino oppure potrebbe rivalutare quei fatti e darne diversa lettura.

Forse solo la sorte processuale di Marcello Dell’Utri potrebbe essere più facilmente slegata da quella di Mannino e dei carabinieri. Dell’Utri in fondo è stato assolto già in primo grado per la prima fase della Trattativa ed è stato condannato solo per il suo ruolo di ‘mediatore’ nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia nel 1994. Secondo i giudici di primo grado, avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte nel 1994 per parlare delle modifiche legislative delle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al governo Berlusconi, a suon di bombe.

Nella ricostruzione della Corte di assise, i mandanti di quell’iniziativa di Mangano sarebbero stati i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. A raccontare le confidenze ricevute sugli incontri sul lago di Como dallo stesso Mangano è stato un collaboratore di giustizia vicino a Mangano, Salvatore Cucuzza, poi morto.

Nel precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro Dell’Utri però Cucuzza non era stato ritenuto attendibile sul punto. Tanto che in quella sentenza, divenuta definitiva nel 2014, Dell’Utri è stato condannato sì, ma per i suoi rapporti con Cosa Nostra solo fino al 1992. Mentre è stato assolto per il periodo successivo.

I giudici del processo sulla Trattativa hanno però superato l’ostacolo di quel giudicato favorevole all’ex senatore con elementi nuovi. Si sono così convinti che Cucuzza dica il vero: per la Corte di Assise, Mangano incontrò Dell’Utri, percepì la minaccia e la riferì a Berlusconi. “Il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”. Certo, manca un testimone diretto della trasmissione della minaccia a Berlusconi, mai indagato. La Corte d’assise ammette che “si tratta di una prova indiretta”. Ora bisognerà vedere se quella prova basterà anche in appello.

ILFQ