venerdì 23 ottobre 2020

Doping o complotto? Alex Schwazer e il mistero del Dna. - Lorenzo Vendemiale

 

La provetta. La percentuale nell’urina è verosimile?

Doping o complotto, colpevole o vittima: il caso Schwazer continua. Persino la scienza, che di solito accetta solo numeri e certezze, non ammette opinioni, stavolta si smarrisce. Non si tratta più nemmeno di stabilire se l’urina di quella maledetta provetta fosse sua, e se in quell’urina ci fosse del testosterone. Questo ormai è assodato. Il problema è che di Dna di Alex ce n’era pure troppo: un valore così alto da far dubitare della sua autenticità. Neanche la perizia decisiva del Ris di Parma è riuscita a risolvere uno dei più grandi misteri sportivi della storia.

La vicenda risale al 2016, alla vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Alex Schwazer, oro a Pechino 2008, beccato positivo all’Epo a Londra 2012, è tornato alle corse sotto la supervisione di Sandro Donati, medico contro il sistema che dello sport pulito ha fatto un credo di vita. È più in forma che mai, vince la 50 km nei Mondiali a squadre a Roma, è pronto a riprendersi l’oro olimpico, quando il 22 giugno arriva la notizia choc: di nuovo positivo, in un controllo a Capodanno che a una più approfondita analisi ha rivelato microtracce di testosterone.

Squalificato dalla giustizia sportiva, Schwazer è indagato a Bolzano con l’accusa di frode sportiva. In questi quattro anni, le istituzioni internazionali hanno fatto tutto il peggio possibile per alimentare il sospetto di un complotto: gravi mancanze nella custodia dei campioni, violazione dell’anonimato sul controllo, l’incredibile rifiuto di consegnare la provetta B delle controanalisi alle autorità italiane (il laboratorio di Colonia ha provato a rifilare un altro campione, non sigillato, prima dell’intervento del giudice). Come se non bastasse, è saltata fuori una mail riservata in cui il capo dell’antidoping mondiale, Thomas Capdevielle, utilizza la parola plot (“complotto”, appunto) associata alle iniziali “A.S.”.

Lui, per conto suo, si è sempre proclamato innocente. La difesa, inizialmente ondivaga, è diventata forte quando si è scoperto il valore di Dna nella provetta incriminata: circa 1.200 picogrammi per litro, che considerando il decadimento nel corso del tempo nel 2016, al momento del prelievo, avrebbero dovuto essere addirittura 11mila. Cifra sbalorditiva, ai limiti della realtà. Secondo i legali, la prova che qualcuno avrebbe aggiunto Dna per coprire la manipolazione. Ed è a questo punto che il giudice Pelino affida al Ris di Parma una perizia su cui ormai verte l’intera inchiesta: comparare Schwazer a altri soggetti, per capire se quel valore è o non è scientificamente possibile. Se lo è, non c’è motivo di non credere che l’atleta fosse dopato; altrimenti qualcuno ha alterato l’urina per farlo risultare tale.

Nella “popolazione” esaminata sono emersi valori bassi, quasi sempre sotto quota mille, mediamente molto distanti da Schwazer, che hanno portato il colonnello Giampietro Lago a concludere che quella provetta è “anomala”. Nella perizia, però, c’è anche un altro dato trascurato dai media, subito pronti a saltare alla conclusione dello scandalo. Esiste almeno un caso che si avvicina a Schwazer: il campione 109, di 8.762 picogrammi, in fondo non così lontano dagli 11mila stimati per l’atleta.

Quanto basta per Emiliano Giardina, professore all’Università di Tor Vergata e consulente della Federazione mondiale, per affermare che “all’esito di esperimenti basati su numerosità così esigua, non è possibile escludere che la quantità di Dna nell’urina del sig. Alex Schwazer sia riscontrabile in natura”. Così verrebbe meno la teoria della manipolazione, su cui al di là dell’inaccettabile comportamento di Wada e Iaaf la difesa non ha mai potuto fornire alcuna prova, nemmeno un indizio, su come sarebbe avvenuta e da parte di chi.

Per gli accusatori , la sola certezza è che nel campione B, sigillato e presentato nel contraddittorio delle parti, è stata trovata una sostanza dopante e un unico Dna: quello di Schwazer. È un fatto stabilito dalla preziosa perizia del Ris, che però aggiunge anche altro: statistiche alla mano, per il colonnello Lago quel valore “è una assoluta anomalia: inverosimile dal punto di vista fisiologico, possibile mettendo in campo la patologia”.

Per spiegarlo (e quindi inchiodare Schwazer) sul tavolo resta l’ipotesi che l’atleta all’epoca avesse una qualche infezione che ha sballato i numeri (oppure che sia stato proprio il testosterone a farlo, ma su questo non ci sono prove). Altrimenti non rimane che la manipolazione. Nemmeno la perizia però è stata decisiva: quel valore è anomalo, non del tutto impossibile. L’incidente probatorio si è concluso così. Ora il procuratore Bramante deve decidere se mandare a giudizio o archiviare. La verità ancora non esiste.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/23/doping-complotto-alex-schwazer-e-il-mistero-del-dna/5976742/

"Misure drastiche subito", appello scienziati a Mattarella e Conte. - Francesco Saita

 

Dare "piena adesione alla richiesta" del presidente dei Lincei, Giorgio Parisi "di assumere provvedimenti stringenti e drastici nei prossimi due o tre giorni" per "evitare che i numeri del contagio in Italia arrivino inevitabilmente, in assenza di misure correttive efficaci, nelle prossime tre settimane, a produrre alcune centinaia di decessi al giorno". E' quanto si legge nel testo di una lettera-appello che è stata appena inviata al capo dello Stato Sergio Mattarella e al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a firma di oltre cento tra scienziati e docenti universitari, tra cui figurano i nomi del Rettore della Normale di Pisa, Luigi Ambrosio e di Fernando Ferroni, ex presidente Istituto Nazionale Fisica Nucleare.

"Come scienziati, ricercatori, professori universitari - si legge nel testo che AdnKronos ha potuto visionare - riteniamo doveroso ed urgente esprimere la nostra più viva preoccupazione in merito alla fase attuale di diffusione della pandemia da Covid-19 e riteniamo utile segnalare all'attenzione delle Istituzioni, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del Governo, nella persona del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, le stime riportate nell'articolo del Presidente dell'Accademia dei lincei, professor Giorgio Parisi, pubblicato nelle scorse ore nel blog dell'Huffington Post".

"Il necessario contemperamento delle esigenze dell'economia e della tutela dei posti di lavoro con quelle del contenimento della diffusione del contagio deve ora lasciar spazio alla pressante esigenza di salvaguardare il diritto alla salute individuale e collettiva sancito nell'art. 32 della Carta costituzionale come inviolabile", avvertono i i firmatari dell'appello, tra cui figurano anche Gianfranco Viesti, economista dell'Università di Bari, Carlo Doglioni geologo e presidente Istituto nazionale geofisica e vulcanologia, Alfio Quarteroni, matematico applicato, Enzo Marinari, ordinario di Fisica alla Sapienza, Roberta Calvano, ordinaria di Diritto costituzionale Unitelma Sapienza, Piero Marcati, prorettore Gran Sasso Institute, Alessandra Celletti astronoma vicepresidente Anvur.

"La salvaguardia dei posti di lavoro, delle attività imprenditoriali e industriali, esercizi commerciali, e le altre attività verrebbero del resto ad essere anch'esse inevitabilmente pregiudicate all'esito di un dilagare fuori controllo della pandemia che si protraesse per molti mesi - si legge nel testo inviato al Colle e a Palazzo Chigi - . Prendere misure efficaci adesso serve proprio per salvare l'economia e i posti di lavoro. Più tempo si aspetta, più le misure che si prenderanno dovranno essere più dure, durare più a lungo, producendo quindi un impatto economico maggiore".

"E' per questo che il contagio va fermato ora, con misure adeguate, ed è per questo che chiediamo di intervenire ora in modo adeguato, nel rispetto delle garanzie costituzionali, ma nella piena salvaguardia della salute dei cittadini, che va di pari passo ed è anch’essa necessaria e funzionale al benessere economico", concludono gli scienziati che hanno fatto proprio l'allarme lanciato nelle scorse ore dal presidente dei Lincei, Parisi.

https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2020/10/23/misure-drastiche-subito-appello-scienziati-mattarella-conte_rGiv6sstcx5RTYYiUZwnyK.html?fbclid=IwAR0cbnLAhmt-MUeHIZqgLBPHmBjCkUKpd3-uwAyv6oLKq74tmfbsskaHbhg

Covid governo ladro. - Marco Travaglio


Ci siamo sbagliati. Non immaginando che i negazionisti estivi si sarebbero trasformati in rigoristi autunnali, sabato avevamo titolato: “Ora non parlano più”. Invece parlano e danno pure lezioni. I più timorati chiedono che cos’ha fatto il governo per prevenire la seconda ondata, mentre loro la negavano e la favoreggiavano. I più spudorati, tipo Sallusti, chiedono le dimissioni del governo (“Conte vada a casa”) e indicano come modello la Regione Lombardia dei noti serial killer colposi o preterintenzionali. Siccome altri 15 Paesi stanno molto peggio di noi, dovremmo lasciare senza governi mezzo mondo e tutta Europa: ideona per combattere il virus. Ora, noi nutriamo la massima ammirazione per chi persegue fino in fondo le sue idee, purché siano davvero le sue e le mantenga almeno per due o tre giorni di seguito. Per tutta l’estate i partiti e i giornali di destra ci avevano spiegato che Conte faceva apposta a “spargere terrore” su un “Covid clinicamente morto” (Zangrillo) per “salvare la poltrona”, “tenersi pieni poteri e dittatura sanitaria e, da sadico qual è, rovinarci le vacanze e rinchiuderci al più presto in casa. Quando Salvini si presentava smascherinato a un convegno in Senato e se ne vantava (“Non ce l’ho e non la indosso”), poi girava l’Italia sbaciucchiando bimbi e sputazzando sui fan, attaccavano chi lo criticava. E giù interviste à gogo a Zangrillo, che poi almeno ebbe il buon gusto di rettificare, e alla sua versione al pesto: Matteo Bassetti, quello che “a marzo il Covid era una tigre, oggi è un gatto selvatico addomesticabile” (1.6).

Nicola Porro, vicedirettore del Giornale, inneggiava agli sgovernatori che riaprivano le discoteche: “L’ultima dei terroristi del virus: guerra alle discoteche”, “Han creato il terrore del virus e della seconda ondata. Mi han chiesto di fare il tampone, sapete cosa dico io? Tiè! (gesto dell’ombrello, ndr). Ma quale cacchio è l’allarme? Tutto questo pessimismo e paura hanno portato i pieni poteri a Conte e Casalino” (11.7). Così dipingevano la proroga dello stato d’emergenza, che non aumenta di un grammo i poteri del premier, ma consente soltanto di tenere in piedi il Cts e la struttura commissariale di Arcuri: “Colpo di mano. Emergenza Conte” (Giornale, 29.7). “No! No! No!” (Tempo, 29.7). “Conte come Erdogan” (Libero, 2.8), “Tira un’arietta di regime” (Verità, 2.8). Inneggiavano persino il partigiano Montesano per l’eroica Resistenza alla mascherina: “All’aperto è dannosa”, è “un bavaglio”, “una museruola”, “limita le libertà” (Verità, 7, 8 e 16.10). Il duce Conte era troppo duro. Giornale: “Il Covid salva Conte: ora chiede pieni poteri fino al 31 gennaio” (2.10).

E ancora: “Il regime sanitocratico uccide la libertà” (6.10), “Virus, attacco alla famiglia: ora il governo vuole entrarci in casa” (11.10), “Speranza ministro comunista voleva il modello Stasi” (13.10), “Chiusi e mazziati” (14.10). Verità: “C’è immunità di gregge ma creano l’emergenza” (2.10), “Seminano il panico ma il Nord potrebbe aver raggiunto l’immunità di gregge” (Telese, 2.8), “No, non siamo messi male come ad aprile” (3.10), “Verso lo stato d’emergenza infinito nonostante l’epidemia sia sotto controllo” (Capezzone, 3.10), “L’emergenza manovrata per il culto di Giuseppi e per comprare consenso” (Tarchi a Piroso, 6.10), “Torna in auge il circolino dei medici” (10.10), “Per restare al potere Conte e i suoi hanno trasformato la paura in virtù” (11.10), “Richiudono tutto su dati farlocchi. Le terapie intensive sono semivuote. Ma il governo darà una nuova stretta” (Piroso, 12.10), “Ci governano col terrore” (Veneziani, 13.10), “Tra i giacobini e il Terrore mediatico siamo tornati indietro di due secoli”, “Ci vogliono rubare il Natale”, “Ci chiudono in casa e la tassano pure (15, 16 e 17.10), “Conte non sa più cosa vietare”, “Tornano i decreti dittatoriali” (Formigoni, 18.10). Libero: “Conte ha sequestrato molta più gente di Salvini” (3.10). Stampa: “I vicini invitati a farsi Stasi, Kgb, Ovra” (Mattia Feltri, 13.10). E giù interviste a Giucas Cassese: “Lo Stato di emergenza non serve a nulla perché non c’è nessuna emergenza” (2.10). Ora invece, dopo aver dipinto i Dpcm come marce su Roma, ne invocano uno al giorno, possibilmente draconiano: “Il coprifuoco copre solo i ritardi” (Verità, 21. 10). “Giuseppi in tilt. La sua linea soft già scricchiola” (Giornale, 22.10), “Conte sa cosa significa ‘esponenziale’?” (Feltri jr., Stampa, 22.10). Si risente perfino Cassese: “Un sistema debole” (Corriere, 22.10). E pure Bassetti, quello della tigre e del gatto: “Il sistema andava potenziato, così non arriviamo a marzo”. Ma tu pensa.
Da duce che era, Conte diventa un mollaccione indeciso a tutto: da Mussolini a Rumor. Se chiude, sbaglia perché deve aprire; se tiene aperto, sbaglia perché deve chiudere. Se decide tutto da Roma, sbaglia perché non coinvolge Regioni e Comuni (federalismo! decentramento! Devolution! autonomia differenziata! Roma ladrona!); se coinvolge Regioni e Comuni per le chiusure locali (in base alla legge 833/1978), sbaglia perché fa “scaricabarile” (statalismo! centralismo! Roma padrona!). Per carità, può darsi che Conte abbia sbagliato con misure troppo soft: lo vedremo a fine mese dai primi effetti (o meno). Ma lorsignori che avrebbero fatto al suo posto? A parte ripetere che il virus non c’è più e la mascherina fa male alla salute, s’intende.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/23/covid-governo-ladro/5976713/

“Romeo me lo portò l’amico di Renzi sr.: voleva finanziare il Pd”. - Marco Lillo e Valeria Pacelli

 

L’ex tesoriere dem Bonifazi ai pm.

Perché Alfredo Romeo incontrò con Carlo Russo (l’amico di Tiziano Renzi) il parlamentare renziano Francesco Bonifazi a Roma nel marzo del 2015? Secondo Bonifazi per offrire un contributo al Pd, rifiutato. Questa è la versione fornita ai pm romani dall’attuale tesoriere di Italia Viva e allora del Pd. L’esame di Bonifazi è stato voluto dal Gip Gaspare Sturzo. Nella sua ordinanza di rigetto della richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi del febbraio 2020, Sturzo aveva chiesto ai pm Paolo Ielo e Mario Palazzi di approfondire un sms trovato nel cellulare di Russo, l’imprenditore di Scandicci, amico di Tiziano Renzi, indagato con lui e Alfredo Romeo per traffico di influenze illecite.

Russo scrive a Bonifazi il 4 marzo 2015: “Buongiorno Francesco, solo per evidenziarti i passaggi fondamentali dell’incontro di stamani: lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati, senza che venga fuori il nome di T. Grazie, è davvero importante per noi, a dopo. Carlo Russo”.

“T.”, secondo gli investigatori, è la sigla usata da Russo e dall’imprenditore Alfredo Romeo per indicare il padre dell’allora premier, Tiziano Renzi. Il 21 maggio 2020 Bonifazi si presenta ai pm come testimone a sommarie informazioni e spiega: “Il messaggio (di Russo, ndr) è sicuramente precedente di poco a un incontro che ebbi nella stessa giornata con lui e Alfredo Romeo, da lui portato e che non avevo mai conosciuto prima, nell’ottica – come rappresentata dal Russo – di un possibile finanziamento al partito.

Romeo – prosegue Bonifazi – in quell’occasione mi disse che era sempre stato vicino alla nostra area politica precisando che aveva però ancora una pendenza penale in Cassazione, che lui auspicava concludersi a breve e in modo positivo. Preso atto di ciò, convenne con me che non era opportuno procedere a tale liberalità – ovviamente nelle forme di legge – ma attendere semmai la conclusione processuale”. Nel corso della breve conversazione – prosegue Bonifazi – ebbe modo di fare un accenno generico alla sua attività imprenditoriale ma non si fece alcuna richiesta di informazioni o altro. Quella è stata l’unica volta che ho incontrato personalmente Romeo”.

Ma qualcosa non torna. La Cassazione aveva assolto Romeo il 9 luglio 2014. L’imprenditore aveva solo un’indagine minore a Napoli che si chiuderà a settembre 2015 con un proscioglimento del gup.

Bonifazi lo incontra con Russo quando Romeo è alla ricerca di una piena riabilitazione morale dopo l’assoluzione, da parte del Pd. Nell’autunno del 2013, prima dell’assoluzione definitiva, Matteo Renzi aveva reso dichiarazioni poco ‘carine’ su di lui a Report sul contributo di 60 mila euro versato dalla Isvafim di Romeo alla Fondazione Big Bang.

Quando Bonifazi lo riceve nel suo ufficio di Palazzo San Macuto a Roma, Romeo è stato appena nominato presidente di Ifma, l’associazione delle grandi imprese che si occupano di facility management. Insomma non c’era più quel problema ‘reputazionale’ citato da Bonifazi come ostacolo al contributo. La versione di Bonifazi smonta ogni sospetto del Gip Gaspare Sturzo che notava: “Il messaggio di Russo a Bonifazi è del 4 marzo 2015, quindi ad appena una settimana dall’apertura delle buste della gara a più lotti della FM4 Consip”.

Il Gip scriveva (con ampio uso del maiuscolo) anche: “Il messaggio evidenzia come Russo voglia essere considerato e, quindi, qualificato quale UNICO INTERLOCUTORE dì qualcuno con cui debba avere RAPPORTI PRIVILEGIATI, soprattutto ‘SENZA CHE VENGA FUORI IL NOME DI T’. Sulla base della lettura connessa degli atti acquisiti e delle intercettazioni, oltre che delle SIT (dichiarazioni, ndr) del Marroni Luigi e del Gasparri Marco – concludeva Sturzo – non si fatica a collocare tale messaggio nella dinamica Renzi Tiziano <-> Russo Carlo <-> Romeo Alfredo”.

Sturzo indicava ai pm così la pista da seguire: “Ne consegue come allo stato, in tale ottica, debba ritenersi rafforzato il tema accusatorio sul coinvolgimento del Renzi Tiziano, ma a questo punto con la congiunta necessità di verificare il ruolo stesso del Bonifazi, altro deputato del Pd, notoriamente vicino all’epoca dei fatti al Renzi Matteo”.

Quando è sentito dai pm il 21 maggio 2020, Bonifazi però replica: “Quello fu il primo messaggio in assoluto che ricevetti da Russo”. Anche Bonifazi si rende conto che – a leggerlo – non sembra una prima volta e così aggiunge: “Il tono del messaggio è piuttosto stravagante perché una persona che di fatto conoscevo appena di vista si rivolgeva con toni perentori che peraltro mi hanno determinato da subito una diffidenza nei suoi confronti”.

E la T.? Sul punto Bonifazi è ultra-cauto: “(…) è plausibile che il riferimento a T. io l’abbia potuto associare già allora a Tiziano Renzi ma non ne sono affatto sicuro”. Comunque Tiziano non gli parlò di Russo né li vide mai insieme. Un anno e mezzo dopo Russo viene pedinato a settembre 2016 dal Noe mentre va alla sede del Pd e – secondo i Carabinieri – probabilmente in quell’occasione potrebbe aver lasciato un appunto con il curriculum di Romeo a Bonifazi perché l’imprenditore campano era interessato all’acquisto de L’Unità.

Ora Bonifazi chiarisce: “Dopo quel breve incontro (del 2015, ndr) non ho avuto altri colloqui con lui fino al settembre del 2016 quando mi venne a parlare del possibile interessamento di Romeo a rilevare L’Unità”. Poi lo incrocia qualche volta ‘casualmente’ alla stazione di Firenze e infine “nel settembre 2016 venne nel mio studio a Firenze per portarmi un breve curriculum dove si attestava anche l’esito positivo della vicenda processuale di Romeo con l’assoluzione definitiva in Cassazione dicendomi che Romeo era interessato all’acquisto de L’Unità. Lo trattai in modo sbrigativo dicendogli che avrei valutato senza dare alcun seguito (..) Russo non mi parlò di altro”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/21/romeo-me-lo-porto-lamico-di-renzi-sr-voleva-finanziare-il-pd/5973815/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-21

Csm, convertiti e astenuti: così hanno messo fuori Davigo. - Antonella Mascali (20 ottobre 2020)

 

13 voti a favore, 6 contrari e 5 non si pronunciano.

Nel giro di poche ore, Piercamillo Davigo è magistrato in pensione perché oggi compie 70 anni, ed ex consigliere del Csm proprio perché collocato a riposo. Ieri, a determinare la fuoriuscita dal Consiglio, come anticipato dal Fatto, il Comitato di presidenza costituito dal vicepresidente David Ermini, dal presidente della Cassazione Piero Curzio, e dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi. Ergo, il Quirinale.

Sono scesi in campo per dire che la via dell’uscita è tracciata dalla Costituzione. Una posizione che ha portato all’astensione anche chi aveva annunciato in punto di diritto il voto pro Davigo: Giuseppe Cascini, di Area (progressisti), seguito dai colleghi di gruppo Giovanni Zaccaro e Mario Suriano, non Alessandra dal Moro ed Elisabetta Chinaglia rimaste per il no alla decadenza; Filippo Donati, laico M5S, è passato dall’astensione al sì alla decadenza. Astenuti, ma della prima ora, anche i laici Carlo Benedetti, M5S, e Stefano Cavanna, Lega. Chi cambia voto all’ultimo precisa che lo fa “per rispetto istituzionale” verso il Comitato, come se mancasse a chi vota in modo diverso. Tanto che Fulvio Gigliotti, laico M5S, tra i 6 consiglieri pro Davigo, dichiara: “Non per mancanza di senso istituzionale, ma per radicamento del mio convincimento giuridico, confermo” il no alla decadenza. Sebastiano Ardita, di AeI annuncia il suo voto contro come i colleghi Ilaria Pepe e Giuseppe Marra ed esprime sconcerto, senza nominarlo, per il cambio di rotta di Cascini. C’è, però, una stessa premessa in tutti gli interventi, a partire da quello della presidente della Commissione verifica titoli Loredana Micciché, che ha proposto la decadenza: “Stima” per Davigo, “nessuna logica correntizia” dietro al voto. Nino Di Matteo è per la decadenza “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”. Chi, in minoranza, avrebbe voluto la permanenza, invece, ha sostenuto che né la Costituzione né la legge ordinaria prevedono la decadenza da consigliere di un magistrato in pensione e che, quindi, può intervenire solo il legislatore. Ma “se la condizione di magistrato viene meno – ha sostenuto il presidente Curzio, in condivisione con il Pg Salvi – viene meno il rapporto tra laici (8, ndr) e togati (16, ndr)” che la Costituzione prevede per i Csm”. David Ermini a sorpresa parla di “un’amicizia con Davigo irrinunciabile. La Costituzione, però, ci impone di rinunciare all’apporto che Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare”. E conclude: “Sono convinto che proprio in nome dell’amicizia, stima e affetto che ci lega, saprà comprendere”. Alla fine 13 voti per la decadenza, 6 contrari e 5 astenuti.

Al posto di Davigo, il più votato, subentra Carmelo Celentano, primo dei non eletti in Cassazione con la centrista Unicost, che per colpa dello scandalo Palamara ha perso 3 togati su 5. Ora ne recupera uno, ma in teoria: Celentano a gennaio si è dimesso da Unicost. E, comunque, la partita non è affatto chiusa. Davigo, ci risulta, presenterà ricorso al Tar, convinto che la Costituzione, invece, gli consenta di restare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/20/csm-convertiti-e-astenuti-cosi-hanno-messo-fuori-davigo/5972509/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-20

giovedì 22 ottobre 2020

La guerra dei manager allo smart working. - Domenico De Masi

 

Tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020, senza nessuna preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio e cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo a tre miliardi di colletti bianchi.

In tutta la storia delle scienze organizzative, l’unica rivoluzione paragonabile a questa è avvenuta in America all’inizio del Novecento ma, per estendersi da Detroit e da Filadelfia su tutto il pianeta, ha impiegato parecchi decenni. Quella rivoluzione riguardava i colletti blu; questa riguarda i colletti bianchi. In entrambi i casi, l’innovazione non è salita dal basso, ma è calata dall’alto ed è stata opera di ingegneri, non di sociologi o di politici: allora si trattò di ingegneri metalmeccanici; questa volta si è trattato di ingegneri elettronici.

Il grande esperimento ci ha improvvisamente esibito gli stati d’animo, il livello di professionalità, il grado di predisposizione al cambiamento degli impiegati, dei manager, delle aziende, dei sindacati, degli studiosi, degli intellettuali.

Prima che iniziasse, il mondo del lavoro italiano aveva già metabolizzato, quasi senza accorgersene, alcune certezze. Una di queste era che ormai negli uffici si lavorava sempre meno con persone vicine di scrivania, e sempre più con interlocutori che potevano essere fisicamente ovunque. Tra gli impiegati, senza che nessuno lo avesse deciso, vigeva la cosiddetta “regola dei 15 metri” per cui, se una persona lavorava a una certa distanza dal collega, finiva per comunicare con lui tramite email. piuttosto che a voce. A questo punto non vi era nessuna differenza tra lavorare entrambi in ufficio o lontano, magari ai punti opposti del pianeta.

Un’altra certezza era che, per la diffusione dello smart working, si trattava solo di una questione di tempo. Chi è nato nello stesso anno di Facebook, cioè nel 2004, fra dieci anni ne avrà 26; chi è nato con Instagram, cioè nel 2010, ne avrà 20. In altri termini, fra dieci anni tutti gli italiani in età lavorativa saranno digitali e, salvo in caso di mansioni non lavorabili a distanza, nessuno accetterà di lavorare per un’azienda che non gli assicura lo smart working.

Un’altra certezza evidente a tutti, consisteva nella constatazione che già prima del lockdown quasi tutti i colletti bianchi ormai lo praticavano a livello informale nei treni, nelle stazioni, nei bar, nei ristoranti, anche se l’azienda non lo riconosceva a livello contrattuale.

Se è vero che alla vigilia del lockdown vi erano 570.000 lavoratori in remoto e pochi giorni dopo ve ne erano tra i 6 e gli 8 milioni, se è vero che con il lavoro agile la produttività aumenta del 15-20%, se è vero che nulla impediva di introdurre lo smart working già da anni, in modo pianificato, come mai non è stato fatto? Perché la produttività delle aziende è stata così lungamente e intenzionalmente depressa? Chi porta la responsabilità di tutto questo? La struttura aziendale ha una forma piramidale che attribuisce potere, responsabilità e gratificazioni ai capi. Supponendo che nelle organizzazioni vi sia mediamente un capo ogni dieci dipendenti, ciò significa che, dietro 6-8 milioni di smart workers vi sono almeno 600-800mila capi diretti e migliaia di capi del personale. Questi, impedendo l’adozione del lavoro agile, hanno causato alle loro aziende e alle loro pubbliche amministrazioni – per mancanza di professionalità o di coraggio o di onestà intellettuale – un danno incalcolabile. Mettiamoci nell’ottica di uno studioso di organizzazioni come J. C. Flanagan e applichiamo la sua Critical incident technique al lockdown considerandolo appunto come un incidente critico rivelatore di pericolose disfunzioni. Del resto la parola greca “apocalisse” non significa soltanto distruzione, ma anche “rivelazione di cose nascoste”. Ebbene, il Coronavirus ci ha rivelato che questa inadempienza dei capi – soprattutto dei capi del personale – per cui hanno ignorato un’innovazione organizzativa di accertato vantaggio per l’azienda, per i lavoratori e per la società, rinvia a una sub-cultura che va messa a nudo e combattuta perché dannosa e contagiosa non meno del virus rivelatore.

Ma in che cosa consiste? Ripeto qui ciò che ho già scritto più volte: consiste nel primato onnivoro dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni fino alla sistematica identificazione con i vertici e all’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita e della professione; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come negazione del piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili come la parità di genere; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.

Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale agli albori. Qui, l’impresa resta una istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipende quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni. Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.

Per evitare il collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, o non potranno mai diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resterà un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.

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Purtroppo, la guerra dei manager al lavoro a distanza ha una sua logica, anche se alquanto discutibile.
Un manager si sente manager non solo perchè gli viene affidato un incarico di responsabilità, ma perchè quello stesso incarico lo rende possessore di un potere che esercita come meglio crede: favorendo qualche raccomandato per avanzare di ruolo; mortificando i suoi sottoposti per gratificare il suo ego; esercitando la sua posizione di capo per molestare sessualmente le collaboratrici promettendo possibili ed eventuali vantaggi... e via discorrendo.
E' il potere ciò che vuole la maggior parte della gente, per cui accetta ogni incarico di responsabilità, dimenticando, una volta ottenuto il piccolo potere, la responsabilità affidatagli, e mettendo in atto ciò che il potere gli permette... anche irresponsabilmente.
Un manager è manager quando può esercitare il potere.
E poi, come far fare carriera ai raccomandati, se con il lavoro a distanza emergesse la meritocrazia?
Cetta.


Corte Ue ri-taglia i vitalizi agli eurodeputati italiani. - Ilaria Proietti

 

Non c’è trippa per gatti, almeno in Europa. Perché i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione (Cgue), con sede in Lussemburgo, hanno promosso il taglio dei vitalizi caduto come una mannaia anche sugli assegni degli europarlamentari italiani eletti in passato a Bruxelles che sono parametrati a quelli degli ex inquilini di Camera e Senato. Come noto questi ultimi stanno facendo fuoco e fiamme dopo la sforbiciata operativa dal 1° gennaio 2019. E da ultimo sono tornati a sperare di riavere il malloppo grazie a una decisione della Commissione Contenziosa di Palazzo Madama presieduta dal forzista Giacomo Caliendo a cui si erano appellati.

È invece andata malissimo ai loro colleghi eurodeputati, che per ottenere lo stesso risultato hanno trascinato in giudizio il Parlamento europeo. I cui uffici si erano permessi di applicare le regole, comunicando loro una notizia che mai avrebbero voluto ricevere: ossia che pure per i loro cedolini era imminente il ricalcolo e pure l’intenzione di procedere al recupero delle somme che fossero eventualmente indebitamente versate in eccedenza dopo l’entrata in vigore del taglio agli assegni deciso dai due rami del Parlamento nostrano.

Apriti cielo: quelli, gli ex eurodeputati si sono precipitati a chiedere aiuto all’avvocato di Maurizio Paniz che li aveva accolti ben volentieri, avendo già collezionato centinaia di clienti tra i parlamentari desiderosi di fare ricorso per riavere tutto intero il vitalizio erogato da Montecitorio e Palazzo Madama. Nonostante i suoi ottimi uffici, però, resteranno però a bocca asciutta. Perché secondo la sentenza dell’alta Corte europea non sono stati affatto violati i loro diritti: né quello di proprietà, né il legittimo affidamento, né qualsiasi altro argomento che pure invece ha fatto breccia alla corte di Caliendo&C.

Per i giudici europei il taglio deciso in Italia che si è riverberato nei suoi effetti anche sui trattamenti degli eurodeputati ha come obiettivo quello di adeguare l’importo delle pensioni versate a tutti i deputati al sistema di calcolo contributivo. Un obiettivo legittimo, anzi di più.

Perché gli Stati membri “dispongono di un ampio margine discrezionale in sede di adozione di decisioni in materia economica e si trovano nella posizione migliore per definire le misure idonee a realizzare l’obiettivo perseguito”. Ossia risparmio pubblico e austerità “imposti da una grave crisi economica”. E non è tutto.

Hanno anche messo nero su bianco che il taglio agli assegni degli ex onorevoli operativo dal 1° gennaio 2019 non è stato sproporzionato rispetto agli scopi perseguiti. Ché, del resto, tra i ricorrenti nessuno ha neppure provato a dimostrare di essere indigente in modo da avvalersi del diritto all’incremento dell’assegno sforbiciato. Hanno invece provato, senza successo a invocare l’immutabilità delle regole pensionistiche e anche l’intangibilità degli assegni che però in passato sono mutati al ribasso ma pure al rialzo, in applicazione del calo o dell’aumento dell’importo dell’indennità parlamentare.

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