lunedì 4 luglio 2016

Orrore indescrivibile: Chomsky sulla nuova fase della guerra al terrore. - Noam Chomsky e C. J. Polychroniou

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[di Noam Chomsky] «L’ondata di terrorismo anti-occidentale è l’altra faccia della medaglia del terrorismo occidentale. In pochi anni, gli USA sono riusciti a diffondere il terrore jihadista da una piccola area dell’Afghanistan al mondo intero». Intervista a Noam Chomsky.
di Noam Chomsky e C. J. Polychroniou 

La guerra al terrore ha ora assunto la forma di una campagna bellica globale totale. Nel frattempo, le cause reali della nascita e della diffusione di organizzazioni omicide come l’ISIS rimangono opportunamente ignorate.
In seguito al massacro di Parigi in novembre i maggiori paesi occidentali come Francia e Germania si stanno unendo agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo islamico fondamentalista. Anche la Russia si è affrettata ad entrare nel club, dato che ha le sue proprie paure sulla diffusione del fondamentalismo islamico. Di fatto la Russia sta combattendo la sua personale “guerra al terrore” fin dalla fine del crollo dello Stato sovietico. Allo stesso tempo, degli stretti alleati degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, stanno fornendo sostegno diretto o indiretto all’ISIS, ma anche questa realtà viene opportunamente ignorata dalle forze occidentali che combattono il terrorismo internazionale. Soltanto la Russia ha osato di recente etichettare la Turchia  “complice del terrorismo,” dopo che quel paese ha abbattuto un aereo da guerra russo per aver presumibilmente violato lo spazio aereo turco. (Per la cronaca, gli aerei da caccia turchi hanno violato per anni lo spazio aereo greco con grande frequenza: 2.244 volte soltanto nel 2014).
Ha un senso la “guerra al terrore”? È una politica efficace? E in che cosa è diversa l’attuale fase della “guerra al terrore” dalle due precedenti fasi che si sono svolte durante le amministrazioni di Ronald Reagan e George W. Bush, rispettivamente? Inoltre, chi trae realmente vantaggio dalla “guerra al terrore”? E quale è il collegamento tra il complesso militare-industriale degli Stati Uniti e le guerre? Il celebre critico della politica estera statunitense Noam Chomsky ha offerto la sua opinione  a Truthout su questi argomenti in un’intervista esclusiva con C. J. Polychroniou.

Grazie, Noam, per questa intervista. Vorrei cominciare sentendo che cosa pensi dei più recenti sviluppi della guerra contro il terrorismo che è una politica risalente agli anni di Reagan, successivamente trasformata in pseudo-crociata da George W. Bush, con un costo incalcolabile di vite umane innocenti ed implicazioni molto profonde per la legge internazionale e la pace mondiale. La guerra al terrorismo sta apparentemente entrando in una fase nuova e forse più pericolosa, dato che altri paesi si sono buttati nella mischia con agende politiche e interessi differenti rispetto a quelli degli Stati Uniti e di alcuni dei loro alleati. Primo, sei d’accordo con la succitata valutazione sull’evoluzione della guerra contro il terrorismo e, se sì, quali saranno le probabili conseguenze economiche, sociali e politiche di una guerra permanente al terrore per le società occidentali in particolare?

Le due fasi della “guerra al terrore” sono molto diverse, eccetto che per un aspetto fondamentale. La guerra di Reagan si trasformò molto rapidamente in una serie di guerre terroristiche che ebbero conseguenze orribili per l’America Centrale, l’Africa meridionale ed il Medio Oriente. L’America Centrale, il suo obiettivo più diretto, deve ancora riprendersi, una delle principali ragioni dell’attuale crisi di profughi. Lo stesso si può dire della seconda fase, iniziata da George W. Bush vent’anni dopo, nel 2001. L’aggressione diretta degli Stati Uniti ha devastato vaste aree ed il terrorismo di Stato statunitense ha assunto nuove forme, in particolare la “campagna globale di omicidi” per mezzo dei droni lanciata da Obama, che segna un nuovo record negli annali del terrorismo e che, come altre azioni simili, probabilmente genera nuovi terroristi più in fretta di quanto uccida le persone sospette.
L’obiettivo della guerra di Bush era al-Qaeda. Una martellata dopo l’altra – Afghanistan, Iraq, Libia e oltre – è riuscito a diffondere il terrore jihadista da una piccola area tribale dell’Afghanistan a praticamente il mondo intero, dall’Africa Occidentale fino all’Asia sudorientale (attraverso il Levante). Uno dei grandi trionfi politici della storia. Nel frattempo, al-Qaeda è stata sostituita da elementi molto più feroci e distruttivi. Attualmente, l’ISIS (“Stato Islamico”) detiene il record in fatto di brutalità, ma altri “pretendenti” al titolo non sono molto addietro. La dinamica, che risale a molti anni fa, è ben descritta in un’importante opera dell’analista militare Andrew Cockburn, nel suo libro Kill Chain. Esso documenta come, quando si uccide un leader senza occuparsi delle radici e delle cause del fenomeno, questo solitamente viene sostituito molto rapidamente da qualcuno di più giovane, più competente e più violento.
Una conseguenza di questi “successi” è che una larga fetta dell’opinione pubblica mondiale considera  gli Stati Uniti come la maggior minaccia alla pace nel mondo. Molto addietro, al secondo posto, c’è il Pakistan, posizione presumibilmente ingrandita dal voto in India. Ulteriori successi del genere potrebbero rischiano di far esplodere una guerra di vasta scala col “mondo musulmano”, mentre le società occidentali si assoggettano a politiche sempre più repressive e a ulteriori erosioni dei diritti civili in patria, realizzando i sogni perversi di Osama bin Laden ieri e dell’ISIS oggi.

Nella discussione politica che ruota attorno alla “guerra al terrore”, la differenza tra le operazioni dichiarate e quelle segrete non è certo sparita. Nel frattempo l’identificazione dei gruppi terroristici e la scelta degli attori o degli Stati che appoggiano il terrorismo sembra essere totalmente arbitraria, al punto da sollevare il dubbio se la “guerra al terrore” sia veramente una guerra contro il terrorismo o se non sia piuttosto una copertura per giustificare delle politiche di conquista globale. Per esempio, mentre al-Qaeda e l’ISIS sono organizzazioni innegabilmente terroriste e assassine, il fatto che alleati degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita ed il Qatar e perfino nazioni che sono membri della NATO, come la Turchia, abbiano di fatto appoggiato l’ISIS, è o ignorato o seriamente minimizzato sia dai decisori politici statunitensi che dai media convenzionali. Ha dei commenti da fare su questo argomento?

Lo stesso si poteva dire delle versioni di Reagan e di Bush della “guerra al terrore”. Per Reagan è stato il pretesto per intervenire in America Centrale per quella che il vescovo del Salvador, Arturo Rivera y Damas, succeduto all’arcivescovo Oscar Romero, che fu assassinato, definì «una guerra di sterminio e genocidio contro una popolazione civile indifesa». In Honduras e in Guatemala è stato anche peggio. Il Nicaragua è l’unico paese che disponeva un esercito che lo difese dai terroristi di Reagan; negli altri paesi le forze di sicurezza erano i terroristi.
In Sudafrica, la “guerra al terrore” fornì il pretesto per appoggiare i crimini razzisti sudafricani in patria e nella regione, con un costo orrendo in termini di vite umane. Dopotutto, dovevamo difendere la civiltà da «uno dei più famigerati gruppi terroristici» del mondo, il Congresso nazionale africano di Nelson Mandela. Lui stesso rimase sulla lista americana dei terroristi fino al 2008. In Medio Oriente, l’idea della “guerra al terrore” ha giustificato l’appoggio all’invasione omicida del Libano da parte di Israele e molto altro. Con Bush, ha fornito il pretesto per invadere l’Iraq. E continua così.
L’orrore che si sta verificando oggi in Siria è al di là di ogni descrizione. Le principali forze di terra che si oppongono all’ISIS sembra che siano i curdi, proprio come in Iraq, dove sono sulla lista statunitense dei terroristi. In entrambi i paesi, sono l’obiettivo primario dell’assalto del nostro alleato, la Turchia, che sta appoggiando anche il gruppo affiliato di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra, che sembra poco diverso dall’ISIS, sebbene siano in guerra per il territorio. L’appoggio turco per al-Nusra è così estremo che quando il Pentagono inviò varie dozzine di combattenti che aveva addestrato sembra che la Turchia abbia allertato al Nusra, che li ha istantaneamente sterminati. Al-Nusra e Ahrar ash-Sham, suo stretto alleato, sono appoggiati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, alleati degli Stati Uniti, e, a quanto pare, continuano a ricevere armi dalla CIA. Si dice che abbiano usato missili anti-carro forniti dalla CIA per infliggere gravi sconfitte all’esercito di Assad, probabilmente spingendo i russi a intervenire. La Turchia sembra che continui a permettere ai jihadisti di affluire in Siria attraverso il confine turco.
L’Arabia Saudita in particolare è stata un’importante sostenitrice del movimenti estremisti jihadisti per anni, anche al fine di diffondere le sue radicali dottrine wahhabite islamiste attraverso le scuole coraniche e le moschee. Con non poca giustizia, Patrick Cockburn descrive la “wahhabizzazione” dell’islam sunnita come uno degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno enormi forze militari moderne, ma sono a malapena impegnati nella guerra contro l’ISIS. Sono invece impegnati in Yemen, dove stanno creando una considerevole catastrofe umanitaria e molto probabilmente, come prima, generando terroristi futuri che diventeranno gli obiettivi di domani nella nostra “guerra al terrore.” Nel frattempo, la regione e la sua gente continuano ad essere devastati.
Per la Siria pare che l’unica speranza siano i negoziati tra i vari elementi coinvolti, escluso l’ISIS. Tra questi ci sono persone veramente orribili, come il presidente siriano Bashar al-Assad, che non commetteranno volentieri un suicidio politico e dunque dovranno essere coinvolte nei negoziati se si vuole fermare la spirale verso il suicidio nazionale. Su questo fronte si è fatto qualche piccolo passa avanti a Vienna. Ci sono altre cose che si possono fare sul terreno, ma uno spostamento verso la diplomazia è essenziale.

Il ruolo della Turchia nella cosiddetta guerra globale contro il terrorismo deve essere considerato come uno degli atti più ipocriti nei moderni annali della diplomazia. Putin non ha  moderato le parole in seguito all’abbattimento dell’aereo da caccia russo, etichettando la Turchia “complice dei terroristi”. Il petrolio è il motivo per il quale gli Sati Uniti ed i loro alleati occidentali consapevolmente ignorano l’appoggio di certe nazioni del Golfo alle organizzazioni terroristiche come l’ISIS, ma qual è il motivo per cui gli Stati Uniti evitano di contestare l’appoggio della Turchia al terrorismo fondamentalista islamico? 

La Turchia è sempre stata un importante alleato della NATO, di grande importanza geostrategica. Nel corso di tutti gli anni ’90, quando la Turchia stava compiendo alcune delle peggiori atrocità nella sua guerra contro la popolazione curda, divenne la massima beneficiaria di armi statunitensi (al di fuori di Israele ed Egitto, una categoria a parte). Di tanto in tanto il rapporto si è fatto teso, soprattutto nel 2003, quando il governo adottò la posizione del 95 per cento della popolazione e si rifiutò di partecipare all’attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq. La Turchia fu aspramente condannata per non essere riuscita a comprendere il significato di “democrazia”. Paul Wolfowitz, che i media salutarono come “l’idealista principale” dell’amministrazione Bush, rimproverò le forze armate turche per aver permesso al governo di perseguire questo corso sconvolgente, e chiese che si scusassero. In generale, però, i due paesi hanno mantenuto rapporti piuttosto stretti. Di recente, gli Stati Uniti e la Turchia hanno raggiunto un accordo sulla guerra contro l’ISIS: la Turchia ha garantito l’accesso alle basi turche vicine alla Siria, e in cambio ha promesso di attaccare l’ISIS – ma invece ha attaccato i suoi nemici curdi.

Mentre questa potrebbe non essere un’opinione gradita a molte persone, la Russia, al contrario degli Stati Uniti, sembra “misurata” quando si tratta dell’uso della forza. Supponendo che tu sia d’accordo con questa ipotesi, perché pensi che le cose stanno così?

Sono la parte più debole. Non hanno 800 basi militari in giro per il mondo, non potrebbero verosimilmente intervenire dovunque nel modo in cui gli Stati Uniti lo hanno fatto nel corso dei decenni o architettare qualcosa di simile alla “campagna globale di omicidi” di Obama. Lo stesso è avvenuto durante tutta la Guerra Fredda. Poterono usare la forza militare vicino ai loro confini, ma non poterono intraprendere nulla di simile alle guerre in Indocina, per esempio.

La Francia sembra essere diventata un obiettivo preferito dei terroristi fondamentalisti islamici. Qual è la spiegazione di questo?

In realtà sono molti di più gli africani uccisi dal terrorismo islamico. Boko Haram è infatti classificato più in alto rispetto all’ISIS come organizzazione terroristica globale. In Europa la Francia è stata l’obiettivo principale in gran parte per motivi che risalgono alla guerra di Algeria.

Il terrorismo fondamentalista islamico del genere promosso dall’ISIS è stato condannato da organizzazioni come Hamas ed Hezbollah. Che cosa differenzia l’ISIS da altre cosiddette organizzazioni terroriste, e che cosa vuole realmente l’ISIS?

Dobbiamo stare attenti a ciò che chiamiamo “organizzazioni terroriste”. I partigiani anti-nazisti usarono il terrore. E lo ha usato anche l’esercito di George Washington a tal punto che una gran parte della popolazione scappò per la paura del suo terrore – per non parlare della comunità indigena, secondo la quale Washington era «il distruttore di città». È difficile trovare un movimento nazionale di liberazione che non abbia usato il terrore. Hezbollah e Hamas si sono formate in reazione all’occupazione e all’aggressione di Israele. Ma qualsiasi criterio usiamo, l’ISIS è una cosa molto diversa. Sta cercando di ritagliarsi un territorio che governerà e di istituire un califfato islamico. È molto diverso dagli altri movimenti.

In seguito al massacro di Parigi del novembre 2015, durante una conferenza stampa congiunta con il presidente francese Hollande, Obama ha dichiarato che «l’ISIS deve essere distrutta». Pensa che sia possibile farlo? Se sì, come? Se no, perché no? 

Naturalmente l’Occidente ha la capacità di massacrare tutti nelle zone controllate dall’ISIS, ma anche questo non distruggerebbe l’ISIS – o qualunque altro movimento brutale che si dovesse sviluppare al suo posto seconda la dinamica che ho citato prima. Uno scopo dell’ISIS è di trascinare i “crociati” in una guerra con tutti i musulmani. Possiamo contribuire a questa catastrofe, oppure possiamo tentare di affrontare le radici del problema e di contribuire a creare le condizioni in cui la mostruosità dell’ISIS possa essere sconfitta da forze interne alla regione.
L’intervento straniero nella regione è stata una maledizione per molto tempo ed è probabile che continui ad esserlo. Ci sono proposte sensate su come procedere su questa linea, per esempio quella fatta da William Polk, un raffinato studioso di Medio Oriente. Tale proposta ha un considerevole appoggio da parte chi ha studiato da vicino le ragioni dell’attrattiva dell’ISIS, come per esempio l’antropologo Scott Atran. Sfortunatamente, le possibilità che i loro consigli siano ascoltati sono scarse.

L’economia politica bellica statunitense sembra essere strutturata in modo tale da apparire quasi inevitabile, una cosa di cui il presidente Dwight Eisenhower sembrava essere consapevole quando ci avvertì, nel suo discorso di commiato, dei pericoli del complesso militare-industriale. Secondo te cosa ci vorrà per far allontanare gli Stati Uniti dallo sciovinismo militaristico?

È vero che certi settori dell’economia traggono vantaggio dallo “sciovinismo militaristico”, ma non penso che questa sia la causa principale. Ci sono considerazioni internazionali geostrategiche ed economiche di grande importanza. I benefici economici – che rappresentano solo un fattore – furono molto dibattuti sui giornali di economia all’inizio del dopoguerra. Si capì che le massicce spese fatte dal governo avevano salvato il paese dalla depressione e c’era grande preoccupazione che se le spesa pubblica fosse stata ridotta il paese sarebbe ricaduto nella depressione. Un articolo molto interessante pubblicato sulla rivista Business Week il 12 febbraio 1949 notava che la spesa sociale avrebbe potuto avere lo stesso effetto espansivo della spesa militare, ma che «c’è una grandissima differenza tra le politiche espansive in campo sociale e quelle in campo militare». Le seconde «non alterano realmente la strutture dell’economia», mentre la spesa per i sussidi pubblici e le opere pubbliche «altera davvero l’economia. Crea nuovi canali propri. Crea nuove istituzioni. Redistribuisce il reddito». Le spese militari non coinvolgono quasi per niente i cittadini, mentre la spese sociali  sì, e hanno un effetto democratizzante. Per ragioni analoghe a queste, si preferiscono molto di più le spese militari.

A proposito del legame tra cultura politica statunitense e militarismo, pensi che l’apparente declino della supremazia americana nell’arena globale renderà i futuri presidenti più o meno guerrafondai? 

Gli Stati Uniti raggiunsero il picco del loro potere dopo la seconda guerra mondiale, ma il declino arrivò molto presto con la “perdita della Cina” (quando la Cina divenne comunista) e in seguito con una rinascita delle potenze industriali ed il corso agonizzante della decolonizzazione e, in anni più recenti, con altre forme di diversificazione del potere. Ci sono vari modi in cui si può reagire a questo fenomeno. Uno è quella del trionfalismo e dell’aggressività in stile Bush. Un altro è quello della reticenza ad usare le truppe di terra, che è lo stile di Obama. Esistono numerosi altri modi. L’umore popolare non è di scarsa importanza ed è un aspetto sul quale possiamo sperare di avere influenza.

La sinistra dovrebbe appoggiare Ben Sanders quando si affilia al gruppo parlamentare del Partito Democratico?

Penso di sì. La sua campagna ha avuto un effetto salutare. Ha sollevato importanti problemi che sono altrimenti evitati e ha spostato leggermente i democratici in una direzione più progressista. Le probabilità che possa essere eletto nel nostro sistema elettorale dominato dai soldi non sono molto alte, e se lo fosse sarebbe estremamente difficile per lui effettuare un qualunque cambio di politica. I repubblicani non spariranno, e grazie ai brogli e ad altre tattiche è probabile che finiranno per controllare almeno la Camera, come hanno fatto per alcuni anni con una minoranza di voti, ed è probabile che faranno la voce grossa anche nel Senato. Si può contare sul fatto che i repubblicani bloccheranno qualunque passo che vada verso una direzione più progressista (o razionale). È importante riconoscere che non sono più un partito politico normale.
Perfino i piccoli passi mossi da Obama in una direzione più progressista sono stati per lo più bloccati, anche se in quel caso possono aver giocato un ruolo anche altri fattori, come il razzismo. In generale, però, nell’improbabile caso che Sanders venga eletto, le sue mani sarebbero legate, a meno che non si sviluppino dei movimenti popolari, creando un’onda che Sanders potrebbe cavalcare e che potrebbe (e dovrebbe) spingerlo più in là di dove andrebbe altrimenti.
Questo ci porta, credo, alla parte più importante della candidatura di Sanders. Ha mobilitato un enorme numero di persone. Se quelle forze possono essere sostenute anche dopo le elezioni, invece di farle affievolire una volta che lo spettacolo è finito, potrebbero diventare il tipo di forza popolare di cui il paese ha bisogno per affrontare le sfide che verranno.
Le suddette osservazioni si riferiscono alla politica interna, le aree su cui Sanders si è concentrato maggiormente. Le sue concezioni e proposte di politica estera mi sembrano, invece, piuttosto convenzionalmente liberaldemocratiche.

Un’ultima domanda. Che cosa diresti a coloro che sostengono l’idea che porre fine alla “guerra al terrore” è ingenuo e sbagliato?

Semplice: perché? E, soprattutto, perché pensate che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a dare un contributo importante al terrorismo globale, mascherato da “guerra al terrore”?

Pubblicato su Truthout il 3 dicembre 2015. 

Colpa di quel maledetto gel. - Franco Cascio

Migranti | Blog diPalermo.it

Lo sbarco di mille migranti ad Augusta, una ragazzina con la febbre a 40, la disperata ricerca di un medico che non c'è e il messaggio di un collega poliziotto. Che rappresenta lo Stato. Ma non può sostituirlo.

Non è il solito messaggio di Roy. L’orario inconsueto e un testo chilometrico me lo fanno capire subito. Di solito non va oltre che fai, come stai, che si dice. Roy è un poliziotto, uno di quelli bravi e con una grandissima umanità. Lo mandano quasi sempre in missione a Lampedusa, Augusta. La realtà degli sbarchi dei disperati sulle coste italiane la conosce benissimo. Ne ha raccolti di cadaveri e ne ha salvato di vite. Solo che per lui salvare una vita fa parte del suo lavoro. Non riceverà medaglie e onorificenze di plastica, non farà mai comparsate in tv. Se si trova in quei posti e in determinati momenti non è mai per puro caso.
Leggo il messaggio di Roy tutto d’un fiato e mentre leggo lo immagino mentre digita con rabbia le parole sul suo smartphone. Aveva bisogno di vomitarla tutta la sua rabbia e ha deciso di affidare a me il suo sfogo. Io e Roy dell’emergenza sbarchi, delle rotte dell’immigrazione, della macchina dei soccorsi e di tutto il resto abbiamo parlato tantissime volte.
Stavolta mi ha scritto questo.
Venerdì scorso ero ad Augusta per il solito sbarco e ne sbarcano tanti. 1150 per l’esattezza. Di tutte le età. Sabato mattina mi viene incontro barcollando una ragazzina dal viso dolcissimo. Viene vicino al nostro furgone e cade a terra senza più alzarsi. Le corro incontro subito insieme ai colleghi. La metto subito all’ombra visto che alle 8 di mattina c’era già caldo da morire. Le tocco la fronte… scotta. Indossa una felpa. A fine giugno con una felpa. La prendo in braccio… pesa niente… nemmeno sento il peso e corro verso una tenda con brandine che so essere libera. La ripongo dolcemente sulla brandina ed esco cercando un dottore. Non c’e’ il dottore. 1150 migranti abbandonati su di uno spiazzo del porto commerciale di Augusta ed il dottore non si trova. Lo cerchiamo ed a cercarlo è anche il funzionario di turno. Non c’è e basta.
Prendo la mia radio portatile e chiamo la nave Bourbon Argos dei Medici Senza Frontiere che li ha portati chiedendo l’assistenza di almeno uno dei medici a bordo. Si chiamano medici per questo no? Aspetto e nel frattempo la spoglio togliendole la felpa e coprendole il seno che anche se ragazzina è già pronunciato. Prendo il mio foulard della divisa, lo bagno con una bottiglietta d’acqua e comincio a rinfrescarla. Parla inglese, viene dalla Nigeria, e mi risponde dicendo di chiamarsi Farah e di avere 17 anni.
Un visetto dolcissimo e parlava con fatica ma con una vocina gentilissima. La coccolo un po’… il medico non arriva. Nemmeno quello della nave ed è già passata mezzora. Mi incazzo ma non glielo faccio vedere. Gli occhi mi cominciano a bruciare perché a causa del caldo il gel dai capelli mi cola in viso. Ma questa è la scusa che dico ai colleghi. Il loro caposquadra sta piangendo e non voglio farlo vedere. Lascio a un collega il compito di vigilarla ed a piedi mi faccio quel mezzo chilometro di piazzale che separa la tenda dall’ormeggio sotto il sole cocente e l’asfalto che bolle. Arrivo sotto la nave e trovo un fighettino con maglietta sponsorizzata MSF.
E’ dell’equipaggio. Gli chiedo se parla italiano. Mi risponde di sì con un eloquente accento polentone. Gli chiedo di un medico e che lo voglio “subito”. Capisce… corre a chiamarne uno e mi dice che mi raggiunge. Torno nella tenda. Farah respira a fatica, le gorgoglia il petto. Nel frattempo arriva un giovane italiano. Mi dice di essere l’infermiere. “Cazzo! Un infermiere? Mi serve un dottore con tutto il rispetto per il tuo lavoro!”.
Scrolla le spalle e dicendomi che il dottore non c’è aggiunge “Sono solo!”. Porca troia! Sono solo anche io nell’immensità di questa tragedia che si chiama migrazione. Siamo solo noi. 10 poliziotti, un funzionario ed un infermiere. Una sparuta pattuglia di volontari di una associazione di protezione civile locale e 1150 esseri umani che abbisognano di ogni cosa. Mi continuano a bruciare gli occhi, lo guardo e gli chiedo di portarmi un termometro. La ragazzina cerca la mia mano e cerca di dirmi qualcosa. Continuano a bruciarmi gli occhi.
“Sei qui da sola?”, mi risponde di sì. Gli occhi mi bruciano. Salta fuori un termometro: 40! Porca paletta! 40 di temperatura e respira male. Che sia la malaria, mi chiedo, e continuo a rinfrescarla d’acqua con una tovaglia che il giovane infermiere mi porge. La accarezzo e le rinfresco la fronte. Piero (un collega) mi chiede se un succo di frutta può servire. “Sì Piero! Serve! Porgimelo”. In due secondi me ne arrivano una decina. Quelli di tutti i colleghi che li tirano fuori dalla “razione generi di conforto”. La aiuto a berlo.
“Piano – le dico – abbiamo tempo. Non c’è premura Farah”. Sorride e provo a ricambiarla. Mi bruciano ancora gli occhi. L’orologio gira ed io divento sempre più intollerante. Non posso permettermi di perdere le staffe.  Non adesso, mi ripeto continuamente. Guardo fuori ed il cielo è terso… nitido e cerco Lui. Arriva una dottoressa. Gentile e professionale. La visita. Bronchite, mi dice. Controlla la saturazione d’ossigeno ed è ad 88%. Non va bene. E’ pericoloso. Molto per una ragazzina di 17 anni. Respira come il mio acquario in salotto. Fa fatica a parlare, accenna qualcosa, la tranquillizzo: va tutto bene Farah. Non riesco nemmeno a vederla bene perché gli occhi continuano a bruciarmi.
“Dobbiamo portarla in ospedale!”, mi ordina perentoriamente la dottoressa. «Sì. Subito. Sono d’accordo!». Mi giro verso il giovane infermiere e gli chiedo di contattare il 118 per un’ambulanza. Si allontana e torna poco dopo sconsolato. “Dobbiamo aspettare. L’ambulanza sta facendo un intervento”. Mi irrito e gli chiedo di chiamare per averne un’altra. Sconsolato abbassa gli occhi e mi risponde: “Maresciallo, in tutto il comprensorio di questo settore ne abbiamo solamente una”. Per una località che include alcuni comuni e con 1150 migranti sbarcati e “gettati” sulla banchina di un porto commerciale non c’e’ dottore e non c’e’ ambulanza? Mi asciugo la fronte, mi cola troppo gel negli occhi che continuano a bruciare. Mi sento ancora più solo e se mi permetti il paragone mi sento come il tenente Drogo del libro “Il deserto dei tartari”.
Devo subito pensare a qualche cosa… prendo il cellulare e chiamo la sala operativa. “Collega fammela arrivare anche da Katmandù!”. Così arriva un’ambulanza e la ragazzina, con tutta la flebo inserita dal buon infermiere su disposizione della dottoressa, finalmente va in ospedale. Quello di Augusta dove la ricoverano. Arriva con meno saturazione d’ossigeno di prima, saprò successivamente. Non riesco a sentirmi sollevato dall’evoluzione della faccenda. C’e’ una ragazzina di 17 anni in ospedale da sola con una bronchite e scarsa saturazione d’ossigeno ma quello che mi preme di più è che sta lì da sola. Sono un poliziotto da 28 anni e di schifo ne ho visto fin troppo. So come funzionano certe perversioni nei confronti dei soggetti più deboli e le ultime cronache mi angosciano.
Chiamo in ospedale e mi rassicurano: “Stai sereno. Ci sono qui delle volontarie che la assistono”. Va bene. Ci provo ma ho questo fastidioso bruciore agli occhi e non sono tranquillo. Ringrazio la dottoressa e mi fermo a parlare con il giovane infermiere. Parliamo… tanto… molto… mi racconta quello che da anni vedo con i miei occhi e sollevo da terra o dal mare con le mie braccia. Lo lascio sfogare. Mi dice che è solo… spesso. Lui è un infermiere e non può né deve prendere iniziative terapeutiche. Penso, tra me e me, che anche io sono solo e non posso prendere iniziative.
Continua a raccontarmi e ad un certo punto lo fermo. “Sono stanco”, gli annuncio. Risponde di comprendere e che se voglio posso sedermi nel suo container e riposare, perché devi sapere che l’infermeria è un container lasciato sotto il sole cocente, per rinfrescarmi.
“No amico mio. Sono stanco! Io non reggo più quello che vedo ogni giorno. Questa è la mia stanchezza. Io non ce la faccio più. Il mio mestiere è anche proteggere i più deboli e lo faccio volentieri e questo spettacolo indegno di un paese civile va contro i miei principi, contro il mio credo e la mia fede politica. Politica sì! Perché anche i poliziotti hanno le loro idee”.
Resta attonito. Non se l’aspettava. Continuo: “Io non voglio più vedere queste cose e più lo desidero più le vedo e allora basta incazzarsi e basta urlare. Mi rimbocco le maniche e che vadano a quel paese ordine e disciplina. Sono un essere umano, sono un uomo! Ma poi… mi stanco al punto che  la rabbia non mi permette più di parlare e me ne resto in silenzio per questo. Per non farla riaffiorare tutte le volte che la mia rabbia e la mia indignazione salgono”. Sfilo una bottiglietta d’acqua dalla uniforme e prendo a berla. Lui mi porge un pacchetto di fazzoletti e mi dice “asciugati gli occhi. Il gel ti sta facendo piangere”. Maledetto gel! Non devo più metterlo in queste giornate di solitudine e abbandono.
Perdonami se sono stato lungo. Avevo bisogno di sfogarmi e questo argomento con te lo abbiamo preso in passato. Ho braccia forti e posso sollevare molti pesi e spalle larghe e posso reggere grandi pensieri. Devo però cambiare marca di gel. Anche adesso il gel mi cola negli occhi.
P.S.: Prima di rientrare da Augusta sono passato dall’ospedale. Farah sta meglio ed è seguita da una dolce signora di 60 anni che fa volontariato. Prima di uscire dalla stanza mi ha dato un bacio… ed io avevo di nuovo il gel tra i capelli.
Finisco di leggere tutto e gli scrivo: “Roy, io questa storia la DEVO raccontare..” E mi risponde: “Raccontala compare. Ne ho le palle piene. Non voglio essere la soluzione di un problema che altri causano. Io sono solo un poliziotto e rappresento lo Stato. Ma non posso sostituirlo”.

UCCIDEVANO I MIGRANTI E NE VENDEVANO ORGANI: LA VERITÀ DEL PENTITO SULLA TRATTA DEGLI ESSERI UMANI.




L'agghiacciante retroscena emerge dall'operazione 'Glauco 3' che questa mattina ha portato al fermo di 38 persone. A Roma la centrale delle operazioni finanziarie.

Uno scenario raccapricciante, quello che emerge dalle carte dell'ultima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che questa mattina ha portato al fermo di 38 persone. 

L'operazione all'alba.
Dalle prime ore del mattino la Polizia di Stato sta eseguendo in diverse citta' italiane 38 fermi, emessi dalla Dda di Palermo, nei confronti di altrettanti indagati ritenuti appartenenti a un network criminale transnazionale dedito al traffico di migranti. 
Individuata a Roma la centrale delle transazioni finanziarie, in un esercizio commerciale dove sono stati sequestrati 526.000 euro e 25.000 dollari in contanti, oltre a un libro mastro riportante nominativi di cittadini stranieri e utenze di riferimento.       

Il pentito: Chi non aveva soldi veniva ucciso, i suoi organi prelevati. 
Chi non aveva i soldi per affrontare il viaggio in barca per l'Italia "veniva ucciso, gli venivano prelevati gli organi che poi venivano venduti ad alcuni mercanti d'organi egiziani". 
E' l'agghiacciante retroscena che emerge dall'operazione 'Glauco 3' della Polizia di Stato, che all'alba di oggi ha portato al fermo di 38 persone, emesso dalla Procura di Palermo. A raccontare i particolari di questo presunto traffico di organi è un collaboratore di giustizia che già nell'operazione 'Glauco 2', che aveva portato all'arresto di 24 persone, aveva aiutato i magistrati di Palermo a fare luce su un traffico di esseri umani. 

Nuredin Wehabrebi Atta, 32 anni, il pentito, è un trafficante eritreo arrestato nel 2015. Subito dopo l'arresto ha deciso di vuotare il sacco e di raccontare il funzionamento del traffico di esseri umani. L'indagine è coordinata dal Procuratore aggiunto Maurizio Scalia e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Annamaria Picozzi. - 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Operazione-polizia-Glauco-3-inchiesta-DDA-Palermo-Uccidevano-i-migranti-e-ne-vendevano-organi-pentito-sulla-tratta-degli-esseri-umani-0b0e040e-ee29-44ab-8b3f-abb2c2e7069a.html?refresh_ce

Il cavallo di Troia del Ttip. - Carlo Clericetti

Mentre l'attenzione dell'opinione pubblica è puntata sulle vicende del Ttip, il famigerato trattato Usa-Ue che aumenterebbe lo strapotere delle multinazionali nei confronti non solo dei cittadini, ma anche dei governi, sta passando quasi di soppiatto un altro accordo, meno noto ma non per questo meno pericoloso, che fungerà in pratica da cavallo di Troia per le norme peggiori del Ttip, mandandole in vigore anche se quello non dovesse essere approvato. E a giocare un ruolo determinante nel facilitarne il via libera definitivo è proprio l'Italia, persino a dispetto - stando alle dichiarazioni - di vari altri governi europei, Germania e Francia compresi.
L'accordo in questione è il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), trattato fra Unione europea e Canada. Prevede norme simili o spesso identiche al Ttip, e in particolare quei "tribunali privati" a cui possono ricorrere le imprese se ritengono che il provvedimento di uno Stato le danneggi. Se ne è già parlato abbondantemente a proposito del Ttip, quindi non stiamo qui a ripetere. Il Guardian ci ricorda per esempio che il Canada ha già perso cause contro multinazionali Usa che riguardavano la proibizione di certe sostanze chimiche cancerogene nella benzina, il reinvestimento nelle comunità locali o l’interruzione della devastazione ambientale nelle cave minerarie.
Si potrebbe magari pensare che comunque con il Canada si corrono meno rischi che con gli Usa, ma non è così. Come ricordano due interrogazioni parlamentari  (a questo link, sono la F e la H) firmate da vari esponenti della sinistra, compresi alcuni del Pd, "Sono già 42 mila le aziende operanti nell'Unione che fanno capo a società statunitensi con filiali in Canada, e con l'approvazione del Ceta queste imprese potrebbero intentare cause agli Stati per conto degli Stati Uniti senza che il Ttip sia ancora entrato in vigore". Ecco spiegata, dunque, la funzione di cavallo di Troia del Ceta.
Qualcuno magari potrebbe credere che, vista la vastissima opposizione popolare al Ttip, che ha spinto vari governi a una maggiore cautela, la Commissione Ue dovrebbe tenere conto di questi orientamenti anche a proposito del Ceta. Niente di più sbagliato. La Commissaria al Commercio Cecilia Malmström, a una domanda in proposito di un giornalista dell'Independent, ha risposto secca: "I do not take my mandate from the European people", il mio mandato non deriva dal popolo europeo (e quindi non devo rispondere ai cittadini di quello che faccio). Quando si parla di tecnocrati di Bruxelles che se ne infischiano delle regole della democrazia non si esagera affatto.
Se poi a questi tecnocrati danno una mano anche alcuni politici, le procedure democratiche vanno a farsi friggere. E qui veniamo al ruolo che sta svolgendo l'Italia, nella persona del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che però con ogni evidenza ha la copertura politica del governo e del suo presidente, Matteo Renzi. Calenda aveva già chiarito quale fosse la sua posizione riguardo a questi accordi: "Non si può rischiare che saltino a causa del voto negativo del Parlamento di uno dei paesi membri", quindi a quei Parlamenti non devono essere sottoposti; la decisione dev'essere presa dal Consiglio dei capi di Stato e di governo, a maggioranza qualificata, e poi ratificata dal solo Parlamento europeo (che si sa quanto sia in grado di rovesciare le decisioni del Consiglio: mai successo).
Ora Calenda ha agito di conseguenza: ha inviato una lettera alla Commissione a nome dell'Italia sostenendo che la procedura debba essere quella. La sua iniziativa, che ha dichiarato di aver preso "in assoluta autonomia" (cosa assai poco credibile, vista la rilevanza della materia), ha provocato levate di scudi in mezza Europa: da Laura Boldrini, in difesa delle prerogative del Parlamento, al vice cancelliere tedesco Sigmar Gabriel, al cancelliere austriaco, al segretario al Commercio francese. Ma a causa di una singolare norma potrebbe essere decisiva.
Gli accordi commerciali sono di competenza della Commissione Ue quando riguardano solo materie che non siano anche di competenza degli Stati nazionali, come, nel caso in questione - si elenca nelle interrogazioni - "la proprietà intellettuale, i trasporti, la sicurezza sul lavoro, gli investimenti". In questo secondo caso si definiscono "misti" e devono essere ratificati anche dai Parlamenti nazionali. Chi decide se l'accordo è "misto"? Lo decide la Commissione. Spiega Stefano Fassina, tra i firmatari di una delle interrogazioni: "Per cambiare la decisione della Commissione è necessaria l'unanimità del Consiglio. Quindi, è sufficiente il no dell'Italia per far andare avanti la posizione della Commissione". Incredibile.
Da varie fonti arrivano voci secondo cui la posizione italiana deriverebbe da un accordo ufficioso: in cambio di questa mossa, la Commissione avrebbe chiuso un occhio e anche l'altro sui nostri conti traballanti, e avrebbe dato il via libera al Fondo di garanzia pubblica per le banche. E' plausibile ma non abbiamo modo di verificare se sia vero. Se così fosse l'avremmo almeno fatto per averne un qualche vantaggio. Ma visti i protagonisti, forse è stato fatto solo per convinzione.
Comunque sia andata, ora così stanno le cose. La decisione della Commissione sulla natura del Ceta, european only oppure "misto", è prevista per martedì (5 luglio).

Italicum, opportunismo di Stato. - Alessandro Di Marzio

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Con la calendarizzazione di una mozione di Sinistra Italiana per rivedere gli evidenti vizi di costituzionalità dai quali è affetto, l’Italicum ritorna a poter essere discusso dal Parlamento. Un tardivo mea culpa da parte del Governo? No, semplicemente paura di perdere le elezioni davanti al sempre più temibile pericolo grillino.

Poco più di un anno fa, il 4 maggio del 2015, l’Italicum diveniva legge, approvato definitivamente dalla Camera dopo ben tre questioni di fiducia poste su di esso. Firmato da Mattarella pochi giorni dopo, veniva poi regolarmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale, con la condizione che sarebbe entrato in vigore dopo un anno, cioè nel giugno di quest’anno.
Da subito esso incontrò l’ostilità di opposizioni e costituzionalisti, ravvisandosi al suo interno una sostanziale riproposizione, un po’ incipriata e improfumata, degli stessi vizi d’incostituzionalità sanzionati dalla Consulta nel Porcellum: un premio di maggioranza spropositato e non sottoposto a una soglia minima di accesso, e la presenza di liste bloccate.
Nei mesi seguenti e fino a poche settimane fa però il Governo, con la sua solita propensione al dialogo e al confronto di idee, ha sempre accuratamente evitato ogni discussione inerente l’Italicum, additando come gufi, fascisti, parrucconi, reazionari tutti quelli che abbiano provato a manifestare dubbi di costituzionalità su tale legge. “L’Italicum ormai è legge”, veniva ripetuto come un mantra da Palazzo Chigi, e dietro questa evidenza inconfutabile (o banalità?) veniva censurata qualsiasi proposta di intervento sulla chimera renziana. Nel frattempo è partita in questi mesi anche una raccolta firme per un eventuale referendum abrogativo, nel caso in cui la Corte Costituzionale nella sentenza prevista per il 4 ottobre dovesse inaspettatamente contraddire sé stessa e non sanzionare i medesimi vizi che sanzionò due anni e mezzo fa. Ma dal Governo sempre picche. L’iItalicum è legge e non si discute.
Questa settimana invece, un improvviso cambio di rotta: mercoledì la conferenza Capigruppo della Camera ha infatti calendarizzato per settembre una mozione di Sinistra Italiana, per “intervenire[…] sulla riforma approvata, eliminando quei palesi vizi di incostituzionalità che la rendono […] destinata a provocare una nuova pronuncia della Corte”. Da Governo, silenzio. Strano. 
Forse che Renzi ha scoperto un’app per scaricare sul suo iPhone un compendio di diritto pubblico, e ha così iniziato a studiarsi la Costituzione? 
Forse che la Boschi ha letto la sentenza 1/2014 e ha scoperto che l’Italicum è un’altra porcata alla pari del Porcellum? 
O forse addirittura che Mattarella si è improvvisamente ricordato che anche lui faceva parte della Corte Costituzionale quando fu prodotta la famosa sentenza, e dunque ha realizzato di aver firmato da Presidente della Repubblica una legge affetta dagli stessi vizi che aveva ritenuto incostituzionali come Giudice della Consulta?
No, niente di tutto ciò. Molto più semplicemente ci sono state le elezioni comunali, e Renzi, dopo aver perso contro il Movimento5Stelle ben 19 ballottaggi su 20, ha scoperto che il suo PD è ben lontano dal 40% delle europee, sull’onda delle quali fu approvato l’Italicum, bensì da allora ha perso almeno un quarto, se non un terzo dei voti. E il M5S non è più di poco sopra il 20%, ma è salito oltre il 30%. Dunque l’Italicum per così concepito rischia seriamente, a un eventuale ballottaggio, di far vincere i pentastellati. Ecco quindi che improvvisamente la mozione di Sinistra Italiana, che rimette in discussione la legge elettorale, è la benvenuta. Senza considerare che così facendo si sposterebbe anche la pronuncia della Corte che dal 4 ottobre, alla vigilia del referendum sulla riforma Boschi, slitterebbe molto più in là, attutendo così l’effetto catastrofico che potrebbe avere sul Governo la concomitanza della bocciatura sia dell’Italicum che della riforma costituzionale.
Un improvviso zelo governativo, un’apprezzabile per quanto tardiva preoccupazione per i profili di costituzionalità dell’Italicum? Niente di tutto questo. Il Governo se ne frega altamente della Costituzione (altrimenti non avremmo nemmeno questo governo e saremmo andati già a elezioni tempo fa con il Mattarellum o con il cd Consultellum), sta soltanto approfittando in maniera sfacciatamente opportunista di un’occasione per scongiurare la possibilità sempre più concreta di perdere rovinosamente sia referendum che elezioni, pronto a tutto pur di restare incollato col Bostik alle comode poltrone imbottite di Palazzo Chigi e Montecitorio.

domenica 3 luglio 2016

Bar, ristoranti e stabilimenti balneari: è boom lavoratori in nero.

Bar, ristoranti e stabilimenti balneari: è boom lavoratori in nero


Non sono in regola la metà degli addetti, quota salita del 10% in un anno.


Bar, ristoranti e stabilimenti balneari, nelle località turistiche, puntano tutto sull'incasso estivo. A luglio e agosto si giocano il 70-80% del fatturato annuale e non possono fallire. Così, con l'alta stagione, cresce la necessità di manodopera, che arriva in molti casi a triplicarsi rispetto al resto dell'anno. Il problema è che cresce anche la quantità di lavoratori in nero: si calcola che siano in media il 50% di quelli impiegati in questo periodo e che la quota di personale non in regola sia salita almeno del 10% rispetto alla scorsa estate
E' quanto emerge da un'indagine dell'Adnkronos che ha interpellato associazioni di categoria e rappresentanti sindacali nelle principali località turistiche italiane.
Il fenomeno è diffuso in tutta Italia ma registra punte di sommerso vicine all'80% in diverse realtà meridionali. Si segnalano, in particolare, aree di grande evasione contributiva in Campania e Calabria. In queste realtà sono comunque frequenti i controlli e le sanzioni da parte della Guardia di Finanza, così come è costante l'azione degli ispettori del ministero del Lavoro su tutto il territorio nazionale. Ma, segnalano i sindacati, non basta. Per fronteggiare veramente il sommerso, fanno notare, servirebbe una maggiore disponibilità a denunciare lo sfruttamento, sia da parte dei lavoratori sia da parte degli operatori onesti, che subiscono una concorrenza sleale.
D'altra parte, a incidere sul fenomeno, secondo quanto ritengono le associazioni di categoria, sono anche i margini di guadagno ridotti dalla crisi e il peso delle tasse che gli esercenti continuano a lamentare. Né le ultime novità normative sembrano essere risolutive. Nella quota del lavoro nero vanno considerati anche quei lavoratori che hanno solo una piccolissima parte della retribuzione che percepiscono coperta dai voucher, lo strumento introdotto dal Jobs Act per assicurare una corretta formalizzazione al lavoro occasionale. Lo schema che si ripete, segnalano i sindacati, è piuttosto semplice: con un voucher ogni tanto si pensa di rispettare le regole, quando invece l'80-90% di quanto viene percepito dal lavoratore resta sommerso.

LA PRIGIONE NEOLIBERALE: L’ISTERIA DEL BREXIT E L’OPINIONE LIBERALE. - Jonathan Cook,


Da Counterpunch, un nuovo articolo che commenta le reazioni scomposte della stampa, questa volta britannica, alla vittoria del Brexit: opinionisti liberali, ormai del tutto proni alla destra economica, che calpestano quegli stessi principi che dicono di difendere e invitano al sovvertimento dell’esito del referendum. L’articolo è anche un invito alla sinistra perché guardi in faccia la realtà e smetta di dare del razzista a chi, dentro la prigione liberista, non ha più diritto nemmeno all’ora d’aria e si ribella votando contro gli interessi dei carcerieri.
La furiosa reazione liberale al voto sul Brexit è un fiume in piena. La rabbia è patologica – e aiuta a far luce sul motivo per cui la maggioranza dei cittadini britannici ha votato per lasciare l’Unione Europea, così come precedentemente la maggioranza dei membri del partito laburista ha votato per Jeremy Corbyn come leader.
Alcuni anni fa lo scrittore americano Chris Hedges ha scritto un libro che ha intitolato “La morte della classe liberale“. La sua argomentazione non era tanto che i liberali erano scomparsi, ma che erano stati così cooptati dalla destra e dai suoi obiettivi – dal sovvertimento degli ideali economici e sociali progressisti da parte del neoliberismo, all’abbraccio entusiastico della dottrina neo-conservatrice nel perseguire guerre aggressive ed espansionistiche oltremare sotto la parvenza di “intervento umanitario” – che il liberalismo era stato svuotato di ogni contenuto.
Gli opinionisti liberali ci si angosciano sopra con sensibilità, ma invariabilmente finiscono per sostenere politiche a beneficio di banchieri e produttori di armi, e quelle che creano il caos nel paese e all’estero. Sono gli “utili idioti” delle moderne società occidentali.
I media liberali britannici attualmente sono traboccanti di articoli di commentatori sul voto del Brexit che potrei scegliere per illustrare la mia argomentazione, ma questo del Guardian, scritto della giornalista Zoe Williams, credo che isoli questa patologia liberale in tutto il suo sordido splendore.
Eccone una parte rivelatrice, scritta da una mente così confusa da decenni di ortodossia neo-liberale che ha perso il senso dei valori che sostiene di abbracciare:
“C’è un motivo per cui, quando Marine Le Pen e Donald Trump si sono congratulati con noi per la nostra decisione, è stato come prendere un pugno in faccia – perché sono razzisti, autoritari, meschini e rivolti al passato. Incarnano l’energia dell’odio. I principi su cui si fonda l’internazionalismo – cooperazione,  solidarietà, unità, empatia, apertura -, questi sono tutti elementi soltanto dell’amore “
Un’Unione Europea piena di amore?
Ci si chiede dove, nei corridoi della burocrazia dell’UE, Williams identifichi quell'”amore” che ammira così tanto. Lo ha visto quando i greci venivano calpestati e costretti alla sottomissione, dopo essersi ribellati alle politiche di austerità che sono  esse stesse un’eredità delle politiche economiche europee, che hanno prescritto alla Grecia di vendere l’ultimo dei gioielli di famiglia?
E’ innamorata di questo internazionalismo quando la Banca Mondiale e il FMI vanno in Africa e costringono le nazioni in via di sviluppo alla schiavitù del debito, in genere dopo che un dittatore ha distrutto il paese, decenni dopo essere stato insediato e appoggiato dalle armi e dai consiglieri militari degli Stati Uniti e delle nazioni europee ?
Che cosa pensa dell’internazionalismo pieno di amore della NATO, che ha fatto affidamento sull’UE per espandere i suoi tentacoli militari in tutta Europa, ad un pelo dalla gola dell’orso russo? Questo è il tipo di cooperazione, di solidarietà e di unità a cui stava pensando?
Williams poi fa quello che molti liberali britannici stanno facendo in questo momento. Chiede sottilmente il sovvertimento della volontà democratica:
“La rabbia del fronte progressista del Remain, però, ha un posto dove andare: sempre inclini all’ottimismo, ora abbiamo la forza per mettere da parte l’ambiguità al servizio della chiarezza, di mettere da parte le differenze al servizio della creatività. Senza più imbarazzo o distacco ironico, abbiamo indietreggiato di fronte a questa lotta per troppo tempo. “
Questo include cercare di cacciare Jeremy Corbyn, naturalmente. I sostenitori “progressisti” del Remain, a quanto pare, ne hanno avuto abbastanza di lui. Il suo crimine è provenire dall'”aristocrazia di sinistra” – a quanto pare anche i suoi genitori erano di sinistra, e avevano anche principi internazionalisti così forti che si incontrarono per la prima volta in un comitato sulla guerra civile spagnola.
Ma il maggiore crimine di Corbyn, secondo Williams, è che “non è a favore dell’UE”. Sarebbe troppo affanno per lei cercare di districare lo spinoso problema di come un sommo internazionalista come Corbyn, o Tony Benn prima di lui, abbia potuto essere così contrario all’UE piena di amore. Quindi non se ne preoccupa.
Ribaltare la volontà democratica
Non sapremo mai da Williams come un leader che sostiene le persone oppresse e svantaggiate in tutto il mondo sia fatto della stessa pasta di razzisti come Le Pen e Trump. Richiederebbe il tipo di “pensiero agile” di cui accusa Corbyn di essere incapace. Potrebbe insinuare il fatto che c’è una tesi di sinistra del tutto separata da quella razzista – anche se a Corbyn non è stato permesso di sostenerlo dal suo partito – per abbandonare l’Unione Europea. (Potete leggere le mia argomentazioni a favore del Brexit qui e qui.)
Ma no, ci assicura Williams, il Labour ha bisogno di qualcuno con una eredità di sinistra molto più recente, qualcuno in grado di adattare le sue vele ai venti dominanti dell’ortodossia. E quel che è ancora meglio è che c’è un partito laburista pieno di seguaci di Blair tra cui scegliere. Dopo tutto, le loro credenziali internazionali sono state dimostrate più volte, anche nei campi di morte in Iraq e Libia.
E qui, avvolta in un unico paragrafo, c’è una pepita d’oro della patologia liberale proveniente dalla Williams. La sua furiosa richiesta liberale è di strappare i fondamenti della democrazia: sbarazzarsi di Corbyn, democraticamente eletto, e trovare un modo, qualsiasi modo, per bloccare l’esito sbagliato del referendum. Nessun amore, solidarietà, unità o empatia per coloro che hanno tradito lei e la sua classe.
“Non c’è stato momento più fertile per un leader laburista dagli anni ’90. L’argomentazione a favore di rapide elezioni generali, già forte, si intensificherà soltanto nelle prossime settimane. Mentre l’assoluta menzogna della tesi del Leave diventa chiara – non ha mai avuto intenzione di frenare l’immigrazione, non ci saranno soldi in più per il servizio sanitario nazionale, non c’era nessun piano per compensare i fondi UE verso le aree svantaggiate – ci sarà un argomento potente per inquadrare le elezioni generali come una rivincita. Non un altro referendum, ma un freno all’articolo 50 e alla prossima mossa decisa dal nuovo governo. Se volete ancora lasciare l’UE, votate per i conservatori. Se avete capito o sapevate quale atto di vandalismo sia stato, votate Labour”.
La prigione neoliberale
Il voto sul Brexit è una grande sfida alla sinistra perché affronti i fatti. Vogliamo credere che siamo liberi, ma la verità è che siamo stati a lungo in una prigione chiamata neoliberalismo. I partiti conservatori e laburisti sono legati col cordone ombelicale a questo ordine neoliberale. L’UE è una istituzione chiave in un club neoliberale transnazionale. La nostra economia è strutturata per far rispettare il neoliberismo, chiunque apparentemente governi il paese.
Ecco perché il dibattito sul Brexit non è mai stato sui valori o sui principi – era una questione di soldi. Lo è ancora. I sostenitori del Remain stanno parlando soltanto della minaccia alle loro pensioni. I sostenitori del Brexit stanno parlando soltanto del ruolo degli immigrati nel far scendere i salari. E c’è una buona ragione: perché l’UE è parte delle mura della prigione economica che è stato costruita intorno a noi. Le nostre vite sono ormai solo una questione di soldi, come i giganteschi salvataggi delle banche troppo-grandi-per-fallire ci dovrebbero aver mostrato.
C’è una differenza fondamentale tra le due parti. La maggior parte dei sostenitori del Remain vuole far finta che la prigione non esista perché ha ancora il privilegio dell’ora d’aria. I sostenitori del Brexit non possono dimenticare che esiste perché non è mai permesso loro di lasciare le loro piccole celle.
La sinistra non può chiamarsi sinistra e continuare a frignare sui suoi privilegi perduti, mentre denuncia quelli intrappolati all’interno delle loro celle come “razzisti”. Il cambiamento richiede che prima riconosciamo la nostra situazione – e quindi di avere la volontà di lottare per qualcosa di meglio.
[Nota del Traduttore: nell’articolo, per far fronte all’italica dicotomia tra i termini liberismo e liberalismo, dicotomia che non ha corrispettivo in inglese – dove esiste soltanto la parola “liberalism” – , si è spesso tradotto “neo-liberalism” come “neo-liberalismo” a discapito del più diffuso, in Italia, “neo-liberismo”, che a parere del traduttore indica soltanto la dottrina economica dell’ideologia liberale. “Neo-liberismo/Neo-liberista”  è infatti stato usato soltanto laddove il riferimento alla teoria economica era esplicito]