Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 17 ottobre 2020
IL VIRUS FALCE MARTELLO E 5 STELLE. - Rino Ingarozza
“Ma quale seconda ondata!” Ora questi non parlano più. - Lorenzo Ciarelli
Il più solido piacere della vita – scriveva Giacomo Leopardi – è quello delle illusioni. Fedeli a questo principio, in molti si erano convinti di averla scampata: il lockdown e i mesi estivi avevano attenuato la letalità del virus e parecchi si erano fatti l’idea che l’emergenza fosse finita per sempre. Non era così, eppure i toni utilizzati (“dittatura sanitaria”, “terrorismo psicologico”) tradivano una certa sicumera.
Anche perché a dar man forte al partito dei “riduzionisti” c’erano fior di medici. Su tutti Alberto Zangrillo, primario al San Raffaele di Milano noto – tra l’altro – per aver dichiarato che “il virus clinicamente non esiste più”. Era il 31 maggio e da allora Zangrillo non ha fatto passi indietro: “Forse erano toni sbagliati, ma nessuno è mai riuscito a contraddirmi” (27 luglio).
Certezze simili a quelle ostentate da Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri: “Più che di seconda ondata parlerei di possibilità che ci sia qua e là una ripresa della malattia. La Lombardia? Adesso è più protetta, il virus fa fatica a trovare persone da infettare” (29 settembre). La Lombardia, ieri, aveva oltre 2.400 nuovi contagiati, cioè il doppio della Campania, la seconda Regione per maggiore incremento. Ma il concetto chiave, professato pure da Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del San Martino, era quello di evitare allarmismi: “Il virus è meno aggressivo, basta catastrofismi” (23 agosto).
Figurarsi se, con tutte queste rassicurazioni, la politica poteva non andare a rimorchio. Il 27 luglio le idee dei “riduzionisti” entravano in Senato con un convegno surreale, durante il quale Andrea Bocelli minimizzava l’impatto del virus sostenendo di “non conoscere nessun ricoverato” e Matteo Salvini celebrava i suoi dubbi sulla mascherina (“Non ce l’ho e non la indosso”) e sul distanziamento: “Il saluto col gomito è la fine della specie umana”.
Anche in Fratelli d’Italia erano giorni di spensieratezza. Il 31 agosto il deputato Federico Mollicone definiva il prolungamento dello stato d’emergenza come “il passaggio alla dittatura sanitaria”. Un mese prima, la sua leader Giorgia Meloni si era distinta per un accorato discorso alla Camera in cui, oltre agli occhi fuori dalle orbite, risaltavano le accuse al governo, reo di usare lo stato di emergenza “per consolidare il potere e agire senza regole e controlli”.
Questo era anche il leit motiv dei quotidiani di destra, che per settimane hanno gridato al totalitarismo: “Conte come Erdogan” (Libero, 2 agosto), “Tira un’arietta di regime” (La Verità, 2 agosto), “Colpo di mano. Emergenza Conte” (Il Giornale, 29 luglio), “No! No! No!” (Il Tempo, 29 luglio).
E che dire del fine giurista Sabino Cassese: “La domanda è: siamo in uno stato di emergenza in questo momento?” (27 luglio). Come dire: meglio decidere di giorno in giorno se dichiarare l’emergenza o no.
C’è da consolarsi, però. Ora ci si indigna su scuole e trasporti; a fine agosto il dibattito era tutto incentrato sulla chiusura delle discoteche. Nicola Porro era categorico: “L’ultima dei terroristi del virus: guerra alle discoteche” (11 luglio). Nonostante abbia sofferto il virus, da sempre il giornalista manifesta serenità: “Hanno creato il terrore del virus e della seconda ondata. Mi è stato chiesto di fare il tampone, sapete cosa dico io? (fa il gesto dell’ombrello, ndr). Ma quale cacchio è l’allarme? Tutto questo pessimismo e questa paura hanno portato i pieni poteri di Conte e Casalino” (11 luglio).
Roba da generale Pappalardo o al limite da Vittorio Sgarbi, un altro che ha dato il meglio di sé. La settimana scorsa, nonostante i numeri già in aumento, protestava: “Finitela col terrorismo. Non date i numeri dei contagiati, date quelli dei morti”. Gli stessi che due giorni fa sono raddoppiati.
Anche a sinistra, però, c’è chi in estate ha sottovalutato il virus. Vincenzo De Luca, per esempio, mentre annunciava imminenti lockdown, si batteva per l’apertura degli stadi al pubblico anche fino al 25 per cento della capienza. Stessa linea sostenuta in Emilia-Romagna da Stefano Bonaccini, che poi si è dovuto accontentare – come tutti – di un migliaio di persone. Chissà se oggi, visti i dati, hanno cambiato idea.
venerdì 16 ottobre 2020
Governatori peggio del Covid. - Gaetano Pedullà
Mentre litigavamo in tv con quei mattacchioni della destre per cui le mascherine non servono a niente e Conte ci ha imposto una dittatura sanitaria, il virus ha fatto il suo corso e ora che siamo a quasi novemila contagi al giorno la situazione rischia di sfuggire di mano. I più irrequieti sono i governatori, che hanno un’occasione in più per appagare il loro protagonismo, decidendo ciascuno per conto proprio chi va a scuola e chi no (De Luca ha deciso lo stop da oggi in Campania), minacciando di chiudere bar e ristoranti prima di quanto previsto dall’ultimo Dpcm (se n’è discusso in Lombardia, ma Fontana ha poi smentito), oppure di chiuderli dopo (La Provincia di Bolzano si è rifiutata di recepire il decreto del Presidente del Consiglio).
Così si sta generando nuova confusione e un’ulteriore senso di smarrimento nei cittadini, malgrado sia evidente che il Covid non conoscendo confini nazionali a maggior ragione non può conoscere quelli regionali. Dunque a che serve avere regole diverse a distanza talvolta di pochissimi chilometri? Se le opposizioni hanno perso l’opportunità di fare squadra – almeno per una volta – con la maggioranza, dimostrando di mettere il bene del Paese al di sopra delle convenienze politiche di bottega, le autonomie locali stanno offrendo quindi uno spettacolo peggiore, mostrando plasticamente quanto siano pericolosi i loro poteri se usati tanto male come adesso.
D’altra parte, dai trasporti (leggi l’articolo) alla sanità il bilancio delle Regioni non è affatto brillante, e a parte le fughe in avanti, la cosa che sta riuscendo meglio ai presidenti è scaricare la responsabilità delle loro inefficienze sull’amministrazione centrale. Uno scaricabarile fin troppo facile a fronte dei miliardi di euro che ci costano i carrozzoni regionali, che al di là di tante buone intenzioni in realtà servono a garantire una giungla di burocrazia e di poltrone. Oltre a far giocare gli stessi presidenti con la pandemia, propinandoci le loro taumaturgiche ricette quotidiane.
https://www.lanotiziagiornale.it/editoriale/governatori-peggio-del-covid/
Tra Ue, Mise e interessi: l’uomo del fare (nulla). - Giacomo Salvini
L’aspirante sindaco di Roma è un eurodeputato assenteista e da ministro lasciò molte crisi industriali irrisolte.
L’annuncio arriverà a breve, forse già nel fine settimana. E la strategia è chiara: correre a sindaco di Roma presentandosi come “l’uomo del fare” come l’ha definito pochi giorni fa Il Messaggero, il giornale di Caltagirone che, dopo aver fatto la guerra a Virginia Raggi, ormai tifa apertamente per la sua discesa in campo nella Capitale. Insomma Carlo Calenda si presenterà nella veste dell’imprenditore di successo (“Ha lavorato in Ferrari” si vantano i suoi) e del politico che si è sporcato le mani nelle istituzioni. Un mix tra Adriano Olivetti e Charles de Gaulle de’ noantri. Peccato che la realtà sia ben diversa.
Da quando ha deciso di lasciare la poltrona di dg dell’Interporto Campano per abbracciare la politica “come servizio”, Calenda ha cambiato più partiti che mutande accumulando una serie infinita di poltrone. Coordinatore della lista di Montezemolo “Italia Futura”, candidato (non eletto) con Scelta Civica di Mario Monti, poi renziano ma non iscritto al Pd, quindi anti-renziano iscritto al Pd, infine candidato (eletto) con il Pd al Parlamento Europeo prima di uscire dal Pd per fondare il suo partitino “Azione”. Sicuramente avrà cambiato molte volte idea – “Per 30 anni ho detto cazzate sul liberismo” ha ammesso – ma certo, le poltrone sono state un bello stimolo: sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Letta, sottosegretario del governo Renzi che a sua volta lo nomina ambasciatore dell’Italia in Ue e poi ministro con Renzi e Gentiloni. Dopo le elezioni del 2018, in cui il Pd renziano crolla, Calenda sta un anno senza poltrona prima di essere eletto come capolista del Pd alle Europee del 2019. Eppure, probabilmente scordando il suo passato, lui continua ad accusare gli altri di “trasformismo”: “Conte è un trasformista privo di valori. Potrebbe governare con chiunque pur di governare” twittava il 6 ottobre. Chissà cosa avrebbe pensato di se stesso quando saltava da una poltrona all’altra.
Un altro mantra del Calenda “uomo del fare” è quello di dileggiare chiunque non la pensi come lui arrogandosi il diritto di mandare gli altri “a lavorare”. “Vai a lavorare Anna” twittava Calenda contro la viceministra alla Scuola Ascani il 10 giugno scorso, mentre il 20 agosto se la prendeva con il commissario Domenico Arcuri che doveva “andare a lavorare, possibilmente in silenzio”. Peccato che lui a lavorare ci vada ben poco. Secondo la piattaforma Vote Watch Europe che analizza il lavoro del Parlamento europeo, Calenda è il quartultimo europarlamentare italiano per presenze nei voti chiave con l’86%: è 72esimo su 75 e peggio di lui fanno solo Aldo Patriciello, Franco Roberto e Silvio Berlusconi. Considerando tutta l’Assemblea Calenda è messo ancora peggio: è 661esimo su 701 europarlamentari. Non proprio uno stakanovista.
E anche quando lavora, i risultati di Calenda sono tutt’altro che positivi. A Bruxelles diversi colleghi hanno storto la bocca per un ipotetico conflitto d’interessi: Calenda è relatore del Rapporto sulla Politica Industriale dell’Ue ma allo stesso tempo “Azione” è finanziata dai più grandi gruppi industriali italiani: gli Arvedi che controllano uno dei più importanti poli siderurgici ma anche Gianfelice Rocca di Techint, Luca Garavoglia di Campari e Almberto Bombassei di Brembo. Anche quando si è occupato di crisi industriali non è andata benissimo: nei due anni in cui è stato ministro, i tavoli al Mise sono aumentati da 148 a 165 a fine 2017 prima di tornare a 144 nel 2018, quando aveva già lasciato il ministero. Sua è l’eredità della crisi di Embraco (data per risolta) mentre dalla sua scrivania sono passate Mercatone Uno (fallita con 1.600 dipendenti cacciati), Alcoa (in vertenza da 11 anni), Alitalia (sull’orlo del fallimento) e l’Ilva di Taranto: Calenda ha aperto la strada ad Arcelor Mittal che non ha mai rispettato gli impegni.
Il sindaco Massimo del sovranismo “caciarone” in tv. - Andrea Scanzi
II centrodestra sta pensando a Giletti come sindaco di Roma. Si parla pure di un’ipotesi poro Porro. E si candida persino Sgarbi. È tutto straordinario. Giletti è una delle figure mediatiche più odiate da sinistra e grillini. Da un punto di vista prettamente tecnico, Giletti è uno dei conduttori più abili. Sa fare tivù, ha i tempi giusti e – se vuole – è un ottimo intervistatore. La sua conduzione è molto dominante, come quelle di Vespa e Santoro. Essere suoi ospiti non è facile e neanche troppo divertente, perché a casa Giletti comanda solo Giletti e (quasi) tutti gli altri sono pedine. Non conta quel che dici, conta che tu rispetti la partitura ferrea che lui ha in testa (e in scaletta).
Giletti è criticato per la sua conclamata sbornia salviniana, ma è sempre stato un uomo di centrodestra. Una sorta di democristiano 2.0 finto incazzato e senz’altro populista. Quasi sempre filo-governativo, prima garbatamente berlusconiano e poi smodatamente salviniano. Per un po’ semi-grillino (quando lo ha cacciato la Rai), per fortuna mai granché convinto da Renzi.
Due sere fa, a Non è l’Arena, stranamente non c’erano né Salvini né Meloni. Giletti suole “intervistarli” con trasporto messianico. Ascolti discreti (4,8% di share prima parte e 5,7% seconda parte). Lo storytelling (?) era avvincente. Momento Covid con l’immancabile Bassetti, ormai monolite nero di sovranisti e minimizzatori para-negazionisti. Spazio poi al “Momento Cazzata”, al quale Giletti tiene moltissimo e che domenica è stato affidato a Fusaro. Giletti è bravissimo a far dire cose irricevibili (che spesso lui pensa) a facce impresentabili: in questo modo lui si salva, ma il messaggio passa. E il messaggio era che, per Fusaro, la mascherina valesse la camicia nera. Dunque Conte come Mussolini e Speranza nuovo Farinacci. Daje Diego! A far le veci del governo da zimbellare, l’immancabile viceministro 5stelle Sileri, un brav’uomo che da mesi adora interpretare – chissà poi perché – il ruolo del punching-ball.
Giletti ha quindi sdoganato televisivamente l’immacolato Buzzi. Ottima idea! Eticamente sublime, soprattutto. Mentre Bonini e Sabella provavano a ricostruire la realtà, Buzzi faceva il martire, l’avvocato diversamente simpatico di Carminati cercava di dimostrare come il suo assistito fosse una sorta di promoter turistico di Roma e Giletti dichiarava sornione di avere adesso ancora più dubbi sull’ipotesi di candidarsi sindaco.
L’apice è stato però il finale. Dai Caraibi è comparso tal Mirko Scarcella, definito a casaccio “guru di Instagram”. In breve: tal Scarcella lavorava con Vacchi, poi i due hanno litigato e adesso Vacchi attacca Scarcella alle Iene e Scarcella attacca Vacchi da Giletti. (E uno sticazzi non ce lo metti?). In studio c’era Annalisa Chirico, che sfoggiava un sottopancia leggendario: “Direttrice di Chirico.it”. Quasi come se io, domani, andassi a Otto e mezzo e mi facessi presentare così: “Ecco Scanzi, direttore della pagina Facebook di Scanzi”. Roba da Tso immediato. Tal Scarcella era molto su di giri e attaccava tutti. Giletti, un genio nel fingere di scandalizzarsi, un po’ si dissociava per fini legali e un po’ simulava sdegno per la maleducazione dell’ospite. In realtà, ovviamente, godeva come un riccio erotomane. Il dialogo (tra sordi) ha raggiunto l’apice quando tal Scarcella ha inquadrato con la webcam sua moglie (in mutande). Altissimi livelli. In un siffatto Circo Barnum del sovranismo caciarone, ho però avvertito la dolorosa assenza della donna barbuta, di Gasparri vestito da Wonder Woman e di Salvini che fa Tarzan. Sarà per la prossima volta, sindaco Massimo.
Sembra ieri. - Marco Travaglio
Sembra ieri che tutti dicevano: sacrifichiamo tutto tranne la scuola, smart working per tutti ma non per gli studenti, la didattica a distanza non esiste, pensiamo anzitutto ai nostri ragazzi, non rubiamogli il futuro, l’hanno detto Greta e Draghi! Poi il vituperato governo Conte con i putribondi Azzolina e Arcuri, ha garantito la didattica di presenza. Ma chi ieri la invocava oggi chiede di tornare alla didattica a distanza. E Sala, che demonizzava lo smart working, oggi invoca lo smart working.
Sembra ieri che tutti chiedevano la testa della ministra dell’Istruzione che mai avrebbe riaperto le scuole, e del commissario Arcuri, che mai avrebbe trovato i banchi, mentre il Fatto solitario segnalava che la ministra inefficiente era quella dei Trasporti, la De Micheli, oltre alle solite Regioni. Oggi tutti scoprono che il disastro non sono le scuole, ma i trasporti.
Sembra ieri che le Regioni che ora rivogliono la didattica a distanza aprivano le discoteche chiuse dal governo e volevano riempire gli stadi di tifosi. Oggi accusano il governo di non fare abbastanza contro il Covid, come se non avessero già fatto abbastanza, a favore del Covid.
Sembra ieri che tutti chiedevano il Mes come panacea di ogni male, emorroidi incluse (l’altra sera, per dire, l’ha chiesto pure Cristina Comencini). Ora si scopre che i rendimenti dei titoli di Stato sono così bassi che, se il Tesoro ha bisogno di soldi, può raccoglierli sul mercato ai tassi del Mes. Ma non ne ha bisogno, infatti le emissioni di titoli sono in calo, malgrado l’aumento delle spese per il Covid. Dunque il Mes, oltre a non servire a una mazza, non ha più neppure alcuna convenienza.
Sembra ieri che tutti si scagliavano contro l’ultimo Dpcm di Conte: assurdo, incomprensibile, roba da meme, anzi da Stasi, ti entrano in casa, sarà la morte per bar e ristoranti, e poi perché 6 persone e non 5 o 7? Ora si scopre che Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Irlanda del Nord, Danimarca, Catalogna, Paesi Bassi e Grecia hanno imposto divieti identici, o più stringenti.
Sembra ieri che virologi, giuristi, politici, giornalisti e opinionisti un tanto al chilo facevano a gara a escludere la seconda ondata, anzi la sopravvivenza stessa del Covid, ormai estinto, mutato o indebolito (il famoso Sars Cov Pippa), incitavano la gente a gettare le mascherine, ad ammucchiarsi e godersi la vita: se il governo osava citare il virus era per terrorizzarci e conservare il potere, la dittatura sanitaria e il regime della paura, a suon di stati d’emergenza e Dpcm. Memorabili le filippiche di Cassese contro “lo stato di emergenza senza più emergenza”. Ora rieccoci a contare 8mila contagi e 80 morti al giorno: invece del Covid, si è estinto Cassese.
Sembra ieri perché era ieri.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/16/sembra-ieri/5968126/
POLITICA I 5 stelle chiedono le dimissioni di Alessandro Profumo: “Dopo la condanna rimetta il mandato da ad di Leonardo”.
Il manager è stato condannato giovedì 15 ottobre a sei anni in primo grado insieme Fabrizio Viola: i due erano sotto processo in qualità di ex presidente ed ex ad di Mps in un filone dell’indagine sulla banca senese legato ai derivati Alexandria e Santorini. Dopo la notizia della condanna la società ha precisato che non sussistono cause di decadenza dalla carica di amministratore delegato. A Piazza Affari, però, il titolo cede il 3%.
Alessandro Profumo si dimetta da amministratore delegato di Leonardo. A chiederlo è il Movimento 5 stelle, con un tweet dall’account ufficiale in cui si legge: “Alla luce della condanna ricevuta, ci aspettiamo che Alessandro Profumo, nell’interesse dell’azienda, rimetta il mandato da Ad di Leonardo”. Profumo è stato condannato giovedì 15 ottobre a sei anni in primo grado insieme Fabrizio Viola : i due erano sotto processo in qualità di ex presidente ed ex ad di Mps in un filone dell’indagine sulla banca senese legato ai derivati Alexandria e Santorini. L’accusa era di false comunicazioni sociali e manipolazione informativa (aggiotaggio) per la contabilizzazione dal 2012 alla semestrale 2015 di derivati per 5 miliardi presentati a bilancio come BTp. Il tribunale li ha ritenuti responsabili dei capi di imputazione B e C, cioè false comunicazioni sociali relative alla semestrale del 2015 e aggiotaggio. Sono stati prescritti per il bilancio 2012 e “perché il fatto non sussiste” per i bilanci 2013 e 2014. Profumo e Viola dovranno anche pagare una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno. Oggi Profumo è numero uno di Leonardo (ex Finmeccanica). Dopo la notizia della condanna la società ha precisato che non sussistono cause di decadenza dalla carica di amministratore delegato. A Piazza Affari, però, il titolo cede il 3% a 4,51 euro mentre Mps guadagna lo 0,3% a 1,20 euro.
La banca, che ora è del Tesoro, è stata condannata a una sanzione di 800mila euro per la legge 231 sulla responsabilità degli enti, mentre per Paolo Salvadori, allora presidente del collegio sindacale, la pena è stata di 3 anni e 6 mesi. La decisione è arrivata al termine di una camera di consiglio di circa 4 ore ed è stata pronunciata nella fiera di Milano, scelta per consentire alle parti di presenziare al dibattimento nel rispetto del distanziamento sociale.
La sentenza ribalta la richiesta del pubblico ministero Stefano Civardi che aveva chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” per il reato di aggiotaggio contestato a Profumo e Viola e per quello di false comunicazioni sociali contestato a tutti gli imputati per il bilancio 2012 e per la prima semestrale del 2015 e l’assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” per la contestazione di false comunicazioni sociali in merito ai bilanci 2013 e 2014. Profumo e Viola sono anche indagati per false comunicazioni sociali e manipolazione informativa per la contabilizzazione dei crediti deteriorati. I pm in questo caso hanno chiesto l’archiviazione ma il gip ha ordinato ulteriori indagini.
I derivati Alexandria e Santorini furono realizzati da Mps con Deutsche Bank e Nomura per coprire i costi dell’acquisizione di Antonveneta. Per le irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese per mascherare le perdite legate all’acquisizione lo scorso anno sono stati condannati l’ex presidente Mps – nonché ex numero uno dell’Abi – Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale Antonio Vigni e l’ex responsabile area finanza Gian Luca Baldassarri. La sentenza era arrivata sei anni dopo lo scoop del Fatto Quotidiano che per primo parlò dell’accordo segreto tra Mps e Nomura per truccare i conti. “Leggeremo con attenzione le motivazioni e senz’altro presenteremo appello contro una sentenza che consideriamo sbagliata. Abbiamo sempre creduto nel corretto operato dei nostri assistiti” è il commento dell’avvocato Adriano Raffaelli, uno dei difensori di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, condannati dal tribunale di Milano a 6 anni di reclusione in un filone del caso Mps.