mercoledì 27 maggio 2020

Poveretto, come s’offre. - Marco Travaglio

Conte avvisa i due Mattei: il premier sono io - Tiscali Notizie
Gli inciuci fra i magistrati del caso Palamara devono aver ingelosito i due Matteo, che hanno ripreso i loro traffici per non farsi scavalcare. Con una differenza fondamentale: se le toghe dello scandalo erano dedite ai do ut des , nel caso dei due Matteo si vede solo il do e mai il des. Nel senso che ci guadagna sempre Salvini, mentre l’Innominabile gli fa da palo: nella giunta per le immunità del Senato gli regala l’impunità dal processo Open Arms (con la collaborazione straordinaria della M5S Riccardi e dell’espulso Giarrusso) e in Regione Lombardia gli presta uno dei suoi italomorenti, tale Patrizia Baffi, per guidare la commissione che dovrebbe indagare sui cabarettisti Fontana&Gallera per la brillante gestione della pandemia e ora invece li beatificherà. Ma, per l’eterogenesi dei fini, quello che nasce come favore spesso si trasforma in dispetto. Abbiamo sempre pensato che Salvini dev’essere processato dai giudici e non dai suoi colleghi senatori, ma che nei processi per sequestro di persona e abuso d’ufficio sulle navi delle Ong cariche di migranti bloccate fuori dai porti italiani verrà assolto. Checché ne dica la sua cattiva consigliera Giulia Bongiorno, quella che scambiava Andreotti mafioso e prescritto per assolto e ora teme la condanna del Cazzaro Verde, il sequestro di persona non regge; reggerebbe la vecchia omissione in atti d’ufficio, che però purtroppo non esiste più dal ’97, quando l’Ulivo svuotò l’abuso d’ufficio rendendolo impossibile da provare (a meno che si dimostri un “vantaggio patrimoniale” indebito per chi lo compie, e Salvini bloccando i migranti guadagnava voti, non soldi).
Dunque, se anche l’aula del Senato respingerà la richiesta dei giudici di Palermo per Open Arms, Salvini avrà una passerella e un’aureola di martire in meno da spendere nella sua propaganda per risalire nei sondaggi sulla pelle dei migranti. Cioè: con l’aria di fargli un favore, l’Innominabile gli ha fatto un dispetto. Già che c’era, siccome si crede molto astuto, ha fatto dire ai suoi che per Open Arms bisognerebbe processare non solo l’allora ministro dell’Interno, ma tutto il governo Conte-1, che avrebbe condiviso il blocco della nave spagnola per 20 giorni in base al dl Sicurezza-bis varato il 2 agosto 2019. Così – si è detto tutto soddisfatto – colpisco anche Conte (la sua vera bestia nera) e i 5Stelle: furbo io. Ma, nella fretta, s’è scordato di dare un’occhiata non solo alla richiesta dei giudici, ma anche alle date e alla rassegna stampa. Altrimenti avrebbe scoperto che all’epoca il governo Conte-1 non esisteva più. L’8 agosto il Cazzaro Verde aprì la crisi (pur restando incollato alla poltrona, anzi alla sdraio del Papeete).
Il 9 agosto i legali dell’Ong si rivolsero al Tribunale dei minori di Palermo per far sbarcare almeno i minorenni. Il 12 il Tribunale chiese spiegazioni al governo. Il 14 il Tar Lazio sospese il divieto di sbarco. La nave fece rotta verso l’Italia, ma senza mai ricevere dal Viminale l’indicazione del porto sicuro. Il 15 agosto, dopo giorni di braccio di ferro con Salvini, Conte gli scrisse una durissima lettera, pubblicata anche su Facebook: per i giudici, è la prova che il ministro fece tutto da solo (anche perché il governo non si riuniva più) e contro le indicazioni del premier. Conte ricordava a Salvini: “Ti ho scritto ier l’altro (13 agosto, ndr) una comunicazione formale, con la quale, dopo avere richiamato vari riferimenti normativi e la giurisprudenza in materia, ti ho invitato, letteralmente, ‘nel rispetto della normativa in vigore, ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti nell’imbarcazione’. Con mia enorme sorpresa, ieri hai riassunto questa mia posizione attribuendomi, genericamente, la volontà di far sbarcare i migranti a bordo. Comprendo la tua ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula ‘porti chiusi’. Sei… proteso a incrementare costantemente i tuoi consensi. Ma parlare come Ministro dell’Interno e alterare una chiara posizione del tuo Presidente del Consiglio, scritta nero su bianco, è questione diversa. È un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesimo, che non posso accettare”.
Poi rivendicava la linea di “maggiore rigore rispetto al passato” contro l’immigrazione clandestina e i successi raccolti in Europa sulla condivisione dell’accoglienza degli sbarcati: “Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo mi hanno appena comunicato di essere disponibili a redistribuire i migranti. Ancora una volta i miei omologhi europei ci tendono la mano. Siamo agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo… ho sempre cercato di trasmetterti i valori della dignità del ruolo che ricopriamo e la sensibilità per le istituzioni che rappresentiamo. La tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare ‘slabbrature istituzionali’, che a tratti sono diventati veri e propri ‘strappi istituzionali’… Hai alle spalle e davanti una lunga carriera politica. Molti l’associano al potere. Io l’associo a una enorme responsabilità”. 
Molti, quella lettera che anticipava la ramanzina del 20 agosto in Senato, l’avevano dimenticata. Ora torna d’attualità grazie agli intrighi dell’Innominabile. Che, mentre s’offre a Salvini per fargli da palo, si rivela il migliore sponsor di Conte. Meglio di Rocco Casalino.

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/04/10/news/i-magistrati-furbetti-che-fanno-affari-con-le-aste-immobiliari-1.320423?fbclid=IwAR1jF8mN2qyMNna0NT4M5rXFhtabGIWkPSscf8HG2LACNKTUn5F0XR0f8RA

martedì 26 maggio 2020

Bufera Procure, nuove intercettazioni su Palamara.

Palazzo dei Marescialli (Foto d'archivio) © ANSA
Palazzo dei Marescialli

Pm romano ascoltato mentre parla del Pm Perugia Miliani.

"E pure per la ragazza c'è un procedimento disciplinare se mi iscrive dopo sei mesi senza motivo...": a dirlo era Luca Palamara con l'amico Luigi Spina, membro dimissionario del Csm, in un'intercettazione agli atti dell'indagine della procura di Perugia. A riportarla è "La Nazione", collegando il riferimento al Pm Gemma Miliani, titolare del fascicolo con il collega Mario Formisano.
Secondo la ricostruzione del quotidiano, l'ex presidente dell'Anm, e già consigliere a Palazzo dei Marescialli, riteneva ci fosse stato un ritardo nell'iscrizione dopo la trasmissione degli atti dalla Procura di Roma. L'intercettazione si riferisce alla notte del 16 maggio 2019. La conversazione venne registrata dal trojan piazzato sul telefono. "M'ha detto una cazzata Alberto...", inveisce Palamara riferendosi probabilmente a una comunicazione di un collega che gli avrebbe fatto capire che l'indagine era stata archiviata. Spina - scrive ancora La Nazione - ribatte: "Non lo so, non ce l'hanno mandata... può essere pure che qualcuno che se ne sta per andare in pensione te la vuole far pagare ed intanto ti manda questa cosa... eh... e poi la richiesta di archiviazione".
La vicenda delle intercettazioni del Pm romano Luca Palamara, che ha già portato alle dimissioni dei vertici dell'Anm, continua ad agitare le acque anche della politica. Il senatore della Lega Matteo Salvini chiede infatti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere il Csm. "Mi aspetto che colui che comanda il Csm, ovvero il presidente della Repubblica Mattarella, lo sciolga, perchè dopo quello che abbiamo letto, qualche dubbio che la giustizia sia uguale per tutti viene e dunque serve una rinomina con un'estrazione a sorte per tagliare il sistema di potere della magistratura e dare fiato ai tanti magistrati liberi". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini che aggiunge: "Il Csm va azzerato, noi faremo una riforma della giustizia in nome del popolo italiano e non in nome di qualche corrente".
"Sono sorpreso. Io ho sempre scritto da solo i miei provvedimenti, anche quelli più complessi. Forse é anche possibile scriverli a più mani ma ciò dovrebbe risultare ufficialmente". Il sostituto procuratore generale di Bologna Valter Giovannini reagisce così alla pubblicazione, su 'La Verità', di conversazioni in chat agli atti dell'inchiesta della Procura di Perugia. Da questi dialoghi sembrerebbe che, nonostante l'estensore della sentenza disciplinare del Csm su Giovannini fosse Luca Palamara, un altro magistrato consigliere, Nicola Clivio, abbia contribuito alla redazione. "A questo punto - dice all'ANSA Giovannini, ex procuratore aggiunto - è urgente chiedere alla Procura di Perugia copia di tutte le chat che in qualche modo mi riguardano". Ieri il magistrato aveva annunciato l'intenzione di chiedere alla Procura umbra, attraverso il suo legale, se vi siano intercettazioni sulla sua vicenda disciplinare, per valutare di chiedere la revisione del procedimento. Giovannini è stato sanzionato con la censura da parte del Csm, confermata dalla Cassazione, per il caso di Vera Guidetti, farmacista di 62 anni che uccise la madre e poi si suicidò, qualche giorno dopo essere stata ascoltata dal pm, nel marzo 2015, come testimone in un'indagine su un furto di gioielli. La sezione disciplinare del Csm aveva condannato il magistrato per aver "trascurato" le garanzie difensive a tutela della donna e per avere così violato norme processuali.
Ma oggi sull'inchiesta di Perugia, dalla quale emergono queste intercettazioni di Palamara, intervengono anche l'ex presidente del Csm Gianni Legnini e l'ex ministro Giulia Bongiorno in due interviste separate. 
"Gran parte delle intercettazioni si riferiscono ad un periodo successivo. Quelle relative alla mia consiliatura riguardano chat e messaggi tra consiglieri e magistrati, che io non potevo conoscere. Sono sorpreso per certe espressioni. Personalmente ho sempre cercato di garantire il corretto funzionamento dell'organo, come era mio dovere fare, rifiutando qualunque logica spartitoria". Lo dice l'ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, in una intervista a 'La Repubblica' riguardo al terremoto che sta coinvolgendo la magistratura italiana in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia con al centro il pm romano, Luca Palamara. 
"Quello che ho letto finora mi fa tremare i polsi perché sono consapevole dell'enorme potere che ha un magistrato. Davanti allo scandalo, molti dicono che non si meravigliano della logica delle correnti. Io dico invece che è una logica intollerabile, che non attenua e non giustifica un bel nulla". Ad affermarlo, in una intervista a 'La Stampa', è la senatrice e avvocato della Lega, Giulia Bongiorno che sostiene come la separazione delle carriere dei magistrati possa essere la soluzione al problema. "La sola idea che un giudice possa assolvere o condannare per non scontentare un pubblico ministero, in quanto esponente di una corrente capace di influenzare la valutazione della carriera di quello stesso magistrato - spiega - mi fa paura. Più in generale tra i cittadini si sta diffondendo sfiducia nei giudici, se non diffidenza".
"Sembra che il Governo, le opposizioni, tutti i partiti, i magistrati e le loro associazioni, i mass-media scoprano oggi ciò che è noto da decenni: l'istituzionalizzazione delle correnti nella magistratura, tramite il voto di lista nelle elezioni del Csm. Noi radicali questo problema lo abbiamo sollevato da oltre 20 anni, infatti già nel 2000 abbiamo raccolto oltre 500.000 firme su un referendum popolare per l'abrogazione del voto di lista per la nomina dei membri togati del Csn. Se la politica ci avesse dato retta invece di tentare di usare le correnti della magistratura a proprio illusorio vantaggio, oggi saremmo un altro Paese". A dichiararlo sono Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, Segretario, Tesoriera e Presidente di Radicali Italiani che rilanciano la richiesta di separare le carriere dei magistrati.

Ora Salvini prende la linea da Feltri&c. - Antonio Padellaro

Il centrodestra in piazza Duomo a Milano il 2 giugno: Fontana sul palco per la carica contro il governo
Il titolo del Giornale è: “Sceriffi da strapazzo. Verso lo Stato di polizia”. Quello della Verità: “Conte arruola 60.000 spioni”. Si parla del reclutamento dei controllori civici antimovida da parte del governo, misura opinabile quanto si vuole (un esercito improvvisato, e poi per fare cosa?) non certo con la risibile accusa di aver creato una milizia di stampo autoritario. Quando invece i poveretti, disarmati e, a quanto sembra, privi di poteri sanzionatori rischiano di essere presi loro a ceffoni dal primo bullo privo di mascherina.
Poi la domanda sorge spontanea: ma costoro non erano i più securitari di tutto il cucuzzaro, roba che per anni ci hanno frantumato le orecchie auspicando cannonate sui barconi degli immigrati, ronde armate di quartiere e più fucilate per tutti (con la scusa della legittima difesa)? E adesso, di punto in bianco, povere stelle si scoprono un’anima così antiautoritaria, libertaria, non violenta, pacifista, permissiva che se fosse ancora vivo Marco Pannella li avrebbe iscritti di diritto (con una risata delle sue) all’associazione Nessuno tocchi Caino.
Il fatto è che alla destra politica di Salvini, Meloni e Berlusconi – divisa su Europa e Mes, confinata dal protagonismo di Giuseppe Conte in una frustrante opposizione, indecisa sul da farsi e in cerca di autore – sembra progressivamente sostituirsi la destra televisiva dei direttori di giornale e degli opinionisti col colpo in canna, sempre più protagonista dei talk e degli ascolti.
Priva di vincoli di partito, favorita da una certa anarchia editoriale è una guerriglia dattilografa che se ne può tranquillamente infischiare di equilibri politici, tattiche parlamentari e balle varie. Un Vietnam degli insulti e delle accuse determinato a perseguire un solo obiettivo, la devastazione dell’attuale governo bombardato incessantemente a colpi di napalm. Con polemiche che possono essere tutto e il contrario di tutto, la negazione oggi di ciò che veniva proclamato ieri, nella orgogliosa precarietà delle opinioni, dominata unicamente dal bersaglio nel mirino, l’odiato premier, e da una bussola infallibile: così è se ci pare. Un modello coerente di assoluta incoerenza sublimato nei giorni della quarantena con le richieste di chiusura, apertura e di nuovo chiusura, come in una gara di ubriachi ma di quelli tosti.
Per carità, nessuno scandalo, fa parte del gioco anche se non sapremmo dire fino a che punto Matteo Salvini e Giorgia Meloni lo abbiano compreso che in questo modo e a lungo andare l’intrattenimento finirà fatalmente per mangiarsi l’opposizione. Ribaltamento dei ruoli iniziato probabilmente con il testacoda del Papeete, quando per inseguire i pieni poteri, il cosiddetto capitano si ritrovò tra le mani il vuoto di potere. L’intendance suivra, l’intendenza seguirà diceva il generale De Gaulle (e forse prima di lui Napoleone), convinto che l’apparato logistico di sostegno (stampa compresa) avrebbe dato seguito alle decisioni dei vertici militari e politici. Infatti, prima di quel mojito di troppo, era l’acclamatissimo uomo forte del Viminale a dare la linea: contro gli immigrati e prima gli italiani. Con la stampa amica dietro.
Sembra trascorso un secolo. L’avvento del Covid-19 ha trasformato il nazionalismo del contrasto e dell’odio (verso l’altro) nell’orgoglio nazionale di una collettività solidale, e nell’amor patrio che sventola i tricolori alle finestre. “Si rafforza lo Stato, le istituzioni e il governo”, “mentre nell’emergenza ogni opposizione viene percepita come un ostacolo” (Repubblica di ieri, sondaggio di Ilvo Diamanti). Più il centrodestra si dimostra incapace di dire ciò che intende essere di fronte a emergenze impensabili soltanto tre mesi fa (presenza maggiore dello Stato in economia o meno Stato? E cosa significa continuare a definirsi sovranisti quando oggi più che mai si riconosce la necessità dell’Europa?).
Più il centrodestra si fossilizza nella narrazione di ciò che non intende essere, contando su improbabili spallate a una maggioranza coesa per istinto di sopravvivenza e assenza di alternative. E più continuerà a farsi dare la linea dai Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, o dai Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Maria Giovanna Maglie (che tra l’altro a bastonare con le parole sono assai più bravi).

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati. - Marco Pasciuti

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati

Quarantuno cartelle esattoriali per un totale di un milione di euro. Sono una parte dei soldi che alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova devono alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz. Ma i condannati le hanno impugnate perché le somme sono state calcolate male e stanno vincendo le cause. La vicenda va oltre il processo concluso il 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone tra cui l’ex capo del Dipartimento centrale anticrimine Francesco Gratteri, l’ex numero uno della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri e l’ex dirigente del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini. I giudici, infatti, stabiliscono che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili ammesse al gratuito patrocinio. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli.
Nel 2018, però, le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro via tribunale. I condannati avevano cominciato a contestarle lamentando tra l’altro un “errore di quantificazione”. Gli importi, dicono, sono stati calcolati in via solidale. “Ma la legge 69/2009 ha riformulato l’articolo 535 del codice di procedura penale, che da allora stabilisce che la somma deve essere richiesta ‘pro quota’”, spiega Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia. Un esempio: se la pretesa era di 300mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa. Il principio era chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 dall’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi. Lo aveva ribadito quel giorno in tre sentenze il giudice Stefania Salmoria: “Tale assunto – si legge – trova conferma nella nota ministeriale del 14.7.2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”. Come ribadito poi in una circolare del luglio 2015 e in una nota di Maria Stella Moroni, capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova inviata a Equitalia Giustizia il 16 gennaio 2017 .
“A marzo 2019 – spiega il legale – c’erano state 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 7 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non della Giustizia, ma dell’Interno. “Sì, perché Equitalia gli ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari – prosegue – . Il Viminale le ha pagate e il loro annullamento gli impedirà di rivalersi sui condannati”.
Ora possiamo solo sperare che menti eccelse, super partes, decidano di chiudere la questione definitivamente ed equamente; se la giustizia che viene applicata e decisa non viene rispettata, è inutile varare leggi e imbastire cause che non producono l'effetto riparatore del danno causato.
E', oltretutto, diseducativo e destabilizzante opporre resistenza ad una decisione emessa da organi istituzionali.
 Gli avvocati azzeccagarbugli che si prestano a turpi scappatoie mancano di etica professionale e andrebbero radiati dall'albo.
Sarebbe utile, data la situazione ingarbugliata, che le parti si riunissero in camera caritatis per dirimere definitivamente ed amichevolmente la questione senza suscitare ulteriori scalpore e lungaggini, visti i 20 anni già trascorsi. cetta

I riporti delle nebbie. - Marco Travaglio

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Della riforma del Csm sappiamo solo che è stata annunciata dal ministro Bonafede e oggi sarà discussa dalla maggioranza. 
Era ora. Ma non basta. Chi ha lo stomaco e il fegato di leggere le intercettazioni dell’inchiesta su Palamara (anzi sul Csm) senza perdersi nei gossip da portineria, capisce bene la gravità della situazione: una magistratura (non tutta ma quasi) divisa fra chi ordisce trame di potere senza esclusione di colpi e chi è costretto a farci i conti turandosi il naso per non essere spedito a inseguire ladri di bestiame e di biciclette. Perciò intervenire solo sul Csm serve a poco: giusto sbarrare le porte girevoli che mandano i politici a giudicare i magistrati che si sono occupati di loro o dei loro amici (Casellati prima, Ermini ora); sacrosanto escogitare sistemi elettorali che taglino le unghie alle correnti, dedite a mercati delle vacche e nomine a pacchetto (io do una poltrona e te se tu ne dai una a me) in barba alla meritocrazia. Ma sono interventi “a valle”, mentre il problema ormai è “a monte”. Il cancro è arrivato al cervello ed è ancor peggio della partitizzazione dei membri laici e della correntizzazione dei togati: si chiama gerarchizzazione, verticalizzazione, questurizzazione delle Procure. È qui che inizia (quando inizia) l’azione penale, che poi sfocia in indagini, udienze preliminari, processi di primo, secondo, terzo grado.
Il Potere lo sa bene e infatti è proprio lì, alla sorgente, che ha concentrato i suoi sforzi non appena si è riavuto dallo choc di Tangentopoli e Mafiopoli dei primi anni 90. Come? Manomettendo il rubinetto che può trattenere o liberare l’acqua della Giustizia. Destra e sinistra amorevolmente inciuciate ci avevano provato nel 1996-’98 con la Bicamerale che metteva in riga le Procure con la famigerata bozza Boato. Ma per fortuna avevano fallito, grazie alla reazione contraria di un’opinione pubblica ancora memore e vigile e di una magistratura ancora rappresentata dai migliori: Borrelli, Caselli, D’Ambrosio, Maddalena, Paciotti e così via. Dieci anni dopo invece, nel 2006, la controriforma Castelli-Mastella riuscì nell’intento. Una controriforma scritta dal ministro leghista del governo B.2 e copiata paro paro, tranne pochi ritocchi, dal Guardasigilli del Prodi2, malgrado il centrosinistra si fosse impegnato in campagna elettorale a “cancellarla”. Il tutto con la benedizione del solito Napolitano, capo dello Stato e del Csm. E nel silenzio dei giornaloni e dell’Anm che invece, quando quelle porcherie le proponeva Castelli, aveva indetto tre scioperi. L’intervento più devastante fu proprio quello che snaturava la figura del Procuratore capo.
Che non fu più primus inter pares, organizzatore e coordinatore dei suoi sostituti, com’era stato per 25 anni; ma dominus assoluto dell’azione penale, con potere di vita e di morte sui pm ridotti a suoi camerieri, da lui “delegati” ad aprire o a non aprire fascicoli su questa o quella notizia di reato. Come negli anni 50 e 60 dei porti delle nebbie e delle sabbie. Da allora il singolo pm non è più titolare del “potere diffuso” che per un quarto di secolo ci aveva garantito una giustizia uguale per tutti: decide il capo quali reati iscrivere nel registro dei noti, o degli ignoti, o nella discarica del “modello 45” (refugium peccatorum di tanti insabbiamenti), chi chiedere di arrestare, perquisire, intercettare, rinviare a giudizio. Basta un don Abbondio o un don Rodrigo al vertice di una Procura, e su certi personaggi non si procede più. E, se il sostituto non è d’accordo, il capo può levargli il fascicolo senza dare spiegazioni al Csm. Se poi non lo fa lui, può pensarci il Procuratore generale con l’avocazione. Prima, per controllare le Procure, bisognava accordarsi con 2500 pm (mission impossible): ora basta tenere a bada 150 capi. Che hanno anche l’esclusiva dei rapporti con la stampa: il pm che parla ai giornalisti, magari per denunciare il capo che non lo fa lavorare, come fecero i pm di Palermo contro Giammanco dopo Capaci, finisce sotto procedimento disciplinare (lui, non il capo insabbiatore).
Le prime prove su strada del nuovo sistema gerarchico si ebbero a Catanzaro, con il procuratore e il Pg che scippavano le indagini di De Magistris e il Csm che lo cacciava. E, più di recente, nella Procura romana di Pignatone, con la mancata iscrizione di Renzi e De Benedetti per la soffiata sul Dl Banche e con la decisione di non sequestrare il cellulare di babbo Tiziano nell’inchiesta Consip (per fare carriera, conta più ciò che non si fa di ciò che si fa). Cose che difficilmente accadevano quando i singoli pm godevano non solo di “indipendenza” (esterna, dagli altri poteri), ma anche di “autonomia” (interna, dai capi), come prevede la Costituzione. E come del resto accade tuttoggi per i giudici che, per decidere un rinvio a giudizio o un proscioglimento, una condanna o un’assoluzione, non chiedono certo il permesso ai superiori: agiscono secondo scienza e coscienza. L’altro effetto collaterale della controriforma fu un’esplosione di appetiti e succhi gastrici, nel mondo giudiziario e nei poteri esterni, per le nomine di ogni capo: perché chi controlla il procuratore controlla tutta la Procura. Fa bingo, anzi strike. È questo il giochino che va smontato, con una riforma che restituisca ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, cioè la stessa autonomia dei giudici. Il Csm arriva dopo, quando è troppo tardi.

lunedì 25 maggio 2020

Amazzonia in fiamme per la crisi da Covid. - Nicola Borzi

Amazzonia in fiamme per la crisi da Covid

Da inizio anno l’Amazzonia e altre foreste tropicali in Sudamerica, Africa e Asia sono tornate a bruciare a ritmi che non si erano mai visti negli ultimi tre decenni. A inquietare gli studiosi e le associazioni per la difesa dell’ambiente è il fatto che questo periodo nelle aree tropicali segna la stagione delle piogge, durante la quale in passato la deforestazione frenava. Anche la causa che alimenta i roghi è del tutto nuova: a spingere l’aggressione dell’uomo contro l’ecosistema è la crisi economica scatenata dalla pandemia.
La pressione dell’uomo sull’ambiente e sulle foreste tropicali ha innescato il meccanismo dello spillover, la fuoriuscita del coronavirus dalle specie animali all’uomo che ha scatenato la pandemia. Molti hanno creduto che la recessione causata dal Covid-19 portasse a una “tregua ecologica” consentendo all’ecosistema di beneficiare della frenata dell’economia. Gli effetti positivi dei lockdown per l’ambiente si sono visti nelle grandi aree urbane e industriali, ma la crisi ha impoverito ulteriormente larghe fasce di popolazione che già vivevano sotto la soglia di povertà, specialmente nelle aree rurali e vicine alle foreste nei Paesi in via di sviluppo. Anche grazie ai problemi di controllo del territorio dovuti al distanziamento sociale, le bande di criminali al soldo di latifondisti senza scrupoli e una massa crescente di disperati hanno visto le foreste tropicali come un tesoro da saccheggiare per riempirsi le tasche o tentare di sfamare le proprie famiglie. La deforestazione e gli incendi boschivi sono così ripresi in modo incontrollato.
Per estendere le loro produzioni, molti latifondisti hanno deciso di tornare all’assalto dell’Amazzonia. Con il 60% della foresta amazzonica all’interno dei suoi confini, nonostante il calo della deforestazione tra il 2005 e il 2014, già nel 2015 in Brasile il disboscamento illegale e gli incendi boschivi avevano iniziato a riprendere slancio. Già lo scorso anno gli incendi boschivi e i disboscamenti in Amazzonia avevano causato sgomento in tutto il mondo. Ma ora a far paura è l’attacco “fuori stagione”. Se nel 2019 la deforestazione era cresciuta addirittura del 46% rispetto al 2012, anno con il valore più basso dall’inizio delle statistiche, a impressionare adesso è l’ulteriore crescita record dei terreni aggrediti dall’uomo, pari al 51% rispetto allo stesso periodo dicembre 2018 – marzo 2019.
I dati emergono dal rapporto “Il Brasile e l’Amazzonia: disboscamento delle foreste pluviali, biodiversità e cooperazione con l’Unione Europea” preparato da Cristina Müller dell’Agenzia ambientale austriaca per l’Ufficio studi del Parlamento europeo. La maggior foresta pluviale della Terra ha una superficie di 7 milioni di chilometri quadrati, pari a 23 volte l’Italia. Un “bioma” esteso su nove paesi (Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana francese) che comprende un mosaico di ecosistemi terrestri, acquatici, sotterranei e atmosferici tra foreste pluviali, stagionali, decidue, allagate e savane. L’Amazzonia è la casa di una specie su dieci al mondo e il “motore” della resilienza planetaria alla crisi climatica nel quale l’ecosistema, le specie e la diversità genetica lavorano in sincronia. Ma negli ultimi cinquant’anni un sesto della sua foresta primaria è stata distrutta e il dato sale a un quinto in Brasile.
Ma il Brasile è anche il principale Paese del Mercosur, l’area di libero scambio commerciale del Sudamerica. La bancada ruralista è la lobby parlamentare dei proprietari terrieri brasiliani, uno dei gruppi economici più potenti del Paese e ha sostenuto l’ascesa del presidente Jair Bolsonaro. L’aumento della deforestazione e la violazione da parte del governo del patto sociale pro-indigeno ora hanno incrinato la fiducia di molti Paesi nell’impegno del Brasile al rispetto degli accordi internazionali.
Come secondo maggiore partner commerciale del Mercosur dopo la Cina, l’Unione Europea sa che anche i modelli di consumo dei suoi cittadini sono motori della “deforestazione incorporata” e che creano un’elevata pressione sulle foreste nei Paesi extraeuropei accelerando i disboscamenti. Per frenare questo disastro la Ue intende garantire il commercio di “prodotti provenienti da catene di approvvigionamento esenti da deforestazione”.
L’Europa vuole rivedere i suoi accordi commerciali con il Mercosur per spingere i Paesi del Sud America a una politica ambientale migliore. Inoltre Bruxelles intende agire anche sui negoziati di due trattati ambientali vincolanti a livello internazionale dei quali il Brasile è stato tra i primi firmatari: la Conferenza delle Parti (Cop) dell’accordo di Parigi sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd).
La pandemia è stata un doppio colpo per l’economia brasiliana che era già in difficoltà, non ancora ripresa da un forte rallentamento nel biennio 2014-15 e da una nuova stasi nel 2018-2019. Le finanze pubbliche di Brasilia erano sotto forte pressione anche prima del coronavirus, il che renderà difficile il sostegno pubblico alle imprese e creerà tensioni maggiori. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, quest’anno il Pil del Brasile calerà del 6,1% rispetto al 2019. La speranza è che la pressione economica europea riesca là dove hanno fallito l’intelligenza e il rispetto per l’ambiente degli uomini.