Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 30 novembre 2020
LA CAMPANELLA DI PARTE. - Rino Ingarozza
domenica 29 novembre 2020
Di Maio: l'Italia deve correre, rimpasto è fantascienza.
"Leggo 'appassionanti' retroscena su fantomatici rimpasti. Giochi di poltrone e incarichi che non interessano al sottoscritto e non appassionano per niente il MoVimento 5 Stelle.
Dovremmo essere tutti concentrati sull'Italia e sugli italiani, perché bisogna far correre il nostro Paese. Pensiamo a come sfruttare al meglio le risorse del recovery fund e concentriamoci sulle soluzioni reali per dare risposte concrete a imprenditori, commercianti e autonomi che più di tutti hanno subito gli effetti di questa crisi. Parlare di rimpasto è fantascienza". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in una nota.
Tana liberi tutti. - Marco Travaglio
A edicole unificate, Roberto Saviano su Repubblica, Sandro Veronesi sul Corriere e Luigi Manconi sulla Stampa hanno scritto tre articolesse quasi identiche per unirsi per un paio di giorni allo sciopero della fame dei radicali e detenuti a favore di amnistia e/o indulto e/o altre tre misure svuota-carceri per “far uscire qualche migliaio di persone”: bloccare l’esecutività delle condanne definitive (cioè lasciare a spasso i nuovi pregiudicati); estendere a tutti i condannati, senza distinzioni di reati, la detenzione domiciliare speciale del dl Ristori (cioè mandare a casa anche i mafiosi e i terroristi, saggiamente esclusi dal governo); allungare la liberazione anticipata dagli attuali 45 giorni l’anno a 75 (cioè cancellare due mesi e mezzo da ogni anno di pena da scontare). Il tutto per scongiurare la presunta “strage” da Covid, con tanto di “condanne a morte” decise dal governo cattivo. I tre si dipingono come intellettuali scomodi, censurati ed emarginati dai media, alfieri di una battaglia che richiede “una grossa dose di coraggio”: infatti occupano tre pagine sui tre principali quotidiani italiani.
Noi pensiamo che i detenuti, a parte le restrizioni previste dalla legge, debbano godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Quindi, se davvero la situazione fosse l’apocalisse descritta dal trio, ci assoceremmo immantinente al grido di dolore. Per fortuna i dati – quelli veri, non i loro – dicono l’opposto: le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese: 5 morti da febbraio su 54.363 (contro i 29 reclusi morti in Gran Bretagna). E solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa (per chi ne ha una). Che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato. Già nella prima ondata i “garantisti” all’italiana strillavano all’“olocausto” nelle carceri, accusando il ministro Bonafede di non metter fuori nessuno, mentre altri geni gli imputavano di metter fuori centinaia di boss (che poi erano tre). Risultato: 2 morti da marzo a maggio e picco massimo di 140 contagiati sui 51mila detenuti di allora. Un’inezia, in rapporto ai dati nazionali. Del resto, bastava un po’ di buonsenso: contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta. Ora che la seconda ondata è più diffusa e uniforme in tutta Italia, anche le carceri ne risentono. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre: chissà dove Saviano ne ha visti “oltre 60mila”), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale).
Di questi, 772 sono asintomatici, cioè non malati (93,5%), 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Poi ci sono gli agenti penitenziari: 970 positivi su circa 36mila, di cui 871 asintomatici (90%) e 99 sintomatici (10%). Ma sommarli ai detenuti, come fanno i tre tenori per raddoppiare i positivi in carcere, non ha senso, perché gli agenti positivi non mettono piede in carcere: 941 sono isolati in casa (97%), 19 in caserma e 10 in ospedale. Idem per il personale amministrativo e dirigenziale (72 positivi). Chi conosce i dati sul Covid (quelli veri) noterà la percentuale enorme di positivi asintomatici in carcere (93,5%) rispetto a chi sta fuori (55-60%). Il perché è presto spiegato: in carcere chiunque entri per iniziare la detenzione (“nuovo giunto”) viene sottoposto a tampone, resta isolato per 10-14 giorni e va in cella con gli altri solo dopo il secondo test negativo; per chi invece è già lì, appena si scopre un positivo scatta il tampone per tutti gli ospiti dell’istituto. Quindi la copertura di screening è pressoché totale, cosa che ovviamente non avviene per chi sta fuori: su 60 milioni di italiani, ogni giorno ne vengono testati 200-220 mila, spesso gli stessi che fanno il secondo tampone o più coppie di test. Il che rende ridicola la tesi del trio Saviano-Veronesi-Manconi, secondo cui si rischia il Covid più dentro che fuori. È vero il contrario: su 51mila detenuti, l’indice di positività è dell’1,5%, mentre sui 220-200 mila cittadini liberi testati al giorno è dell’11-12% (che sale addirittura al 23-24 escludendo i secondi tamponi e quelli ripetuti dagli stessi soggetti). Il che smentisce platealmente la tesi di Saviano-Veronesi-Manconi.
È falso che le carceri registrino “un tasso di infetti circa 10 volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori” (Veronesi), anche perché nessuno sa quanti siano i positivi fuori. Ed è falso che il governo – in particolare Bonafede e il Dap – se ne freghi per “indifferenza”, “ottundimento”, “paralisi”, “disumanità” e sadica sete di “tortura”. Anzi i protocolli finora adottati, con i test, i triage, gli isolamenti hanno circoscritto i contagi. E il sovraffollamento endemico delle carceri (che dipende dalla carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti, non certo da un eccesso di detenuti, il cui numero è inferiore alle medie europee) è stato alleviato senza tana liberi tutti, ma con misure equilibrate: la semilibertà prolungata (chi deve rientrare la sera dorme a casa) e la detenzione domiciliare speciale (con braccialetto elettronico per i casi più gravi, esclusi mafiosi e altri soggetti pericolosi). Se i numeri cambieranno, ne riparleremo. Per ora l’unica strage in corso nelle carceri è quella della verità.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/29/tana-liberi-tutti/6020238/
Audio rubato in corsia: “De Luca spaccia letti che però non esistono”. - Vincenzo Iurillo
L’infettivologo registrato: “Il governatore ha costruito una ragnatela che non avete proprio idea: la sua struttura. E non si canta fuori dal coro”.
La repressione cinese del dissenso nella sanità campana di Vincenzo De Luca. Le bugie sui dati della sanità, dei posti letto e dell’epidemia da Covid. Il clima di angosce e tensioni che si vive nella trincea degli ospedali campani sotto la pressione del virus. Parla un medico e le sue parole fanno paura: “Intanto io in ospedale continuo a perdere la gente pure giovane. Oggi è morto un ragazzo di 47 anni e quindi non è più un fatto di anziani o roba del genere, se non si capisce questo non si può fare niente… se (alle persone, ndr) gli danno i dati veri la gente viene presa dal panico… oppure ci sta qualche imbecille che inizia a fare il negazionista e tutto il resto…”. E poi, riferendosi ai dirigenti sanitari messi in sella dal governatore De Luca e ai bollettini quotidiani sulla situazione dei ricoveri, “stanno spacciando posti letto che non esistono e che stanno tentando di recuperare, ma sono talmente incapaci che non ci riusciranno perché vogliono usare delle soluzioni che non sono percorribili. Io vi parlo del mio ospedale, ma credo che la situazione…”.
Dall’audio rubato a un infettivologo di un ospedale della provincia salernitana si ascolta un racconto che fa a cazzotti con quell’“abbiamo fatto un miracolo” che De Luca ripete come un mantra a ogni diretta social senza contraddittorio. L’audio è stato raccolto dall’avvocato penalista Michele Sarno, candidato sindaco di Salerno in pectore, storico leader della destra antideluchiana. Sarno è l’interlocutore dello sfogo dell’anonimo medico registrato pochi giorni fa: si tratta di dottore che lavora nella prima linea dell’emergenza, faccia a faccia coi pazienti Covid di un ospedale pubblico. Il colloquio viene usato nel cuore di una polemica politica dell’avvocato sulla situazione a suo dire “scioccante” dei Covid center di Salerno: “Sono certo che i dati e il malcostume denunciati dalle trasmissioni di Massimo Giletti sono la verità, ho infermieri e medici che mi hanno testimoniato l’inferno che sono costretti a vivere”. La direzione generale dell’Aou di Salerno gli ha replicato definendo le sue parole “sconcertanti”, invitandolo “a non usare la politica politicante per offendere tutto il personale della sanità salernitana”. Di qui la diffusione dell’audio. Il Fatto Quotidiano – dopo aver ascoltato la conversazione e verificato l’autenticità di quanto raccontato in alcuni passaggi – ha deciso di pubblicarne ampi stralci. A cominciare dalla reazione del dottore ai complimenti del legale, che definisce l’ospedale dove lavora una eccellenza del territorio. “Sì, però lo sapete che ci attaccano di continuo pure i colleghi. Noi abbiamo tutti contro: sindacati, politica, politica locale, altri colleghi, ce li abbiamo tutti contro. Non uno sì e uno no. Però quando c’è bisogno per qualche parente loro o qualche cosa loro, li vedete che vengono tutti in processione. Il giorno dopo ti girano la faccia. E quello è il problema”.
L’acqua della politica, secondo il medico, avvelena i pozzi del management della sanità. “Quello del San Leonardo e quello della nostra Asl sono degli individui che secondo me non dovrebbero nemmeno scopare nella direzione generale, perché se voi andate a prendere i curriculum di questa gente, sono solo curriculum politici, questi non hanno mai fatto i medici, ma soprattutto, non hanno mai fatto gli organizzatori…”. Per il medico, il controllo politico di De Luca e dei suoi uomini sulla sanità è asfissiante: “Il problema, avvocà, è che ha fatto una ragnatela sul territorio che voi non avete proprio idea. Quello ha infiltrato i suoi dappertutto, anche ai livelli più bassi. Una volta sono andato a una riunione in cui parlava il figlio, due, tre anni fa, e mi sono trovato quelli che fanno le pulizie a rappresentare l’ospedale. Quindi perfino quelli che fanno le pulizie sono emanazione di questa struttura”. La “Struttura” di De Luca. Che non ammette opinioni contrarie.
“Qua non sia mai vi permettete di cantare fuori dal coro: siete morto, venite attaccato a partire dal portiere, passando per il centralinista, arrivando alla signora che pulisce a terra… io faccio il medico e se uno si ammala, io me ne strafotto se è di destra o di sinistra e la malattia, meglio di me, se ne frega se uno è di destra o di sinistra …”. E quindi “De Luca non è un uomo di sinistra perché uno che ha fatto una rete così capillare dove un medico non può neanche esprimere un’opinione che viene radiato, scusatemi ma che regime è questo!? (…) Se tu mi fotti solo perché ho detto ‘sono fuori dal coro’, non è che mi dici vabbè io ti dimostro che tu che sei fuori dal coro stai dicendo una sciocchezza, no tu non lo puoi dire e basta, che regime è!? Manco a Pechino si fanno queste cose”. Nella Campania di De Luca forse sì.
Solo la Sibilla saprebbe capire le leggi. - Antonio Padellaro
“Una volta Indro Montanelli rivolse al ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, questo appello: ‘Passerai alla storia se riuscirai a far scrivere leggi in modo che tutti le capiscano… L’impresa chiesta da Montanelli non fu compiuta. Solo parzialmente avviata. E così certe leggi italiche continuano a somigliare ai verdetti dell’Oracolo di Delfi”.
Mario Nanni, “Parlamento sotterraneo”
(Rubettino)
C’è da rabbrividire a leggere sul “Sole 24 Ore” che stiamo per essere investiti da una gigantesca valanga legislativa: “Quattro decreti legge Ristori che il Parlamento accorperà in unico provvedimento di conversione”. Uno sgomento che traspare dalle parole di Giorgio Santilli, autore del terrificante resoconto: “Una sorta di testo unico dei Ristori, messo a punto a base di emendamenti e subemendamenti, in attesa del quinto decreto Ristori, post-natalizio, già annunciato”. E dunque, ci permettiamo di correggere il cauto ottimismo del collega Mario Nanni: purtroppo no, l’impresa auspicata da Montanelli non solo non ha provocato miglioramenti nella comprensione delle leggi, ma col trascorrere degli anni (e delle Repubbliche) l’ermetismo normativo si è aggravato ulteriormente. A causa soprattutto della massa informe di provvedimenti che, quasi ogni giorno, vengono prodotti e imballati dal Parlamento. Proprio in queste ore al carico di 83 decreti attuativi previsti dalla sola legge di Bilancio si sommeranno i 185 provvedimenti attuativi già previsti dai decreti Covid non ancora varati. Con una produzione complessiva di cellulosa (268 fascicoli) destinata a incidere sul disboscamento globale.
La lunga esperienza avuta come capo della redazione politica dell’Ansa ha consentito a Nanni di tracciare un interessante paragone tra la politica di ieri e quella di oggi, in un album dei ricordi dove “miserie e nobiltà, scene e figure” si accavallano in un racconto sempre godibile. Un mondo che anche chi scrive ha conosciuto, con qualche anno di anticipo, consumando come lui le suole alla ricerca affannosa di notizie nel Transatlantico di Montecitorio. Detto dei “Passi Perduti” a significare probabilmente l’eterna fatica di Sisifo di chi tenta di dare un ordine al caos, di fornire un metodo all’improvvisazione, di cogliere una morale della favola che tuttavia non c’è. Alla fine (non so Mario) mi sono come rassegnato all’ineluttabile: la politica e la vita reale sono dimensioni destinate a non incontrarsi mai. Per questo il tentativo di trovare una comunicazione tra il linguaggio esoterico delle leggi e la lingua di noi umani è puramente vano. Perché le leggi che noi (esattamente come Montanelli) giudichiamo scritte coi piedi, in un groviglio inestricabile di incidentali, parentetiche e richiami continui ad altri arcani normativi citati in forma di sigle e numeri, sono – per chi sa come leggerle – meravigliosi poemi, limpidi e trasparenti come acqua che sgorga dai ruscelli alpini.
L’importante, infatti, è che chi sappia comprendere comprenda, e per due ragioni fondamentali. La prima è che quella massa apparentemente informe di parole è tale poiché rappresenta il frutto di mille faticose mediazioni intessute da partiti, fazioni e conventicole varie, e dove ciascuno ha ottenuto qualcosa. Ma quel gigantesco pagliaio è anche il luogo ideale per nascondere il prezioso ago agli occhi di noi profani. Si tratta di quei minuscoli codicilli che rappresentano la fortuna delle lobby, e delle loro utili proiezioni in Parlamento e nella Pubblica amministrazione. Del resto, non fu la Sibilla a scoprire che bastava spostare una virgola per cambiare il senso di una frase, secondo il desiderio di questo o quel committente? “Ibis redibis non morieris in bello”: chissà, potrebbe servire come traccia per il prossimo decreto Ristori.
Longo, prima grana: 8 mln di fatture sparite a Cosenza. - Stefano Vergine
L’azienda sanitaria - Ha 361 milioni di euro di debiti, trasformati in parte in bond. Ma non si trovano più le ricevute delle operazioni.
A Cosenza l’ultima richiesta è arrivata lo scorso agosto: versare 8,3 milioni di euro. Sull’unghia, altrimenti si va in tribunale. È su questa nuova bomba su cui si è appena seduto Guido Longo, neo commissario alla sanità calabrese. L’intimazione di pagamento spedita alla Azienda sanitaria locale (in Calabria si chiamano Asp) è firmata da una società di Milano: la Tocai Spv Srl. I proprietari ultimi della Tocai non sono noti, l’impresa è controllata da un trust, il Rubino Finance, che gestisce una serie di altre aziende attive nello stesso business: debiti della sanità, in particolare sanità calabrese, la più disastrata d’Italia. Circa 11 anni di commissariamento e un buco in bilancio che si allarga di anno in anno.
La Corte dei Conti dice che la sanità pubblica della regione ogni anno perde 105 milioni di euro, e il buco si aggiunge ai debiti accumulati. Solo quelli con i fornitori privati valgono 1,1 miliardi di euro (dati 2019). Tra questi, ci sono quelli di società come la Tocai Spv. Le Spv (Special purposevehicles) sono società-veicolo, fanno cartolarizzazioni. Negli ultimi anni, molte si sono buttate su questa nuova nicchia di mercato. Fanno affari rivendendo crediti di aziende private nei confronti delle Asl italiane.
Funziona così. Molte aziende private convenzionate con il sistema sanitario nazionale, come le cliniche e le Rsa, dovrebbero essere pagate per le prestazioni effettuate in convenzione dalla propria Asl di riferimento, ma invece di aspettare il pagamento (solitamente in ritardo) vendono il loro credito a queste società-veicolo, in cambio di liquidità immediata. Le Spv si accollano il rischio di recuperare il credito a fronte di un prezzo d’acquisto vantaggioso. Poi trasformano questi crediti in titoli finanziari, impacchettandoli in bond da vendere agli investitori. La Tocai nel suo bilancio dice di aver comprato in totale fatture da aziende sanitarie private per 10,5 milioni di euro, pagandole 9,6 milioni. E le ha di fatto rivendute, a investitori istituzionali non meglio specificati, trasformandole in obbligazioni. Titoli che promettono un ottimo rendimento: 5,5% annuo.
È così che si è messo in moto il mercato dei bond sanitari in Calabria. Decine di Spv create negli ultimi quattro-cinque anni per fare profitti, sfruttando la malagestione della sanità locale. Come nel caso dei mafia bond, scoperti mesi fa da un’inchiesta del Financial Times.
Per la Corte dei Conti, le doppie e triple fatture della Asp di Reggio Calabria sono poca cosa rispetto a quanto successo Cosenza. Sul totale di 1,1 miliardi di debiti verso i fornitori privati, la Asp di Cosenza è la più indebitata delle cinque aziende sanitari della regione, con un fardello di 361 milioni. Il numero ufficiale potrebbe non essere esaustivo, visto quanto sta succedendo proprio con la Tocai. Quando ad agosto la società milanese ha chiesto il pagamento di vecchie fatture per 8,3 milioni di euro, alla Asp di Cosenza sono saltati sulla sedia. Due dirigenti hanno scritto alla loro capa, Cinzia Bettelini, commissario della Asp, per comunicare che quelle fatture non “non erano registrate nella contabilità aziendale”, si legge nei documenti. Com’è possibile che la Asp Cosenza non avesse mai registrato fatture per 8,3 milioni? E quanti altri debiti del genere gravano sul bilancio regionale?
A una richiesta di intervista il commissario Bettellini non ha risposto. Una dirigente interna all’azienda sanitaria locale, chiedendo l’anonimato, ci ha confermato che “le fatture non ci sono. Tutte quelle con la Tocai sono state saldate: le fatture che ci chiedono ora sono inesigibili, potrebbero essere fatture che l’azienda privata da cui le hanno comprate non ha mai inviato a noi”. Tocai ci ha fatto sapere di essere in possesso di tutte le garanzie che il credito in questione è certo, liquido ed esigibile, aggiungendo che proprio quelle fatture sono “oggetto di un giudizio davanti al Tribunale di Cosenza”, in cui la difesa dell’Asp Cosenza “non ha mai contestato la mancata ricezione delle fatture”.
Come se non bastasse, l’azienda privata da cui Tocai ha comprato i crediti nel frattempo è fallita. È la Casa di Cura Tricarico. La Procura di Paola ipotizza la bancarotta fraudolenta. Alcuni dei titolari l’avrebbero spolpata usando i soldi dell’azienda per fini personali, per questo a giugno sono stati arrestati.
Chi pagherà alla fine gli 8,3 milioni che mancano? La Asp Cosenza o l’anonima società milanese? All’azienda sanitaria costerebbe un po’ di debito in più, particolare di un fenomeno generale, quello della finanziarizzazione dei crediti sanitari di una regione, la Calabria, che oggi non ha abbastanza posti per ricoverare i malati di Covid. Ma anche per Tocai sarebbero dolori. “Il servizio titoli emessi, in linea interessi e capitale, è assicurato unicamente dagli incassi derivanti dal portafoglio crediti”, scrive nel bilancio la società. Significa che se da Cosenza non pagano, le cose rischiano di mettersi male anche per chi ha investito in quei bond.
Governo: Partita rimpasto agita la maggioranza. Conte prudente.
Arriva regia Recovery. Testa politica "a 3" con ipotesi 6 manager.
Un rimpasto "pilotato". Un cambio di squadra che dia slancio al governo ma non precipiti tutti in una crisi dagli esiti insondabili.
Con "un passo avanti", cioè un coinvolgimento più diretto, dei leader dei partiti di maggioranza.
Ecco il progetto accarezzato da mesi da Matteo Renzi, con una parte maggioritaria del Pd e un pezzo di M5s. Potrebbe concretizzarsi "entro l'Epifania", secondo i desiderata di Iv, o "dopo l'emergenza", teorizza dal Pd Goffredo Bettini indicando un orizzonte che potrebbe essere quello della distribuzione del vaccino.
Il premier Giuseppe Conte la parola rimpasto non ha mai voluto pronunciarla e si oppone a ipotesi come quella di farsi affiancare da due vicepremier, come nella stagione M5s-Lega. Ma è chiaro che lo spettro di un cambio di squadra agita i suoi ministri. Le smentite, perciò, fioccano. Ma l'ipotesi esiste: se ne parlerà, nel governo, a valle del lavoro sul programma di legislatura e soprattutto sul Recovery plan, per il quale inizia a delinearsi la cabina di regia.
"Al di la del mio coinvolgimento, fintanto che c'è questa crisi credo sia un po' strano parlare di poltrone", dice la ministra dei Trasporti Paola De Micheli che rispondendo su Radio Capital ad una domanda sul possibile rimpasto di governo nel quale si ipotizza il suo cambiamento afferma: "Io vado avanti a lavorare con grande tranquillità e con grande determinazione nel ministero che ho il piacere, l'onore e l'onere di guidare". La ministra ha sostenuto che il suo lavoro "è sotto gli occhi di tutti" e "credo che abbiamo dato grandi risultati e che il governo debba andare avanti con questa determinazione". "Mi concentro sul mio lavoro, che è il mio dovere assoluto - ha aggiunto - anche il sabato e la domenica".
Dal M5s a difesa dei ministri si erge Vito Crimi che parla di "ipotesi fuori dalla realtà", ma tra le fila pentastellate c'è chi un rimpasto non lo esclude. Nel Pd Nicola Zingaretti nega di voler entrare nel governo e si mostra concentrato sull'emergenza Covid. Ma Bettini caldeggia una "ripartenza" del governo con la regia di Conte.
Conte prova inoltre a definire la "governance" dei piani legati al Recovery e, dopo le tensioni legate a un'ipotesi di cabina di regia a Palazzo Chigi, propone una "testa" politica a tre Conte-Gualtieri-Patuanelli, affiancati dal comitato interministeriale Ciae, e da sei manager che vigilerebbero sui sei cluster di progetti del Recovery, col potere di sostituirsi ai soggetti attuatori. Ad Enzo Amendola andrebbe il raccordo con l'Ue. Ma questa ipotesi è destinata a far discutere chi, nella maggioranza, vorrebbe limitare il ruolo di manager esterni.
Vertice in serata del premier Giuseppe Conte con i capi delegazione di maggioranza e i ministri Roberto Gualtieri ed Enzo Amendola sul Recovery plan. Nella riunione, presente il sottosegretario Riccardo Fraccaro, si è discussa la struttura di governance del Piano di rilancio e resilienza ma il dibattito, viene spiegato, è stato interlocutorio e il confronto è ancora aperto, a partire dal ruolo ipotizzato per i sei manager che dovrebbero gestire i sei "cluster" in cui si divide il piano. Una decisione dovrà essere presa nei prossimi giorni, per poi tradurre la norma che regolerà la struttura di governance in un emendamento alla manovra. Ma è destinato a proseguire il dibattito in maggioranza sulla cabina di regia (l'ipotesi è affidarla a Chigi, Mef e Sviluppo economico) e sul ruolo delle figure tecniche chiamate a verificare l'esecuzione del piano.
(foto Ansa)
https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/11/27/governo-a-conclave-braccio-di-ferro-sul-natale.-de-micheli-strano-ora-parlare-di-poltrone_6fc7a220-dc28-4b8d-9075-da6a585a44da.html