lunedì 16 agosto 2021

L’uso del cellulare alla guida è sanzionato anche se si è fermi al semaforo. - luisa Marraffino

 

La giurisprudenza ha precisato che è vietato utilizzare il telefonino nella circostanza: anzi, il conducente dovrebbe prestare particolare attenzione, essendo un momento di pericolo che non ammette distrazioni.

Domanda. Sono stato multato perché tenevo il cellulare con la mano destra, allo scopo di inviare un messaggio vocale, mentre ero fermo al semaforo. Posso impugnare il verbale?
B.G. Sondrio

Risposta. Si ritiene che la risposta sia negativa. L’articolo 173, secondo comma, del Codice della strada (Dlgs 285/1992) vieta al conducente di fare uso del cellulare durante la marcia, a meno che non utilizzi il viva voce o gli auricolari. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che è vietato fare uso del cellulare (inviando sms, mail, messaggi audio eccetera) anche quando si è fermi al semaforo: anzi, il conducente dovrebbe prestare particolare attenzione proprio durante l’arresto al semaforo, essendo un momento di pericolo che non ammette distrazioni (si veda Corte di cassazione, sezione II, sentenza 23331 del 23 ottobre 2020).
Inoltre è vietata la guida con una sola mano, mentre l’altra è impegnata a tenere il cellulare. In questo comportamento si ravvisa infatti una condotta pericolosa, visto che entrambe le mani devono rimanere libere per le operazioni che la guida comporta, prima fra tutte il cambio di marcia, in caso di necessità (Tribunale di Arezzo, sentenza 106 dell’8 febbraio 2021).

Il quesito è tratto dall'inserto L'Esperto risponde uscito in edicola con Il Sole 24 Ore di lunedì 9 agosto, un numero speciale dedicato alle domande e alle risposte sul tema “Liti, multe, famiglia ed eredità”.

Consulta L'Esperto risponde per avere accesso a un archivio con oltre 200mila quesiti, con relativi pareri. Non trovi la risposta al tuo caso? Invia una nuova domanda agli esperti.

IlSole24Ore

Il Fisco punta a recuperare 12,6 miliardi dall’evasione. - Marco Mobili e Giovanni Parente

 

Si punta a ridurre il tax gap del 5% nel 2023 e poi del 15% nel 2024. Per centrare l'obiettivo digitalizzazione e impulso alla compliance, portando a 2,8 miliardi il gettito da autocorrezioni.

Lo schema è chiaro e l’ex capo di gabinetto del Mef e ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio lo ha ricordato al ministro dell’Economia Daniele Franco: potenziare l'infrastruttura informatica per semplificare gli adempimenti dei contribuenti ma soprattutto ridurre la distanza tra quanto dovrebbe entrare nelle casse dello Stato e quanto realmente i contribuenti versano come imposte. E quest’ultimo obiettivo è già cifrato: nel 2023 il tax gap dovrà essere ridotto del 5% rispetto al gap del 2019. A conti fatti si tratta di poco più di 4 miliardi di euro che però diventano più di 12 miliardi con la riduzione a regime del 15% del tax gap nel 2024.

Si tratta per altro di una somma al ribasso perché, come scrive Roberto Garofoli nell’allegato alla breve missiva sui target che ogni amministrazione dovrà centrare in nome del Pnrr, la differenza tra incassato e dovuto riferito al 2019 non deve tener conto del differenziale su accise e imposte sul mattone, come può essere l’Imu.

Centrare l’obiettivo di riduzione del tax gap vuol dire comunque recuperare in modo strutturale risorse che fino a oggi alimentano soltanto il sommerso. Una risultato ambizioso che, secondo le indicazioni inviate al Mef, potrà essere centrato seguendo soprattutto due direttrici principali. Da una parte il potenziamento della compliance ovvero dell’adempimento spontaneo del contribuente invitato a chiarire eventuali posizioni incongruenti tra quanto dichiarato e quanto effettivamente versato al fisco. La seconda linea d’azione è il completamento del processo di pseudonimizzazione e analisi dei big data per potenziare le analisi di rischio nella selezione dei soggetti da sottoporre a controllo.

Sotto il primo fronte c’è una progressione molto chiara segnalata nella lettera di Garofoli, che punta a obiettivi non solo quantitativi ma anche qualitativi. Il primo traguardo è fissato a fine 2022: aumentare del 20% il numero degli alert inviati ai contribuenti e del 15% il gettito. In entrambi i casi la “maggiorazione” va rapportata all’ultimo anno prima della pandemia (2019) e quindi dovrebbe tradursi, rispettivamente, in quasi 2,6 milioni di lettere e 2,5 miliardi di recupero. Ma - e questo è il target qualitativo - va ridotto di almeno il 5% il numero di falsi positivi. In pratica l’utilizzo dei database deve puntare sempre più a comunicazioni mirate, ossia dirette a contribuenti per i quali vi siano davvero situazioni di anomalia. Il secondo traguardo, invece, è fissato a fine 2024 con il numero di lettere da aumentare del 40% e il gettito del 30 % sempre rispetto al risultato 2019. A conti fatti significa puntare a quasi 3 milioni di lettere e a 2,8 miliardi di gettito aggiuntivo. E nell’ottica di accompagnamento alla compliance va letta anche la strada già intrapresa della precompilata Iva. A settembre c’è il primo appuntamento con i registri precompilati, ma bisogna arrivare anche alla dichiarazione che però partirà dalle operazioni 2022 e quindi arriverà a partire dal 10 febbraio 2023. Il tutto interesserà un numero molto elevato di imprese e professionisti: 2,3 milioni di partite Iva.

Come anticipato, la seconda linea d’azione punta a mettere finalmente a punto la pseudoanonimizzazione dei dati, prevista dalla legge di Bilancio 2020. L’idea è di utilizzare il patrimonio informativo dell’amministrazione per costruire dei modelli di rischio evasione attraverso dei dati preventivamente anonimizzati. Da lì, poi, si potrebbe calare nella realtà gli indici di rischio e procedere alla fase dei controlli sui soggetti ritenuti più pericolosi. La messa a punto - vista la delicatezza delle informazioni trattate - richiede di trovare una quadra con il Garante della Privacy. Dopo di che, si tratterà di sviluppare i modelli informatici. Ma ora la raccomandazione di Garofoli potrebbe accelerare i tempi.

IlSole24Ore

domenica 15 agosto 2021

No alla sfiducia: soccorso di Renzi al fascioleghista. - Gia. Sal

 

La posizione ufficiale è che se ne parlerà al ritorno dalle vacanze e quando si riuniranno i capigruppo di Camera e Senato. Ma l’indirizzo è già chiaro: Italia Viva non ha intenzione di votare la mozione di sfiducia individuale che sarà presentata a settembre da Pd, M5S e LeU contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon. E non tanto perché nel partito di Matteo Renzi non si ritengano gravi le parole del fedelissimo di Matteo Salvini che il 4 agosto ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Falcone e Borsellino. Tant’è che i maggiori esponenti del partito – da Teresa Bellanova (“bruttissima pagina di politica”) a Davide Faraone (“offendere due eroi antimafia dovrebbe essere reato”) – hanno attaccato a testa bassa Durigon. No, il problema, secondo i renziani, è che una mozione di “censura” contro Durigon – unico strumento per chiedere formalmente al premier di revocargli le deleghe – sarebbe una mozione contro il governo Draghi.

La posizione è stata espressa ieri su La Stampa da Ettore Rosato, presidente del partito renziano, che ha fatto sapere che i voti di Italia Viva non ci saranno perché la mozione di “censura” sarebbe di fatto contro Draghi. Una posizione confermata da fonti di Italia Viva secondo cui a decidere dovrebbe essere prima il presidente del Consiglio Draghi, in un caso o nell’altro. Anche Luciano Nobili, deputato romano molto vicino a Renzi lo dice dritto: “Le parole di Durigon sono inaccettabili e vanno condannate – spiega – ma non spetta a noi decidere se deve dimettersi. Per me il caso è chiuso”. Anche il deputato renziano Camillo D’Alessandro, spesso critico nei confronti di Renzi, spiega: “Vedremo cosa fare e Durigon ha detto una cosa grave: ma non l’ha detta rappresentando il governo quindi l’esecutivo non dovrebbe essere investito in questa vicenda”.

La posizione di Italia Viva mette in difficoltà Pd, M5S e LeU che speravano di poter contare su numeri larghi una volta calendarizzata la mozione. Senza i renziani, infatti, i giallorosa non solo non hanno la maggioranza al Senato ma rischierebbero di non averla nemmeno alla Camera dove Iv ha 28 deputati e senza di essi il centrosinistra può contare su 281 parlamentari: per arrivare alla maggioranza di 315 dovrebbe sperare nei 15 ex grillini de “L’Alternativa C’è” che hanno fatto una lunga battaglia contro Durigon e nella ventina di ex 5S che non sono iscritti a nessun gruppo. Numeri risicati, a meno che non arrivi qualche sostegno dal centrodestra. Ipotesi irrealistica visto che né Coraggio Italia né Azione hanno intenzione di sostenere la mozione Pd-M5S: “Durigon dovrebbe dimettersi ma votare la sfiducia in Parlamento vuol dire creare problemi seri al governo” dice Carlo Calenda.

I segnali del soccorso di Iv alla Lega c’erano già: Renzi è l’unico leader a non aver detto una parola sul caso Durigon. Eppure, di occasioni ne ha avute eccome: due presentazioni del libro “Controcorrente” ­e due e-news. Nel frattempo ha dedicato i suoi tweet a qualunque cosa: il reddito di cittadinanza, le Olimpiadi, il ritiro di Valentino Rossi, la guerra in Afghanistan. Ma su Durigon non una parola. Anche Draghi tace. “Ogni giorno chiederemo al premier di ritirargli le deleghe” dice il senatore Sandro Ruotolo.

ILFQ

Il fatto non dovrebbe suscitare meraviglia; è da quando ha perso il referendum che Renzi fa il contrario di ciò che andrebbe fatto come una sorta di vendetta messa in atto nei confronti di chi, noi italiani, non lo ha osannato approvando la sua "schiforma" costituzionale. 

Da quel momento lui si è presentato alle elezioni per il Senato che voleva abolire, ha approvato e appoggiato leggi presentate dalla destra, commette incongruenze malcelando la sua impunità, ha fatto cadere un governo eletto dal popolo...

E' come se volesse dimostrare che chiunque al suo posto può fare le stranezze più assurde senza subire alcun danno.

Basterebbe, forse, non dargli la linfa vitale della quale si nutre, la pubblicità, per spomparlo e privarlo della sfrontatezza della quale fa mostra.

c.

Cartabia sul Ponte: piovono balle, promesse e omissioni. - Marco Grasso

 

Genova - L’azzardo: “Nessuna prescrizione per il maxi-processo”.

“Lo voglio dire qui, davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai stato rischio per il processo sul Ponte Morandi”. Lo ha detto ieri il ministro Marta Cartabia: nessuna prescrizione per il maxi-processo di Genova. Il palco è quello dove si commemora il terzo anniversario della strage del viadotto Polcevera. A questo passaggio il pubblico applaude. In platea ci sono molti familiari delle vittime del crollo. È a loro che si rivolge la Guardasigilli, con un argomento quantomeno singolare: la sua riforma, sembra quasi volerli rassicurare, non si applicherà al loro processo. E accusa chi dice il contrario di “disonestà intellettuale” e di “allarmismo infondato” che “aggiungono ulteriore dolore”.

Ma ecco le parole esatte usate nel suo intervento: “Nelle ultime settimane so che è stata per voi e per tutta la città fonte di preoccupazione l’opinione, del tutto destituita di fondamento, per cui la riforma del processo penale potrebbe frustrare la vostra bruciante domanda di verità e giustizia. Lo voglio ripetere qui davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai, mai stato alcun rischio per il processo sul Ponte Morandi. Anzi, avendo ascoltato le vostre parole questa mattina, c’è un pensiero che non posso tacere. Bisognerebbe riflettere più di una volta prima di diffondere opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un così grande dolore. Basterebbe leggere il testo della riforma, e non serve un giurista per verificare che si applica a reati successivi al 1 gennaio 2020. Ma questo sarebbe poco. Non solo il processo per il Morandi, ma tutti i processi che riguardano altri gravi disastri, o qualunque altra vicenda umana, debbono essere portati a termine. Il governo ha lavorato a questa riforma per assicurare un accertamento tempestivo di tutte le responsabilità, non per stroncare il lavoro dei giudici”.

Il discorso ufficiale è stato affiancato da un incontro con i familiari delle vittime. Un colloquio in cui la ministra ha esposto sostanzialmente quattro concetti. Il primo è lo stesso ribadito davanti ai microfoni: l’irretroattività della norma. Il secondo: i processi particolarmente complessi avranno strade preferenziali. Terzo: la giustizia viaggerà più rapida grazie alle 8 mila figure che verranno inserite (a tempo determinato) nell’ufficio del processo. Quarto: Cartabia ha spiegato di avere in mente la creazione di una “task force” di 200 magistrati “mobili”, che andranno a coprire le emergenze di volta in volta. In altre parole: “Nessuna tagliola, vogliamo che tutti i processi arrivino in fondo”. Ma è davvero così?

Partiamo dalla questione principale: la riforma non riguarderà il processo sul Ponte Morandi. Sul Fatto è stato scritto più volte il motivo per cui questa affermazione potrebbe essere smentita: una norma che interviene su una questione “sostanziale” come la pena, può essere impugnata davanti alla Corte Costituzionale, per chiedere che abbia efficacia retroattiva (secondo il principio del favor rei: un imputato ha diritto a essere giudicato secondo la legge a lui più favorevole). In altri termini, se l’appello durasse più di due anni o il processo in Cassazione più di uno, qualunque avvocato potrebbe presentare a nome di un cliente condannato un’eccezione di costituzionalità. E sarebbe tutt’altro che infondata. Un’opinione condivisa da molti giuristi, magistrati e avvocati. È a questa platea che si rivolge la ministra quando parla di “opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un cosi grande dolore” o solo a quei giornalisti che mettono una cosa in connessione con l’altra? Secondo argomento: le corsie preferenziali per processi di “particolare complessità”. Qui sono i costituzionalisti che hanno già lanciato avvertimenti: ogni volta che si creano binari speciali, l’incostituzionalità è dietro l’angolo. Perché reati puniti con la stessa pena, rischiano di essere giudicati con regole diverse (un esito illogico). E sui reati comunitari potrebbe essere l’Ue a censurare l’Italia per bloccarne l’improcedibilità.

Quanto alle risorse aggiuntive (i cui meriti invero andrebbero riconosciuti a Bonafede), qui la questione discutibile è accostare le 8 mila assunzioni di assistenti giudiziari alla promessa di concludere tutti i processi d’appello entro due anni, e in Cassazione entro uno: si può davvero fare senza assumere nuovi magistrati? Quanto all’idea della “task-force”, assomiglia a un rafforzamento di figure già esistenti, i magistrati in applicazione extra-distrettuale: spesso usati come “jolly”, e per questo poco specializzati, sono figure raramente risolutive, se i problemi sono strutturali (uffici che accumulano costantemente più fascicoli di quanti ne possono smaltire). La rassicurazione finale: un cuscinetto di 4 anni, dice la ministra, permetterà di valutare l’efficacia della norma e valutare eventuali modifiche. Peccato che non sia farina del suo sacco, ma il compromesso uscito dalla trattativa con Giuseppe Conte.

ILFQ


Green pacco. - Marco Travaglio

 

Da ultramaggiorenne, ultravaccinato e greenpassmunito, m’illudo di poter sollevare qualche legittimo dubbio sul pensiero unico che ci circonda senza venire iscritto d’ufficio al partito dei Negazionisti No Vax-No Pass e trascinato con loro sulla pira dei pirla.

1. Un anno fa (con zero vaccinati) avevamo un terzo di contagi e un ottavo di morti al giorno rispetto a oggi (con 2/3 della popolazione vaccinata). Il 13 agosto 2021 sono morti in 45 e il tasso di positività (rapporto tamponi/contagiati) era al 3,28%, contro i 6 e l’1,02 del 13 agosto 2020. L’altroieri i ricoverati in terapia intensiva erano +17 e nei reparti ordinari +58, contro i +2 e i +7 di un anno fa. I dati erano molto inferiori a oggi anche il 13 settembre, dopo l’estate folle delle discoteche aperte: 7 morti, positività all’1,6%, +5 in terapia intensiva. Bastano la variante Delta e il mancato lockdown nel 2021 a spiegare il terribile paradosso? O i vaccini (che continuiamo a raccomandare perché riducono i rischi di morte e di ricovero) sono molto meno efficaci e molto più perforabili di quanto si pensasse?

2. Ancora il 13 ottobre, quando Conte varò il primo Dpcm contro la seconda ondata, i morti erano meno dell’altroieri (41 contro 45). Eppure i giornaloni accusavano il governo di inerzia e gli esperti veri o presunti invocavano il lockdown: quanti morti servono ora perché qualcuno chieda a Draghi &C. almeno una parola chiara?

3. Più che della legittimità filosofico-giuridica del Green pass, bisognerebbe discutere della sua utilità pratica. Cosa risponde il governo a Crisanti che lo accusa di mentire spacciandolo per una misura sanitaria mentre non lo è? Se anche i vaccinati possono contagiarsi (stessa carica virale dei non vaccinati: Fauci dixit), contagiare e persino morire (sia pur in misura molto inferiore ai non vaccinati), che senso ha dividere i cittadini di serie A da quelli di serie B, alimentando per giunta l’illusione che i primi non siano contagiosi e che chi li avvicina non debba mantenere le distanze e le mascherine?

4. Siccome il Green pass non è revocabile, ogni giorno aumenta il rischio di incontrare contagiati-contagiosi muniti di carta verde e dunque travestiti da immuni: non sarebbe meglio mantenerlo come incentivo ai vaccini, ma smetterla di farne un passepartout e puntare a ridurre i contagi con tamponi gratuiti e il binomio distanziamento-mascherine nei luoghi affollati? La risposta è nota: ma così si scoraggiano i vaccini. Se però questi coprono le varianti solo fino a un certo punto, anzi le scatenano, qual è lo scopo della campagna anti-Covid: comprare più vaccini o avere meno contagi?

5. Chiunque sollevi qualche dubbio passa per un fottuto No Vax: ma siamo sicuri che le bugie e le omissioni, anziché ridurre i No Vax, non li moltiplichino?

ILFQ

Recovery plan, Governo alla prova delle riforme e della spending review. - Dino Pesole

Illustrazione di Andrea Marson/Il Sole 24 Ore

 

Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma il sostegno a quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca).

Prima che esplodesse la pandemia, la pausa estiva ha coinciso per anni con il rituale richiamo da parte del ministro dell’Economia ai singoli titolari dei vari dicasteri perché cominciassero a predisporre per la ripresa autunnale il piano di razionalizzazione delle spese di competenza di ciascun ministero.
Inviti che spesso dovevano fare i conti con la naturale resistenza dei responsabili dei singoli dicasteri, poco propensi ad assecondare nuove stagioni all’insegna del rigore e dello stretto controllo dei conti pubblici.

Quest’anno, la lettera firmata nei giorni scorsi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli e l’invito rivolto dal ministro dell'Economia, Daniele Franco con il decreto ministeriale in cui di fatto si avvia la fase di realizzazione degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno tutt'altro tenore: l’invito rivolto a tutti i ministeri è prima di tutto ad attrezzarsi per tempo perché l’obiettivo primario è rispettare gli impegni assunti con l’Unione europea.

I primi 25 miliardi e le prossime mosse del Governo.

La ratio che muove la linea d’azione del Governo si articola sostanzialmente su alcuni punti fermi. L’arrivo dei 24,9 miliardi dei fondi europei (sul totale di 191,4 miliardi assegnati all'Italia da qui al 2026) va inteso come una sorta di anticipo. Le relative risorse sono già impegnate e i primi progetti in rampa di lancio sono definiti: 106 progetti che nel Pnrr sono elencati nel dettaglio.
È il ministero dell’Economia a ripartire i fondi tra i vari dicasteri, e sarà lo stesso dicastero guidato da Daniele Franco a monitorare le fasi di attuazione dei progetti. La lettera di Garofoli sposta al tempo stesso il focus sull’altro decisivo fronte, non meno impegnativo, del Recovery Plan: quello delle riforme. Come indicato dalle linee guida di Bruxelles, e come recepito dallo stesso Pnrr, investimenti e riforme devono marciare in parallelo. Sono gli investimenti a garantire il successo delle riforme, e al tempo stesso sono le riforme il motore per far sì che gli investimenti vadano a buon fine.

La sfida dell’autunno e le riforme in cantiere.

Alla ripresa dei lavori, dopo la pausa estiva, è in agenda il varo di riforme strutturali ritenute prioritarie da Bruxelles, e che il Governo dovrà cercare di portare ad approvazione entro l’anno.
In rampa di lancio la riforma della giustizia civile, che dovrà completare il ciclo di interventi avviati con il faticoso varo della riforma del processo penale. Sarà tutt'altro che facile trovare una sintesi tra le diverse e per molti versi antitetiche ricette messe in campo dai partiti che sostengono il Governo.
Compito non meno impegnativo attende il disegno di legge delega che dovrà avviare il cantiere della riforma del fisco. Non sarà tanto il contenuto della legge “cornice” a creare problemi (il ddl delega contiene le linee portanti della riforma), quanto la successiva fase attuativa che sarà affidata ai relativi decreti legislativi.
Anche sul versante delle nuove misure in materia di concorrenza il confronto all’interno della maggioranza si annuncia tutt’altro che semplice, come già emerso nelle fasi iniziali di predisposizione del testo, che non a caso si è deciso di rinviare a settembre.

Non solo risorse in arrivo ma anche attenzione ai conti pubblici.

Tra gli impegni che il Governo ha assunto con Bruxelles e che tra breve torneranno puntuali ad animare il dibattito politico compare una nuova ed aggiornata versione della spending review, in sostanza un programma triennale di riqualificazione della spesa pubblica (con relativo taglio di quella che puntualmente viene definita “spesa improduttiva”) che dovrebbe partire dal 2023.

Diversi sono stati negli ultimi decenni i tentativi (affidati anche ai cosiddetti commissari) per porre sotto controllo la dinamica della spesa corrente. Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma un’operazione a tutto campo che preveda di sostenere quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca) e al tempo stesso di contenere l'aumento di voci di spesa su cui sarà possibile intervenire.

È il caso delle cosiddette “tax expenditures” (spese fiscali), altro settore su cui da anni si prova a intervenire con scarso successo. L’arrivo delle tranche del Recovery Fund è condizionato al rispetto del cronoprogramma (riforme e investimenti) ma non può essere interpretato come una sorta di “liberi tutti” che apra una stagione all'insegna del deficit spending (spesa in disavanzo). Ne è ben consapevole il ministro dell’Economia, Daniele Franco che ben conosce i meccanismi che alimentano i flussi di spesa nel nostro paese.

Deficit e debito sotto controllo.

La gestione oculata della finanza pubblica non è certo in controtendenza rispetto a una fase che vede il nostro paese come principale beneficiario dei fondi del Next Generation EU. Intanto occorre ricordare che una parte non certo secondaria dei fondi europei, pari a 122,6 miliardi, è rappresentata da prestiti che dunque andranno restituiti, se pur con scadenze non certo perentorie.
In secondo luogo, l’Italia (quale che sia il Governo che sarà chiamato a rappresentarla nei prossimi anni) dovrà comunque garantire un graduale e credibile percorso di riduzione del debito pubblico, che quest’anno lambirà il 160% del Pil.

Lo imporranno le condizioni di finanziamento del debito, quando la politica monetaria della Bce tornerà ad attestarsi su un sentiero di “normalità, e lo imporranno le nuove regole in materia di disciplina di bilancio europea che scatteranno a partire dal 2023, quando cesserà il triennio di sospensione del Patto di stabilità.

E qui torna in campo nuovamente il mix di riforme e investimenti che se attuate e realizzate secondo gli impegni assunti con Bruxelles potranno spingere sul pedale della crescita e dunque garantire la piena sostenibilità del debito pubblico nel medio periodo.
Non sono ammessi dunque ritardi e deviazioni dal percorso concordato. Una constatazione di cui dovrebbero essere consapevoli, al di là della propaganda, tutte le forze politiche. Se il Financial Times cita il nostro Paese come un esempio virtuoso, grazie soprattutto alla notevole credibilità di cui gode il presidente del Consiglio, Mario Draghi, pare evidente che questo patrimonio di rinnovata fiducia non va in alcun modo disperso.

Le prossime scadenze politiche, dalle elezioni amministrative di ottobre all’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica all'inizio del 2022, non devono in sostanza intaccare il patrimonio di credibilità conquistato a fatica negli ultimi mesi.

IlSole24Ore

Afghanistan, i talebani entrano a Kabul. Occidentali in fuga.

 

Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico.

Ultime ore per Kabul, capitale dell’Afghanistan, meta ultima della marcia di avvicinamento dei talebani che nelle ultime settimane hanno gradualmente messo sotto controllo il resto del Paese: i militanti sarebbero infatti entrati in città dove, secondo quanto riferiscono alcuni abitanti ai media stranieri, si sentono spari e sono in corso combattimenti. Secondo l’agenzia russa Ria Novosti i talebani hanno preso il controllo dell’università di Kabul, nella parte occidentale città, e hanno anche issato le loro bandiere in uno dei distretti. Ma l’ufficio stampa del palazzo presidenziale dell’Afghanistan ha negato l’attacco talebano, affermando che in alcune parti di Kabul si sono verificati solo sporadici colpi di pistola. Nessun attacco ha avuto luogo a Kabul, le forze di sicurezza e di difesa del paese e i partner internazionali stanno fornendo sicurezza alla città, ha spiegato sui social media un funzionario governativo.

Talebani: ordine è di non entrare a Kabul.

In una nota, i talebani affermano però di non avere intenzione di prendere Kabul “con la forza”. Tre funzionari afgani hanno riferito all’Associated Press che i combattenti si trovavano già nei distretti della capitale di Kalakan, Qarabagh e Paghman. “La vita, la proprietà e la dignità di nessuno saranno danneggiate e la vita dei cittadini di Kabul non sarà a rischio”, hanno affermato i talebani. “L’Emirato islamico ordina a tutte le sue forze di attendere alle porte di Kabul, di non tentare di entrare in città”. Lo scrive su Twitter Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, come riporta Afp. Una fonte residente in un quartiere della capitale afghana ha comunque detto a Af che “vi sono combattenti talebani armati nella zona, ma non vi sono combattimenti”.

Jalabad caduta senza combattere.

Questa mattina, a conferma del controllo pressoché totale del Pese da parte dei talebani, è caduta la città chiave di Jalalabad, nell’est del Paese. La capitale della provincia di Nangarhar è stata catturata senza combattere, come hanno spiegato all’agenzia tedesca Dpa due consiglieri provinciali e un residente. I talebani sono entrati a Jalalabad alle 6 di questa mattina, hanno spiegato alla Dpa.

La cattura della città di Jalalabad con una popolazione stimata di oltre 280mila abitanti e di altre aree della provincia dà agli insorti il ​​controllo del valico di frontiera di Torkham, la più grande rotta commerciale e di transito tra l’Afghanistan e il Pakistan. I talebani ora controllano almeno 25 capoluoghi di provincia delle 34 province dell’Afghanistan. Tutte queste città sono state catturate nel giro di appena 10 giorni.

Diplomatici occidentali abbandonano il Paese.

Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico. Il presidente Usa Joe Biden ha autorizzato il dispiegamento in Afghanistan di ulteriori 1.000 truppe statunitensi, portando a circa 5mila il numero di militari statunitensi schierati per garantire quello che Biden chiama un “ritiro ordinato e sicuro” del personale americano e alleato dall'Afghanistan.

Le truppe statunitensi aiuteranno anche nell'evacuazione degli afgani che hanno lavorato con i militari durante la guerra di quasi due decenni. A conferma del timore che i talebani possano presto catturare Kabul, il personale dell'ambasciata degli Stati Uniti ha iniziato a distruggere urgentemente documenti sensibili.

IlSole24Ore